Un
nuovo rapporto di Abiti puliti fa il punto su pandemia, tessile e salari.
Sempre più bassi. E'
un tratto comune dall'India al Bangladesh, dalla Thailandia al Myanmar. Il
29 marzo scorso, quando il Covid-19 iniziava a mordere, U Myint Soe, a capo
della Myanmar Garment Manufactures Association, lanciava l’allarme.
La Ue, che acquista il 70% della produzione tessile birmana, aveva fermato gli
ordini di acquisto: “Non so come faremo”, era stato il commento al quotidiano
in lingua inglese Myanmar Times. La risposta è stata
semplice: fabbriche chiuse e salari bloccati. Le magliette made in Myanmar, Sri
Lanka o Bangladesh smettono di far girare i telai. Poi si vedrà.
In tutta l’Asia il
tessile da esportazione è uno dei settori economici export dipendenti
che ha subito, col turismo, un contraccolpo formidabile dagli stop arrivati
dall’Occidente. Per quanto diversi Stati Ue abbiano sospeso i pagamenti del
servizio del debito del Myanmar per il periodo maggio-dicembre 2020 (98 mln di
dollari) sarà dura riprendersi. Inoltre Yangon – per via della guerra negli
Stati Chin e Rakhine - rischia (come già accaduto per la Cambogia) di perdere
la clausola di nazione favorita nell’export verso la Ue, cosa che dipende da
una missione di valutazione della Commissione in settembre. Sarebbe un altro
danno incalcolabile. Chi lo paga? E’ una domanda che si può girare a tutti i
Paesi del tessile asiatico da cui ci riforniamo per le nostre magliette.
Per
50 milioni di lavoratori nelle industrie globali dell'abbigliamento, del
tessile e delle calzature, che guadagnano in media 200 dollari - e tra questi
per 20 milioni di lavoratori nel solo settore delle esportazioni di
abbigliamento - la pandemia è stata e ancora è un disastro
salariale: oltre 13 milioni di lavoratori in Asia hanno registrato un divario
salariale del 38,6% il che significa una perdita di quasi 6 miliardi di dollari
nei primi tre mesi della pandemia. Quanto ai lavoratori nel solo settore delle
esportazioni di abbigliamento la cifra viene valutata in oltre 3 miliardi di
dollari di perdita salariale. Lo dice un rapporto di Abiti Puliti (Stipendi
negati in Pandemia) che fornisce una stima del divario retributivo di 13
milioni di lavoratori in sette paesi per tre mesi: Pakistan, Bangladesh, India
(le regioni intorno a Delhi, Tirupur e Bangalore), Indonesia, Sri Lanka,
Cambogia e appunto Myanmar. Il rapporto esclude la Cina dove l’industria
tessile è molto forte ma ha anche migliori garanzie per i lavoratori.
Il rapporto di Abiti Puliti contiene una sintesi del dossier Under(paid) in the pandemic della Clean Clothes Campaign internazionale con Worker Rights Consortium e Solidarity Center e fornisce stime sull'entità delle perdite salariali subite dai lavoratori della filiera tessile durante i primi tre mesi di pandemia. Con i distinguo del caso, imputabili a difficoltà di raccolta dei dati, i calcoli rappresentano il divario salariale per marzo, aprile e maggio 2020. Tuttavia – scrivono i ricercatori - poiché molti lavoratori non hanno ripreso a lavorare o a lavorare regolarmente - il divario salariale ha continuato a crescere dopo questi tre mesi. Un elemento che anche la Ue dovrà considerare al momento di decidere se è meglio punire le élite colpevoli di violazioni o i lavoratori delle industrie che fabbricano le nostre magliette.
https://emgiordana.blogspot.com/2020/08/il-salario-sempre-piu-basso-di-chi-ci.html
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