Intervista di Monica Di Sisto a Don Pasta
Un viaggio antropologico nella storia d’Italia fatto passando, casa per
casa, attraverso la cucina. Incontri con persone con una carica etica, politica
quasi inconscia. Odori e sapori vividi, con un retrogusto amaro: “con il mio
viaggio volevo dimostrare che il patrimonio della cultura popolare italiana,
quella coi piedi nella terra, sia ricco. E quanto non possa esistere
una classe dirigente che possa permettersi un pensiero di sinistra senza quel
mondo. Innanzitutto, perché non ti vota nessuno. Poi anche perché è
pieno di intelligenze libertarie. Con tutte le contraddizioni che ha,
il popolo funziona per la liberazione di se stesso e c’è solo da imparare da
quei meccanismi cognitivi con cui si rivolta, ancora oggi, anche se nessuno
sembra accorgersene”.
Daniele De Michele, Don Pasta, è un musicista, uno scrittore, un deejay, un
filmaker, un antropologo pensieroso, e tutto questo lo fa cucinando. Qualche
anno fa ha fatto un viaggio per l’Italia dove ha raccolto decine di storie, di
vite, di ricette, di cucine, e di pensieri.
Oggi 44 tra loro prendono la parola in un podcast di 22 puntate da
un’oretta circa: “La repubblica del soffritto”[i], pubblicato sulla piattaforma Audible e cucinato insieme a Sara Sartori e
Alice Gussoni. Ci sono storie di terra e storie di cucina, impastate da
curiosità, storia, emozioni, con un’esigenza senza fronzoli di senso storico e
politico, più stringente in periodi come questo.
Perché un podcast proprio ora e che cosa ti ha spinto a costruirlo?
Il podcast racconta un viaggio fatto qualche tempo fa ma riletto alla luce
del lockdown, con l’aiuto di due autrici molto femministe e guerrigliere. Ho
sentito il bisogno di rimettere mano a queste storie quando, nei giorni
del lockdown, tutti si sono messi a fare il pane, a comprare la farina,
dimostrando universalmente che, nel momento di maggiore smarrimento, abbiamo
fatto ricorso a quel sostrato culturale e pratico contadino e artigianale tutto
italiano, per ritrovare il senso delle nostre giornate.
Nel podcast questa memoria è esplorata in modo semplice, umano, espressa
anche in dialetto ma universale perché tutti si accorgono nei momenti
di difficoltà che non si può vivere senza i prodotti e i pensieri veri, non
industriali, senza quei tempi pieni e sensati. Sono vent’anni che sbatto,
che sbattiamo il cranio per spiegarlo, e il lockdown lo ha fatto riemergere nel
giro di poche ore.
Il fatto che fosse passato del tempo tra quel viaggio e la creazione del
podcast mi ha permesso di porgere questa esperienza con più distacco e
leggerezza, proprio come succede alle nonnine che ho incontrato e che riescono
a rimpastare vite molto dure e difficili con l’ironia, rendendole racconti
incredibili, persino divertenti.
Ma tu che cosa vai cercando, presentandoti tra case e cucine altrui, con
tutte queste strane domande?
Mi hanno mosso due esigenze. La prima più politica: la
consapevolezza che la sinistra, politici e intellettuali in testa, avesse completamente
abbandonato i bisogni del popolo e il suo modo di pensare. E che non esista
una sinistra che si possa ricostruire senza questi pensieri.
Quando a Bob Dylan rompevano i coglioni perché con “Like a rolling stone”
aveva perso la sua ispirazione originaria abbandonando la sua vena folk, lui
rispondeva che non si poteva pensare che la cultura popolare potesse morire per
mano di una sola canzone, perché la fantasia del popolo avrebbe
continuato a inventare arance a forma di testa, o anatre che camminano con i
piedi da uomini.
E’ un movimento di pensiero che nessuno può uccidere. Eppure la sinistra in
Italia è stata capace, nonostante il neorealismo, nonostante il cinema
italiano, De Filippo, Ernesto de Martino, Vittorio De Seta, di
abbandonare completamente l’intero patrimonio culturale popolare. Col mio
viaggio volevo dimostrare quanto questo patrimonio sia ricco, e quanto non
possa il popolo non possa non tornarci in un modo o nell’altro, e la cucina è
la strada più breve oggi, secondo me.
La sinistra italiana ignora il popolo per escluderlo e controllarlo, o solo
perché è un sinistra cittadina, urbana, con la puzza sotto al naso?
C’è un grande razzismo classista di fondo che allontana le classi sociali
italiane le une dalle altre, i penultimi dagli ultimi e così via a salire. La
media borghesia, per emanciparsi da quella storia da cui tutti proveniamo, il
mondo rurale, ha deciso di urbanizzarsi, di occidentalizzarsi.
E questo è significato perdere tutti quei comportamenti che
caratterizzavano noi italiani, di cui il cibo è solo una delle metafore. Tutte
le classi sociali erano disposte a tutto per diventare moderne, persino a
cancellare il proprio passato. Un vero e proprio contratto con Faust.
In Salento, ad esempio, c’era il tarantismo: quel mondo rurale fatto di
donne vessate, di cattolicesimo, di fatica. Per anni è stato cancellato per la
furia di dimenticare tutto. L’intellighenzia, dal canto suo, ha pensato
che lo sviluppo non solo economico ma della società stessa andasse fatto
secondo le forme del nuovo sviluppo industriale.
Chi continuava a perpetuare le vecchie tradizioni era fuori dal mondo, un
nemico da cancellare. E’ così che abbiamo persino accettato di mangiare sulla
pasta, il nostro piatto più tradizionale, una passata di pomodoro che fa schifo
pur di dimostrare che l’occidente ti fa bene.
Perché secondo don Pasta il cibo è così importante per smascherare questa
impostura?
Pensa alla passata: non puoi contraffare il gusto della pasta al
sugo. Non esiste altra cosa in Italia che ci accomuna di più della pasta al
sugo. Se la pasta al sugo è pompata dalla chimica, raccolta da schiavi,
trasportata dalla mafia e venduta a 50 centesimi in supermercati giganti che
solo la finanza malata ti ha dato modo di costruire, e te la fai andare bene,
anzi dici pure che è buona pur di sostenere questo modello di sviluppo, la
società è spacciata.
Mangiando la gente se ne può accorgere. La maggior parte delle persone
prima di questa deriva si coltivava da sola quel po’ di pomodoro che le serviva
per la pasta senza grosse difficoltà: non puoi costruire una società su
fondamenta contraffatte sperando che nessuno se lo ricordi. Devi provare a
cancellare quei ricordi. Ma tra profumi e sapori autentici, frutto
della terra, della vita, riaffiorano.
Se scegliamo bene quello che mangiamo possiamo ricordare chi siamo davvero?
Tutti mangiamo almeno tre volte al giorno. La cucina popolare è
democratica: ogni ricetta si basa su una convenzione tra persone dello stesso
luogo. Queste persone insieme inventavano le ricette: non una,
migliaia, il meglio della cucina mondiale.
Questo sostrato di conoscenza, di riferimenti affettivi, di cultura,
funziona trovando delle soluzioni per assicurare il cibo, assecondando le
stagioni, ma anche no: pensa alle conserve. E’ un sapere sovversivo. Quando la
classe media ha abiurato la sua memoria, ha lasciato indietro chi non ha voluto
abbandonarla. Una signora di Lacedonia che ho intervistato lo ha spiegato in
una frase semplice: “io roba di besciamella e scatolette non ne faccio”.
Una brillante definizione di prodotto industriale, e della falsificazione
che comporta. Non puoi pensare che un pensiero critico si possa
costruire senza una condivisione di pratiche e di pensiero di massa. E’
per questo che le nostre reti di analisi e azione non sono sufficienti alla
costruzione di un pensiero efficacemente critico del capitalismo da sole.
Dobbiamo basarci su un sapere diffuso, una consapevolezza radicata.
La rivoluzione che cerchiamo, insomma, ci sta davanti, sulla tavola, in
fondo al piatto e nei bicchieri?
Io dimostro in modo scientifico e antropologicamente rigoroso che se tu
prendi 45 persone di qualsiasi parte d’Italia che abbiano conservato quella
memoria contadina e popolare, sono dei provetti rivoltosi. E possono insegnarti
perché. Perché conservano la memoria di chi siamo davvero e possono
trasmetterla proprio a tutti.
La nostra proposta sul cibo – che va dall’agricoltura, all’allevamento,
alle comunità, all’atto del mangiare insieme – è una proposta politica: ci
permette di essere critici del pensiero forte occidentale della produzione di
massa.
Bisogna unire le istanze avanguardiste di resistenza, con un tessuto che
c’è ancora e che ci insegna ancora oggi come quotidianamente si sviluppa un
pensiero rivoltoso collettivo. Dario Fo raccontava le poesie blasfeme del
popolo, Calvino le favole, Veronelli il cibo: testimoniano la grande libertà di
pensiero del popolo che dobbiamo riscoprire se vogliamo ritrovarci.
Qual è secondo Daniele De Michele la lezione che non impareremo dal Covid,
ma che era lì ad aspettarci appena fuori casa, sul balcone?
La sensazione più profonda e più triste che ho è che ci eravamo detti che
superare la privatizzazione degli ospedali, l’organizzazione attuale del
commercio, una scuola svuotata e depressa era la base per ricominciare.
Ci ho sperato che almeno su queste tre cose, da una ferita universale si
potesse ricostruire una società nuova. Non dico a livello ideologico, ma
pratico: riparti da là. Ho l’impressione che nessuno si stia più ponendo questi
problemi. Pensa al cibo: con tutte le filiere saltate, come sono
saltate, i mercati generali monopolisti addirittura chiusi e la distribuzione
industriale a corto di risorse, si poteva ripartire riorganizzando la domanda –
sia come istituzioni che come comunità – riscoprendo i contadini, che a ridosso
delle città ci sono, sono tanti e potrebbero essere molti di più.
Non è successo, anzi: si è preferito mettere la gente in fila fuori dai
soliti supermercati lasciando gli addetti delle vecchie filiere, dal campo alle
casse, a rischiarsi il contagio. E’ chiaro che chi lotta su questi temi da
tanti anni li ha visti imporsi in tutta la loro rilevanza e ha avuto la
conferma che non sono negoziabili. Dobbiamo provare fino all’ultimo a non farli
riprecipitare in fondo alla lista delle priorità nostre e della politica. Le
voci delle persone che ho incontrato possono aiutarci a riuscirci.
[i] https://www.audible.it/pd/La-Repubblica-del-soffritto-Serie-completa-Audiolibri/B08CB9G1LC?ref=a_pd_Denso-_c7_moreAuthors_0&pf_rd_p=c73bf74d-c599-4cba-a848-3930ec55abc3&pf_rd_r=1Y0XD107KNFVMERBR651
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