“A Vallermosa si è sempre detto: Biddaramosa, arrica de figu morisca e pobera de
onnia atra cosa” raccontò mia madre un giorno, e quando le chiesi il
significato nascosto di questo detto, lei rispose con schiettezza: “A
Vallermosa non c’è nulla, soltanto fichi d’India”. Ci rimasi male e ripensai
più volte a quelle parole. Quel “non c’è nulla” io non lo capivo perché a me,
che vivevo a Cagliari e qui venivo a trascorrere l’estate, pareva tutto
bellissimo: il cortile, le galline e il pozzo con il mazzetto di prezzemolo
calato giù con uno spago per tenerlo fresco, i giri con la bici, i giochi per
strada, e le notti d’estate seduti con i vicini fuori dalle abitazioni a
raccontare storie e pettegolezzi.
Da
casa di nonna si sentivano le canzoni del juke-box del bar di ziu Tanu. Alcune
botteghe, il mulino, un consorzio, nessun supermercato. Il latte lo andavamo a
prendere con il pentolino nelle case dei pastori a fine giornata, la mattina
invece bisognava stare attenti a sentire il richiamo dei venditori ambulanti di
casalinghi, abbigliamento, verdura, galline e pulcini. Le persone in strada mi
salutavano pur senza conoscermi e tutti gli adulti erano zii anche senza essere
miei parenti. Avevo molta libertà perché non c’erano grandi pericoli. La notte
si dormiva con i cancelli aperti e le biciclette potevano essere scordate in
strada poggiate ad un palo; tanto l’indomani erano ancora lì, con un po’ di
brina sul sellino. Cosa mi poteva mancare, l’Upim? Era più divertente quando
arrivava “su cidresu” a vendere
varechina e tanto altro. Oppure Il mare? Mi divertivo di più ad andarci la
domenica in corriera, con la corsa solo estiva per Porto Pino, dove si cantava
per tutto il viaggio. Certo, con quel nulla si intendeva mancanza di lavoro, di
opportunità, ma, a quei tempi, chi non studiava, si arrangiava lavorando
nell’edilizia, in campagna o facendo lavori stagionali.
Non
so il perché di questo nome, perché hermosa,
ma so che Vallermosa ha sempre avuto una bell’aria e una popolazione amabile.
Tra gli anni anni ‘70 e ‘80 un gran viavai, i primi viaggi in India e la
curiosità del nuovo, avevano creato un contatto con il movimento hippie, alcuni
di loro si stabilirono qui, persone stravaganti, come Fiore o Mario il tedesco
che andava in giro con l’asino. Stupirono, ma non suscitarono grave
indignazione tra gli abitanti bel paese.
Erano
anni in cui si usciva a passeggiare nello “stradone”, la statale che collega il
Sulcis Iglesiente con la 131 e che attraversa il paese, una strada importante
dove è passato di tutto: dalle pecore della transumanza, ai camion puzzolenti
con gli scarti di barbabietola che partivano dallo zuccherificio di Villasor.
Dopo la cena di nuovo al bar o in piazza a discutere. La monotonia delle
giornate, nella bella stagione, veniva interrotta dalle grandi feste per
onorare i santi, che ancora oggi in qualche modo resistono; o dalla festa de l’Unità, che invece è scomparsa per sempre.
Erano giorni di grande fervore, ci si preparava, ci si faceva belli, era
un’occasione per indossare un vestito nuovo. Tornavano gli emigrati, attesi da
tutti, arrivavano con le loro famiglie, raccontavano le novità e il paese si
riempiva di gente. Nascevano nuovi amori. Corrado stupiva ognuno di noi con il
lancio del boomerang nell’anfiteatro.
Oggi
a Vallermosa ci vivo, ormai ci vivo da vent’anni. Ora è più difficile, il paese
si spopola, molte case sono in vendita o abbandonate, non c’è più il grande
albero di more di gelso. Le passeggiate nello stradone non si fanno più. Non
tornano gli emigrati, non c’è più il mulino, né il forno. È chiuso persino il
bar di Bona, un bar vecchia maniera, dove non c’è mai stato il televisore o le
macchinette mangiasoldi e dove si entrava anche vestiti con gli abiti da
lavoro. Fino allo scorso anno in alcune ore c’era chi suonava la chitarra.
Appesa al muro una grande cartina della Sardegna. Mi piaceva quel bar, ci si
poteva sedere e stare anche zitti, oppure dire qualcosa e diventava argomento
partecipato.
Forse
adesso a Vallermosa non c’è davvero nulla, i cancelli chiusi servono a tenere
appesi i cartelli con scritto “vendesi” però c’è sempre una bella campagna, c’è
silenzio, nei cortili il basilico, i morti si accompagnano a piedi in cimitero,
ci si saluta, ci si incontra guardandosi con odio o amore o quello che è, ma è
tutto vero di fronte ai miei occhi, quel nulla è realtà spietata, senza
finzione come piace a me.
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