La notte è fresca, nell'aria c'è profumo di tiglio e si intravvedono i
luccichii delle prime lucciole.
A casa di Mirco D'Incà, vicepresidente del gruppo bellunese Coltivare
Condividendo, bevendo succo di sambuco e chiacchierando di
terra e agricoltura, è questa l'atmosfera che si respira.
Coltivare Condividendo è un'associazione nata a Belluno una
decina d'anni fa e ha lo scopo di recuperare e promuovere la biodiversità agricola,
facendola tornare nei piatti di tutti, per garantire la sicurezza alimentare:
cibi sani, privi di residui chimici e buoni.
“A noi non interessa coltivare per appiccicare sui prodotti il
marchio biologico, noi coltiviamo per produrre cibo, la certificazione
può essere un fattore limitante”, afferma Mirco D'Incà. “Dare un nome e un
cognome ad una varietà per registrala è restrittivo, perché da questi dati ne
consegue un brevetto, sinonimo di proprietà. Mettere un brevetto sulle piante
che mangiamo è vincolarle, le priviamo della possibilità di essere
condivise liberamente. Per questo la nostra associazione si chiama Coltivare
Condividendo, per condividere la biodiversità che è una cosa stupenda”.
Johannes Keintzel, ex presidente del gruppo, aggiunge: “Noi
auto-riproduciamo i cereali antichi, sinonimo di legame col territorio, con la
storia, con la cultura. Fino a poco tempo fa erano i piccoli agricoltori, i
paesani, a selezionare le varietà più idonee alla coltivazione, erano loro i
veri custodi di semi di future piante adattate a quel clima, a quel luogo, a
quell'altitudine. Varietà uniche sviluppate col tempo, forgiate dall'ambiente”.
Continua Johannes Keintzel: “Le grosse ditte hanno fatto business proprio
perché tanti agricoltori hanno smesso di fare agricoltura (secondo i dati dell'ultimo censimento dell'agricoltura, tra il 1982 e il 2010 la superficie agricola totale bellunese è diminuita
del 50,3% e il numero di aziende agricole dell'83,7%). Il nostro scopo
vuole essere quello di prendere ciò che c’era, varietà non modificate in un
laboratorio e portarle verso il futuro, verso il clima attuale, senza essere
gelosi se vogliamo difendere la sovranità alimentare. Per questo organizziamo
ogni anno l'evento Chiamata a raccolto, nel corso del quale scambiamo semi di
varietà adattate al nostro contesto di montagna, resistenti e frugali. Vogliamo
recuperale, riprodurle e condividerle.”
“Purtroppo, quando una varietà è persa, è persa per sempre. E’ come il
sangue di una famiglia: se non si riproduce, quella famiglia si ferma”, spiega
Mirco D'Incà,
Parlando di esempi concreti, Johannes Keintzel cita il caso del mais: “In
nord Italia si coltiva quasi esclusivamente mais, la specie per antonomasia
della rivoluzione verde, varietà ibride e quasi mai riproducibili. Il mais è
una pianta ampiamente usata perché rende tanto, soprattutto per gli allevamenti
intensivi, ma impoverisce i suoli e richiede moltissima acqua. L’irrigazione
costa cara e gli agricoltori a volte devono abbandonare la coltivazione in
corso perché non riescono a stare dietro ai costi di acqua e gasolio. Quasi
ogni anno capita di vedere campi di mais secco, non arrivato a maturazione,
perché il contadino non ha avuto i soldi per innaffiare”.
Con la rivoluzione verde il mais ha perso molto del suo patrimonio
genetico, perché e stato iper-selezionato al fine di mettere in risalto alcuni
suoi tratti con la conseguenza, però, che se ne sono persi altri, molto
importanti, come il gusto e determinate caratteristiche che conferiscono
resilienza, robustezza.
“Ti faccio un esempio: la diabrotica è un coleottero che mangia le barbe
del mais e le sue larve attaccano la radice indebolendo la pianta e facendola
cadere su se stessa. Per migliaia di anni, gli essudati radicali del mais
“antico” attivavano dei nematodi che parassitavano le larve della diabrotica,
riducendone la dannosità. Con la selezione del mais questa capacità è stata persa.
A questo serve recuperare le varietà antiche, per avere maggiori possibilità di
trovare la pianta più adatta, ancora integra, che non necessita di eccessivi
trattamenti chimici”, spiega Johannes.
Il mais è stato introdotto nelle valli bellunesi attorno all’800 per
superare i momenti di carestia e in molti ne sono rimasti invaghiti per l'alta
resa che nulla aveva a che fare con quella del miglio, o dell'avena e dell'orzo
(link). Il frumento veniva venduto ai ricchi e i poveri
mangiavano il mais, con i vari problemi di pellagra che ne seguivano.
Continua Johannes Keintzel: “I terreni nel bellunese è da decenni che sono
coltivati a mais, in monocoltura. La FAO stima che tra il
1900 ed il 2000 sia andato perduto il 75% della diversità agricola,
molto meno citata di quella naturale ma altrettanto importante poiché la
diminuzione della varietà colturale mette a repentaglio la sicurezza
alimentare. La diversificazione è fondamentale, anche negli investimenti in
banca è importante la diversità! Così in agricoltura: se non diversifichi, il
rischio di avere delle perdite è enorme”.
E il monito della FAO andrebbe decisamente ascoltato. “Va recuperato ciò
che è recuperabile. Grazie allo scambio dei semi stiamo salvando molte
varietà. I semi hanno una loro germinabilità, dopo un certo numero di anni
possono non germogliare più. Noi cerchiamo di non lasciare i semi in
esposizione sugli scaffali, belli etichettati a fare la polvere, ma di
coltivarli il più possibile e di far sì che siano una risorsa per gli
agricoltori. I semi sono di tutti, non dei privati. Questo è il concetto
delle community seeds
banks, in italiano case delle sementi”, afferma
Johannes.
La diversità appare come la chiave per adattarsi ai problemi, climatici ed
ambientali: va bene conservare le linee pure, ma i miscugli genetici sono le
combinazioni vincenti. “Lo dice anche il genetista Salvatore Ceccarelli -
conclude Johannes - i miscugli accelerano l'evoluzione della specie, perché le
piante si scambiano più velocemente informazioni e poi sarà la natura a
selezionare le caratteristiche vincenti, le piante si adattano meglio cosi”.
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