Nell’accingermi a scrivere un ricordo di Giorgio Todde, mi sono
imposto di evitare di inciampare in tutti quei piccoli “vizi” che accompagnano
occasioni come queste. Anche per non incorrere nei rimbrotti di Giorgio di
fronte a una prosa ridondante, retorica, infarcita di luoghi comuni,
allitterazioni e cianfrusaglie simili. Lui mi avrebbe guardato con quel sorriso
ironico, dolce, e avrebbe sollevato il sopracciglio: il massimo della
disapprovazione.
Giorgio era lo specchio della sua scrittura: raffinata, asciutta, rigorosa,
visionaria. A differenza di tanti altri scrittori, lui non sgomitava, la
competizione non gli apparteneva, così come l’invidia. In lui prevaleva una
accurata ricerca della parola. Nella convinzione che un uso non appropriato
comporti la perdita del suo significato originario. Il rischio – diceva – è che
le parole risuonino estranee, perdano il loro timbro e diventino rumori, rumori
striduli, dolorosi per chi si sforzi di ascoltarle. La sua passione per la
musica gli impediva di violentare la musicalità delle parole. La parola, fa
dire a Suor Celestina nell’ultimo suo romanzo, “contiene tutti e cinque i
sensi”.
All’uscita de Il mantello del fuggitivo, nel marzo dello scorso
anno, mi aveva chiesto di presentarglielo. In quella Nuoro che ci aveva visto
muovere i primi passi della nostra professione – lui oculista, io cardiologo –
nell’ospedale San Francesco. Quel tragitto era stata l’occasione di una lunga
chiacchierata. Un viaggio a ritroso nelle tortuosità delle nostre esistenze.
Gli avevo chiesto se vi era qualche aspetto del libro che avrebbe voluto che
mettessi in evidenza. Lui mi rispose con un’altra domanda: cosa è per te la
nostalgia? Vorrei che tu parlassi di questo.
Il libro era pervaso da un’emozione, un sentimento che coincideva, in
parte, con la nostalgia. Un’emozione che non indica solo la sofferenza, lo
spaesamento provocato
dallìallontanamento dai luoghi in cui si è nati, ma anche la difficoltà a riconoscersi, al
momento del rientro, in quei luoghi, in quei paesaggi, in quelle persone. Anche perché, nel frattempo, sono irrimediabilmente cambiati, mutati, scomparsi. Quei momenti della memoria non torneranno più. La nostalgia esprime il desiderio del ritorno e il dolore del non ritorno. In definitiva – mi suggeriva – la nostalgia è un pendolo tra malinconia e speranza. Oggi – disse – in questa fase della mia vita prevale la malinconia.
dallìallontanamento dai luoghi in cui si è nati, ma anche la difficoltà a riconoscersi, al
momento del rientro, in quei luoghi, in quei paesaggi, in quelle persone. Anche perché, nel frattempo, sono irrimediabilmente cambiati, mutati, scomparsi. Quei momenti della memoria non torneranno più. La nostalgia esprime il desiderio del ritorno e il dolore del non ritorno. In definitiva – mi suggeriva – la nostalgia è un pendolo tra malinconia e speranza. Oggi – disse – in questa fase della mia vita prevale la malinconia.
La presentazione fu molto partecipata. Io, come concordato, parlai anche
della mia nostalgia di nuorese della “diaspora”. Finita la presentazione chiesi
a Giorgio di dedicarmi una copia del libro. Oggi l’ho ripreso in mano e ho
riletto quella dedica: “A Massimo, che cagliaritano non sarà mai nello
spirito. Mai. Giorgio”.
Dopo appena un mese i primi segni di quel male terribile. “Pensate
spesso alla morte?…Thalberg:..si sa che quando si smette di essere bambini non
c’è momento che almeno un po’ non pensiamo alla morte. Durante il giorno l’idea
della morte appare in proporzione alla gioia. Per ogni gioia un pensiero
mortale. E per ogni giorno c’è una notte…”(Il mantello del fuggitivo),
Grazie Giorgio! Un abbraccio.
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