Aria pulita, inquinamento acustico ridotto, strade libere dal traffico.
Sono tanti i racconti di chi durante il lockdown ha avuto la sensazione di
abitare in luoghi più vivibili e di potersi riappropriare degli spazi delle
proprie città, percorrendole a piedi, in bici o sui mezzi pubblici.
Una percezione di una migliore qualità del vivere – seppure in condizioni
di distanziamento fisico e di severa limitazione degli spostamenti, se non
quelli strettamente necessari – che ha spinto urbanisti, sindaci e
amministratori di diverse città nel mondo a interrogarsi su come rendere
ordinaria una situazione particolare, dettata da circostanze decisamente
straordinarie, a riflettere sull’opportunità di incentivare forme alternative
di spostamento alle automobili private, e sulla possibilità di immaginare
concretamente città senza auto. Come l’opinionista del New York Times Farhad
Manjoo che, partendo della sua esperienza a Manhattan durante il
lockdown, ha pubblicato un articolo dal titolo
molto emblematico “Ho visto un futuro senza auto ed è magnifico”.
Il timore generalizzato era che all’indomani dell’allentamento dei lockdown
tutto tornasse come prima o che, addirittura, aumentassero le persone che
avrebbero preferito l’auto privata ad altre modalità di spostamento perché
ritenuta più sicura di fronte al rischio di poter essere contagiati in ambienti
sovraffollati come i mezzi di trasporto pubblico. La questione è delicata: come
disincentivare l’uso massiccio delle automobili evitando al tempo stesso il
sovraffollamento dei mezzi di trasporto pubblico che potrebbero diventare
pericolosi luoghi di contagio?
In una lettera aperta ai residenti della città,
il ministro dei Trasporti regionale di Bruxelles, Elke Van de Brandt, ha
esortato i cittadini a lasciare il trasporto pubblico solo a coloro che non
hanno altra scelta ma di evitare di spostarsi nelle auto private. Dall’inizio
di maggio, la città ha iniziato a dare priorità a pedoni e ciclisti nelle
strade notoriamente difficili per loro da percorrere, sono stati creati altri
40 chilometri di nuove piste ciclabili e si è pensato a restrizioni per i
veicoli e misure per facilitare l’acquisto di biciclette a basso costo.
“Nelle ultime settimane a Bruxelles, l’inquinamento acustico è stato
sostituito dal canto degli uccelli. Facciamo in modo che i suoni del traffico
restino un ricordo del passato. Solo due mesi fa la nostra città era piena di automobili,
l’aria era praticamente irrespirabile. Se tutti coloro che hanno utilizzato i
trasporti pubblici prima della pandemia ora iniziano a spostarsi in auto,
finiremo con il peggiorare la situazione già solo a Bruxelles. Ingorghi,
inquinamento atmosferico e mancanza di sicurezza sulle strade non sono il modo
per uscire da questa crisi sanitaria”, si legge nella lettera.
Dello stesso tenore le dichiarazioni del ministro dei
Trasporti del Regno Unito, Grant Shapps: “Durante questa emergenza, milioni di
persone hanno scoperto il ciclismo, sia come esercizio fisico sia come mezzo di
trasporto sicuro e socialmente distante. Sappiamo che le auto continueranno a
rimanere vitali per molti, ma guardando al futuro dobbiamo costruire un paese
migliore con abitudini di viaggio più ecologiche, aria più pulita e comunità
più sane. Ora che il paese torna al lavoro, abbiamo bisogno che queste persone
rimangano in sella alle loro bici e anzi il loro esempio venga seguito da molti
altri".
Il governo ha annunciato un investimento di oltre 2
miliardi di euro per incentivare gli abitanti del Regno Unito a usare le
biciclette e ad andare a piedi attraverso la realizzazione di piste ciclabili,
l’ampliamento degli spazi riservati ai marciapiedi, ai corridoi per le bici e
gli autobus. Inoltre, sono state chiuse al traffico anche piccole strade
alternative utilizzate di solito dai conducenti delle autovetture per evitare
le arterie trafficate, mentre sono in previsione un piano di 250
chilometri di piste ciclabili protette a Manchester e una “metropolitana per le
bici” a Londra, i cui percorsi seguiranno le linee della metro. Per far sì che
le autorità locali possano continuare a disincentivare l’uso delle automobili, è
stato predisposto un fondo d’emergenza di 280 milioni di euro.
La capitale colombiana, Bogotà, ha incrementato di quasi 76 chilometri la
superficie destinata alle piste ciclabili per ridurre il sovraffollamento dei
trasporti pubblici e provare a prevenire la diffusione di COVID-19. Città del
Messico ha proposto di quadruplicare la sua rete
ciclistica. Milano si è trovata nella necessità di integrare
il sistema dei trasporti in modo tale da non sovraccaricare i mezzi pubblici
(utilizzati quotidianamente dal 55% dei cittadini) ed evitare che in molti
ricorressero alle auto per andare a lavorare. Durante l'estate, il nucleo della
città dovrebbe essere rimodellato per destinare
35 chilometri di spazio stradale precedentemente utilizzato dalle auto a
biciclette e pedoni. Le vetture ammesse al centro dovranno rispettare un nuovo
limite di velocità ridotto di 30 chilometri orari. L'obiettivo è rendere il
traffico più fluido e dare ai pedoni più spazio per diffondersi in sicurezza. A
Glasgow, in Scozia, Christy Mearns, consigliera del partito dei Verdi scozzesi
per il centro cittadino, ha proposto di togliere spazi a parcheggi e
carreggiate da destinare a piste ciclabili e di convertire marciapiedi e gli
angoli dei parcheggi in oasi verdi. «La pandemia è stata devastante, ma ha dato
l’opportunità di pensare a quanta superficie stradale è dedicata alle
auto», dice Mearns al Financial Times.
Anche la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, appena rieletta, ha dichiarato che il ritorno
a una città dominata dalle auto dopo la pandemia è “fuori da ogni questione”.
Hidalgo ha fatto della città senza automobili uno dei fulcri della sua
politica: il traffico nella capitale francese è diminuito del 40% negli ultimi dieci
anni. Nel 2016 Parigi aveva attirato l'attenzione
internazionale dopo aver superato Delhi e Pechino per la peggiore qualità
dell'aria tra le principali città globali. Il prossimo obiettivo è vietare la
vendita di auto a diesel e benzina entro il 2040. Intanto, una delle strade più
trafficate della città, Rue de Rivoli, che ospita il famoso museo del Louvre,
pedonalizzata durante il lockdown, resterà chiusa alle auto per tutta l’estate
e si dice che la decisione possa diventare permanente, mentre è stata pianificata una rete di nove
piste ciclabili che collegheranno il centro di Parigi con le periferie.
Prima della pandemia, durante la campagna elettorale, Hidalgo aveva lanciato l’idea della “Ville du
quart d’heure” (ndr, città del quarto d’ora) – un progetto ideato dal
professore della Sorbona, Carlos Moreno – dove tutti i servizi essenziali siano
raggiungibili in 15 minuti a piedi o in bicicletta. L’obiettivo della riduzione
dei livelli di inquinamento atmosferico non può essere raggiunto se non pensato
all’interno di una trasformazione complessiva dei nostri centri urbani che
migliori la qualità della vita da un punto di vista ambientale, di usi dello
spazio e di accessibilità ai servizi. In altre parole – è il pensiero della
sindaca di Parigi – c’è bisogno di un cambio di paradigma: è arrivato il
momento di iniziare a ragionare sui tempi delle città e sulle conseguenze
sociali, psicologiche ed economiche della frammentarietà delle grandi metropoli
(dove i cittadini sono costretti a passare ogni giorno molte ore per
raggiungere i luoghi di lavoro, le scuole, i negozi, i supermercati, gli
impianti sportivi, i parchi pubblici), e pensare a città organizzate intorno ai
servizi di prossimità e al vicinato, in cui le auto non sono più indispensabili
per spostarsi. In questo senso, spiega il prof. Moreno, il passaggio di massa al “lavoro da casa” ha
mostrato in tutta la sua evidenza quanto sono dispendiosi ed evitabili i lunghi
spostamenti da una parte all’altra della città per andare a lavorare. La “città
del quarto d’ora” si fonda su una ottimizzazione del rapporto tra tempi e spazi
della città, riduce al minimo gli spostamenti e favorisce l’attività fisica,
inducendo a spostarsi a piedi o in bici.
La “città del quarto d’ora” non è un’idea che nasce dal nulla. Più di dieci
anni fa, l’amministrazione di Portland, ha proposto i “Quartieri di 20 minuti”,
il cui obiettivo era – secondo la direttrice dell'Ufficio di
pianificazione e sostenibilità, Susan Anderson – rendere la città prospera,
sana, connessa ed efficiente. Nel 2017, a Melbourne, in Australia, è stata avviata la sperimentazione della
“città in 20 minuti” che, spiegano i professori John Stanley
dell’Università di Sydney e Roz Hansen dell’Università di Melbourne, non
riguarda solo “il camminare ed eliminare le auto dalla città”, ma “pensare un
processo di sviluppo concatenato ed equilibrato dei quartieri che compongono
una città, in cui le persone, i posti di lavoro e i servizi, comprese le
opportunità ricreative e la natura, siano accessibili”.
via The Conversation
Modelli simili cominciano a essere presi in considerazione da altre città,
come annunciato recentemente, ad esempio, dal
sindaco di Milano, Sala. L’area dove si trova il Lazzaretto (una grande chiesa
che durante la peste del 1578 fu trasformata in ospedale per accogliere gli
infermi) potrebbe ospitare un progetto pilota per “ripensare i ritmi”
del capoluogo lombardo. Il piano è “offrire servizi nello spazio di 15 minuti a
piedi da casa” per “migliorare la qualità della vita” degli abitanti, ha
dichiarato il sindaco.
Un paesaggio urbano dominato da automobili
Negli ultimi 100 anni, il paesaggio urbano è stato dominato dalle macchine.
Uno dei simboli del boom economico, la macchina ha esteso a tutte le classi
sociali la libertà di movimento, una condizione in precedenza privilegio delle
élite. Una delle premesse economiche del fordismo, commenta Adam Rogers su Wired,
era che i lavoratori avrebbero finalmente potuto permettersi le auto che
costruivano. Da allora, è stata una escalation. Per fare solo l’esempio degli
Stati Uniti, all'inizio del Novecento, gli americani possedevano solo poche
migliaia di automobili. Alla fine della seconda guerra mondiale, erano 30 milioni. Nel 2017, le auto e i camion
leggeri erano più di 193 milioni. Circa tre macchine
ogni quattro adulti.
L’automobile ha rivoluzionato la mobilità e favorito gli spostamenti su
larga scala, ma è anche vero che la sua diffusione e la
percezione che non ci siano alternative a essa è stata agevolata da come sono
state progettate e organizzate le città moderne. Molte aree urbane sono state
costruite intorno alle auto con enormi quantità di spazio riservate a
carreggiate e parcheggi. «In questo momento, le auto – non le persone – sono la
forma di vita dominante nella maggior parte delle nostre città», commenta Daniel Kammen, professore di
energia all'Università della California, Berkeley, negli Stati Uniti. «Per molte
persone possedere un'auto significa libertà e status sociale», aggiunge Janette
Sadik-Khan, che negli anni in cui è stata commissaria per i trasporti della
città di New York, ha pedonalizzato parte della metropoli,
tra cui Times Square, e ha creato centinaia di chilometri di
nuove piste ciclabili. «Ma se una città non ti offre altra scelta che guidare,
un'auto non è libertà, è dipendenza. Se non puoi fare altro che guidare per
ogni spostamento che ti tocca, non è colpa tua. La tua città ha fallito».
Le auto hanno fatto in modo che si perdesse lo scopo fondamentale delle
città: riunire molte persone in uno spazio da condividere in cui poter
sviluppare sinergie sociali, culturali ed economiche, scrive J. H. Crawford, autore dei
libri "Carfree Cities" e "Carfree Design Manual" e
direttore del sito Carfree.com. Il risultato di questa
dipendenza della città e degli abitanti dalle automobili è la congestione del
traffico, l’innalzamento delle emissioni, i centri urbani che si svuotano al
termine della giornata lavorativa, i sobborghi e le periferie che si riempiono
di macchine in coda per un incredibile spreco di risorse e tempo che si
potrebbe dedicare alla propria vita personale. "Oltre ai ben documentati
problemi di inquinamento atmosferico e ai milioni di morti causati dal traffico
ogni anno, il più grande effetto che le auto hanno sulla società è l'enorme
danno che fanno agli spazi sociali", aggiunge Crawford.
Secondo l’urbanista Vishaan Chakrabarti, è una questione di equità
e giustizia degli spazi. Cinquanta persone che si spostano da una
parte all’altra della città occupano molto meno spazio se lo fanno in autobus e
non ciascuno nella propria automobile. Un autobus occupa quasi 140 metri quadri
di spazio e avremmo le corsie libere. Cinquanta automobili hanno bisogno di
oltre 800 metri quadri. Inoltre, le auto hanno bisogno di essere parcheggiate
e, quindi, occupano spazio lungo i lati delle strade o per i garage anche
quando non sono utilizzate. E continuano a occupare le strade (che potrebbero
essere libere) anche per la semplice ricerca di un parcheggio.
Una gif pubblicata dal Washington Post nel
2016 rende molto bene l’idea di quanto affermato da Chakrabarti. Le immagini
mostrano il diverso impatto di auto, bici e pedoni sulla 2nd Avenue di Seattle.
Nel primo fotogramma si vede la strada occupata da 200 persone in 177
automobili; nel secondo, le auto sono state rimosse e ci sono solo le persone
presenti negli abitacoli per mostrare che all'interno di ogni veicolo raramente
c’era più di una persona e lo spazio perso per le dimensioni delle automobili è
incredibile; gli altri fotogrammi evidenziano che lo stesso numero di persone
su biciclette o mezzi pubblici consentirebbe di ridurre da cinque a uno il
numero delle corsie occupate.
«Sembra davvero che ci sia una maggioranza silenziosa che non ha alcuna
voce in capitolo su come viene utilizzato lo spazio pubblico», commenta Chakrabarti al New York
Times. Più spazi si danno alle auto, più guidare sarà ritenuta la scelta
“migliore”, e così ci sarà sempre più bisogno di strade, si genererà più
traffico: un circolo vizioso che ha l’effetto di coprire sempre più di asfalto
le nostre città. Si crea una sorta di “domanda indotta” che spinge a usare le
automobili (e a non prendere nemmeno in considerazione la possibilità di
muoversi in altri modi) anche quando non ce ne sarebbe effettivo bisogno. “Se
tutti guidano, nessuno si muove [ndr, in altri modi]”, dice sempre
al New York Times Brent Toderian, ex city planner di Vancouver.
Andare in bici, su uno skateboard, su monopattini elettrici, in bus pubblici,
sembrano tutte opzioni meno comode e più pericolose. Ma questo perché si
continua a immaginare gli spostamenti in città secondo l’attuale contesto.
Bisognerebbe combattere la dipendenza dalle automobili, soprattutto in quelle
città che non lasciano altre alternative allo spostarsi in auto. Ridurre questa
dipendenza faciliterebbe gli spostamenti di tutti, anche di chi non possiede
un’auto.
La lunga transizione verso le città senza auto. Alcune sperimentazioni nel
mondo
Da alcuni decenni a questa parte un piccolo ma crescente numero di città
sta provando a progettare paesaggi urbani completamente senza automobili. Le
sperimentazioni sono graduali per lo più legate all’esigenza di abbattere i
livelli di inquinamento e di congestione del traffico nelle città.
A Città del Messico, ma anche nelle principali
città italiane, spesso e volentieri, in diversi momenti dell’anno, si è fatto
ricorso alle targhe alterne, per cui in una determinata
giornata ci si poteva spostare con la propria macchina nei centri urbani a
seconda che la propria targa finisse con un numero pari o dispari. A Londra,
Singapore e Stoccolma sono state introdotte le tasse sul
traffico. Alcune amministrazioni hanno iniziato a pedonalizzare parte dei
propri centri cittadini per poi via via estendere a sempre più ampie porzioni
di città il divieto di circolare con le auto private. Ma piano piano i progetti
sono diventati sempre più complessi, inserendo la revisione dei piani di
mobilità all’interno delle città nella più ampia pianificazione degli spazi
pubblici, da restituire alla loro dimensione di luoghi di interazione e
aggregazione. In sintesi, ci si è spostati da un approccio ancora gravitante
intorno all’automobile a uno che pone al centro la socialità degli spazi urbani
e in cui la macchina non è che uno dei tanti modi in cui ci si può spostare.
Una delle prime città a pensare questa transizione è stata Oslo negli anni '70, prima con la
pedonalizzazione del centro e poi, negli ultimi decenni, con la trasformazione
di parti di strada destinate al parcheggio delle automobili in piste ciclabili,
parchi e panchine. Contestualmente, sono stati investiti fondi per rafforzare
il trasporto pubblico, riprogettare le strade e introdurre un sistema di bike
sharing. Fino ad arrivare al progetto di “auto zero in centro entro il
2019”. Attualmente, quasi tutto il centro è stato chiuso alle auto.
Nei decenni successivi altre città di media e grande dimensione hanno
percorso la strada di Oslo. In Spagna, Madrid si è proposta di rendere il cuore della
capitale una “zona a bassissime emissioni”, proibendo l’accesso delle auto
fatta eccezione per i residenti registrati e vietando i veicoli a gas e a
diesel più obsoleti. Un programma simile è stato lanciato a Parigi. A Barcellona, invece, parti della città sono
configurate in spazi pubblici pedonabili e pazialmente chiusi al traffico,
chiamati "superblocchi". All'interno di queste aree, la circolazione
delle auto è vietata o limitata (a quelle dei residenti), con una velocità
massima di 20 km/h, la priorità è data ai pedoni e alle biciclette e gli spazi
verdi vengono recuperati e creati grazie alla riduzione dei parcheggi.
In Nord America, i nuovi viali del centro di Toronto sono stati quasi
vietati a quasi tutte le auto e hanno visto aumentare il numero di
passeggeri sui mezzi pubblici. Negli Stati Uniti, il processo è più lento. C’è stata una sperimentazione a
New York, sulla Quattordicesima strada e, riporta Bloomberg, i risultati del
decongestionamento sembrano evidenti. I dati mostrano che le strade verso le quali è
stato deviato il traffico non sono più congestionate, gli spostamenti in
autobus sono più rapidi del 30% e questo ha facilitato i movimenti delle
persone in quella parte della città. Inoltre, lo spazio, precedentemente
occupato dalle automobili, è diventato luogo di incontro e di sosta per i
cittadini che si spostano in bici o a piedi.
A San Francisco, nel 2009, l’allora sindaco Gavin Newsom (ora governatore
della California) ha dovuto vincere molte resistenze per limitare l’accesso
delle auto su Market Street, una delle vie principali del
centro e simbolo delle disuguaglianze sociali in città, con Twitter e altri
giganti della tecnologia che condividono gli spazi con senzatetto che dormono
sui marciapiedi. I funzionari di San Francisco hanno in programma di ridurre le
dimensioni della strada, allargare i marciapiedi e aggiungere una pista
ciclabile larga circa 2 metri e mezzo per biciclette e scooter elettrici.
Altri progetti pilota di pedonalizzazione sono in via di attuazione a
Denver, Santa Monica, Madison, Charlottesville e Chicago.
Oslo, Norvegia: la città verde europea nel 2019
Oslo è la prima capitale al mondo che ha deciso di liberarsi del tutto delle
auto. Nel 2015, la nuova amministrazione progressista, appena insediata, si era
prefissata un piano molto ambizioso: vietare il transito delle auto a
combustibile fossile nel centro cittadino. L’obiettivo era “zero auto in centro
entro il 2019”. All’epoca, il 70% delle emissioni in città proveniva dal traffico
e un terzo della cittadinanza (200mila abitanti sui 600mila complessivi) era
potenzialmente a rischio a causa dell’aria inquinata al punto da costringere il
Comune a istituire “blocchi del traffico” per diversi giorni in inverno. Il
piano incontrò diverse resistenze da parte di commercianti e imprenditori,
preoccupati di perdere clienti e avere problemi con le consegne.
L’amministrazione decise così di procedere più gradualmente. Attualmente, è
stata ridisegnata un’area di 1,3 chilometri quadrati: quasi tutto il centro
città è stato chiuso alle auto, sono stati rimossi 700 parcheggi, sostituiti
con piste ciclabili, alberi, piante e parchi. Sono stati rafforzati i trasporti
pubblici con partenze più frequenti e biglietti più economici.
Così facendo, nel 2019 Oslo è stata riconosciuta dalla Commissione
Europea “capitale green dell’Europa” in quanto le sue politiche urbane possono
essere modello e ispirazione per altre città europee. Questo è stato possibile
perché la capitale norvegese non si è limitata a pensare dei blocchi –
permanenti o temporanei – per le auto in centro, ma ha ridisegnato tutto quello
che c’è intorno all’uso delle macchine seguendo quattro assi: biodiversità,
trasporti pubblici, coesione sociale, salute pubblica. Solo con la convergenza
di tutti questi aspetti, è possibile pensare a città senz’auto.
L’obiettivo è ridurre del 95% le emissioni di CO2
entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.
«Le città, come Oslo, sono state costruite per le auto per diversi decenni
ed è giunto il momento di cambiarle», spiega a Fast Company Hanna
Marcussen, vice sindaca di Oslo con delega allo sviluppo urbano. «Sono certa
che quando le persone immaginano la loro città ideale, non pensano all’aria
inquinata, ad automobili bloccate nel traffico o a strade piene di macchine
parcheggiate». Tuttavia, prosegue Marcussen, si tratta di una sfida complessa
perché «cambiare le abitudini consolidate è difficile. Le auto sono state viste
a lungo come uno status symbol, e immagino che sia così ancora oggi per molte
persone. Dobbiamo pianificare meglio le nostre città per il futuro, in modo che
l'automobile privata non sia una priorità e la premessa per costruire le nostre
città».
La transizione verso una città senza auto di Oslo non è arrivata
all’improvviso, per una idea di un’amministrazione sognatrice, ma è per certi
versi in continuità con alcune scelte fatte dalle amministrazioni precedenti da
50 anni a questa parte: negli anni ‘70 furono rese pedonali alcune strade del
centro cittadino, mentre negli anni ‘80 furono fatti notevoli investimenti nei
trasporti pubblici.
Gli interventi sono stati di diverso tipo. È stato innanzitutto pensato
un sistema della mobilità urbana che integrasse trasporti
pubblici, piste ciclabili e aree pedonali. Per fare questo, come detto, sono
state aumentate le corse degli autobus di città, sono state erogate sovvenzioni
per aiutare i cittadini ad acquistare biciclette elettriche, è stato reso
capillare in più punti della capitale il sistema di bike sharing (con il
risultato che il numero di bici usate è stato triplicato dal 2015 al 2018,
arrivando a quasi 3 milioni), le biciclette sono state dotate di copertoni a
spillo per l’inverno. «Abbiamo notato che più si rende confortevole andare in
bici, più aumentano le persone che le utilizzano, meno sono quelle che vanno in
auto, meno gli autobus sono sovraffollati», racconta Axel Bentsen, CEO di Urban Sharing,
la società che gestisce Oslo City Bike, il sistema locale di bike
sharing.
Contestualmente è stato ridisegnato il piano della viabilità. I
cittadini che hanno necessità di spostarsi in auto possono utilizzare delle
circonvallazioni in modo tale da non passare per il centro della città, mentre
alcune strade sono state aperte ai camion un paio d’ore al mattino per le
consegne. Possono passare solo i mezzi d’emergenza. I parcheggi sono stati
trasformati in stazioni per la ricarica di veicoli elettrici e in aree
parcheggio per conducenti disabili.
«In tutte le nuove strade abbiamo fatto una nuova pavimentazione. Abbiamo
allargato i marciapiedi che ora possono occupare i due terzi della strada. E al
centro, ci sono le piste ciclabili. Laddove c’erano posti auto abbiamo
installato nuove panchine, perché ci siamo resi conto che Oslo aveva delle
pessime panchine pubbliche e che ti potevi sedere comodamente solo nei bar, a
pagamento», spiega a Presa Diretta Sigurd Oland Nedrelid,
responsabile comunicazione del programma Oslo car-free.
Alcuni spazi inutilizzati a poca distanza dal centro città e dalla
tangenziale sono stati trasformati in grandi fattorie urbane, aperte a tutti,
dove ognuno può coltivare i prodotti o andarli a mangiare.
Di pari passo, è stata avviata la transizione verso l’energia
elettrica. Come prima cosa, la città ha pianificato la realizzazione delle
infrastrutture elettriche. I nuovi capolinea degli autobus sono delle stazioni
di ricarica ad alta velocità, in grado di portare il mezzo all’80% di energia
in soli 7 minuti. Tutti i nuovi autobus saranno elettrici, così come i
traghetti, responsabili del 10% delle emissioni attuali, e dal 2023 tutti i
taxi. Anche il settore delle costruzioni e dell’edilizia si sta riconvertendo
per diventare a basse emissioni. Lo Stato sostiene le auto elettriche non tanto
con incentivi economici all’acquisto, quanto con un mix di agevolazioni:
esenzione dai pedaggi per entrare in città [ndr, le auto a benzina o
diesel pagano fino a 6 euro per ogni ingresso in città] e dal bollo e dalle
tasse d’immatricolazione, esenzione dell’IVA per l’acquisto e il noleggio,
sconti sull’assicurazione, possibilità di circolare sulle corsie preferenziali
e parcheggio gratuito nei nuovi parcheggi comunali. Inoltre, la ricarica delle
auto elettriche è più economica del rifornimento di quelle a gas, benzina o
diesel (costa quasi un quinto in meno) perché la Norvegia produce quasi al 100%
da fonti rinnovabili, soprattutto energia idroelettrica.
Infine, Oslo si sta adattando anche agli effetti dei cambiamenti climatici
che significano piogge sempre più frequenti e violente che causano diverse
alluvioni ogni anno. Negli ultimi anni è stato ripristinato il corso originale
di otto fiumi, che erano stati interrati per fare posto a strade ed edifici,
per un totale di 2,8 chilometri. Intorno al letto del fiume Hovinbekken sono
stati creati un nuovo parco, aree giochi, piste ciclabili.
Parigi, Francia: la città del quarto d’ora
Durante la campagna elettorale che ha portato alla sua rielezione come
sindaca di Parigi, Anne Hidalgo ha lanciato l’idea della città del quarto
d’ora, dove tutti i servizi essenziali, il lavoro e le attività ludiche e
ricreative siano raggiungibili nell’arco di 15 minuti a piedi o in
bicicletta.
Secondo il progetto, ideato da Carlos Moreno, professore alla Sorbona, per
abbassare i livelli di inquinamento dei centri urbani va totalmente cambiato il
modo di concepire la città, invertendo la piramide che attualmente vede i
veicoli a motore al suo vertice e mettendo i cittadini al centro della città. E
per farlo, bisogna riorganizzare l’equilibrio tra spazi e tempi della città.
«Dobbiamo reinventare l'idea di prossimità urbana», spiega Moreno al Guardian.
«Se le persone lavorano vicino a dove vivono, possono fare shopping nelle
vicinanze e avere il tempo libero e i servizi di cui hanno bisogno intorno a
loro, possono avere un'esistenza più tranquilla». Sotto questo aspetto,
l’esperienza forzata di lavoro da casa sperimentata durante i lockdown
praticamente in tutto il mondo può essere la leva per ripensare anche tempi e
luoghi del lavoro e favorire l’applicabilità dell’idea della città del quarto
d’ora.
Nelle grandi città sentiamo tutti di non avere tempo, ci precipitiamo da un
posto all’altro, cercando sempre di guadagnare tempo. E l’auto è il mezzo che
ci sembra più efficace per soddisfare le nostre esigenze. Invece, non ci
rendiamo conto che il pendolarismo è costoso sotto ogni aspetto, solo perché
non abbiamo l’alternativa sotto mano, prosegue Moreno. «Non c'è piacere, non
c'è conforto: prendi la metropolitana o il treno suburbano e vedi persone che
sono in uno stato di stress e angoscia. Dobbiamo interrompere questo ritmo
della vita delle persone. La città del quarto d’ora ha dietro un approccio
radicale che trasformerà gli stili di vita».
«Ovviamente – spiega ancora Moreno – non vogliamo
obbligare le persone a rimanere nel raggio di 15 minuti. Non vogliamo replicare
un villaggio. Vogliamo creare una migliore organizzazione urbana che rimodelli
il rapporto tra i cittadini e il ritmo della vita in città». Per far sì che
questo accada, il professore immagina lo sviluppo di servizi multifunzionali,
spazi che abbiano al loro interno aree di lavoro, ludiche, formative. «Potremmo
utilizzare le scuole per altre attività durante il fine settimana o immaginare
hub di coworking. Un quartiere non è solo un assemblaggio di edifici ma una
rete di relazioni sociali», commenta Moreno, parafrasando la studiosa
statunitense Jane Jacobs.
La proposta di Hidalgo e Moreno trova terreno fertile nella storia ormai
cinquantennale di "riconquista dello spazio pubblico" di
Parigi, come l’ha definita l’economista dei trasporti dell’Università di Lille,
Fréderic Héran, in un articolo sulla rivista francese Les
Cahiers Scientifiques du Transport. I sindaci precedenti hanno posto le
basi fondamentali per il loro progetto, scrive Héran.
Fu l’ex presidente francese conservatore Jacques Chirac, quando era sindaco
di Parigi tra il 1977 e il 1995, a trasformare gli Champs-Elysees in una
passeggiata pubblica, allargando i marciapiedi, introducendo aree verdi ed
eliminando i parcheggi, e a inserire i dissuasori per impedire che venissero
parcheggiate le auto sui marciapiedi. Nel 1996, il successore di Chirac, Jean Tibéri, introdusse il primo piano ciclistico
della città. Nel suo mandato, durato 13 anni, tra il 2001 e il 2014, il
socialista Bertrand Delanoë ha creato oltre 400 chilometri di piste
ciclabili, ha realizzato corsie preferenziali per gli autobus, ha chiuso al
traffico le sponde della Senna e ha introdotto il primo programma di bike
sharing.
Anne Hidalgo ha proseguito questa tradizione, pedonalizzando le banchine inferiori
della Senna, chiudendo al traffico molte grandi piazze della città, ampliando
il numero di mezzi e la rete di trasporto pubblico.
Pontevedra, Spagna: la prima città senz’auto in tutto il centro storico e i
quartieri esterni
Dal 2001, Pontevedra, cittadina di 84mila abitanti della Galizia, in
Spagna, al confine con il Portogallo, ha creato una zona senza auto estesa a
tutto il centro storico e ai quartieri esterni e imposto un limite di velocità
di 30 km/h in quelle strade dove il traffico è ancora consentito. Il piano è
stato messo in atto da Miguel Anxo Fernández Lores, sindaco della città
galiziana dal 1999. Possedere un'auto non ti dà il diritto di occupare lo
spazio pubblico, spiega il sindaco al Guardian:
«Il centro storico era morto. Era pieno di macchine, era diventato una zona
marginale, circolavano molte droghe. Era una città in declino, inquinata,
stagnante, con tanti incidenti stradali. La maggior parte delle persone che
aveva avuto la possibilità di andarsene lo ha fatto. Inizialmente abbiamo
pensato di migliorare le condizioni del traffico, ma non siamo riusciti a
elaborare un piano realizzabile. Allora, abbiamo deciso di restituire lo spazio
pubblico ai residenti e abbiamo deciso di sbarazzarci delle auto».
E così la circolazione delle automobili è stata circoscritta a un’area
molto limitata della città, sono stati eliminati i semafori (al loro posto,
agli incroci, ci sono delle rotonde) e i parcheggi di superficie, sostituiti da
parcheggi sotterranei per un totale di 1.686 posti macchina. L'unico parcheggio
di superficie disponibile è in periferia, a dieci minuti a piedi dal centro
storico e gratuito. Proprio su quest’ultimo aspetto si concentrano le
principali critiche al piano che avrebbe portato alla congestione delle
periferie.
Per i cittadini e i turisti sono stati messi a disposizione due strumenti
per orientarsi: Metrominuto, una app scaricabile su smartphone che permette di
calcolare i tempi di percorrenza (a piedi) da un posto all'altro della città, e
Pasominuto, venti itinerari all’interno di Pontevedra accompagnati
dall’indicazione del numero di passi e le calorie bruciate per ognuno di essi.
La app Metrominuto
Da quando, diciannove anni fa è partito il piano del Comune, il
traffico è diminuito del 90% nel centro della
città, il 70% degli spostamenti avviene a piedi o in bicicletta, l’inquinamento
è calato del 65%, il numero degli incidenti è sceso dai 1.203 del 2000 ai 484
del 2014.
Obiezioni, resistenze al cambiamento e possibili soluzioni
La transizione verso città senza auto e organizzate per favorire modalità
alternative di spostamento e una maggiore interazione tra i cittadini negli
spazi pubblici sta incontrando molte resistenze, alcune simboliche e culturali,
altre economiche e industriali.
Una città senza auto sembra una bella idea ma è possibile? E cosa fare con
i servizi di emergenza? O con le persone che hanno problemi di mobilità? E che
fare con chi abita in periferia che rischia di restare escluso e di subire
addirittura contraccolpi negativi dalla pedonalizzazione di altre aree della
città? Non c’è il rischio di creare ulteriori disuguaglianze? I dubbi e le
questioni da affrontare e risolvere sono tante.
Innanzitutto, c’è tutto un immaginario legato all’automobile difficile da
sradicare, scrive Farhad Manjoo sul New York
Times: “l’automobile è più che un mezzo, è un rito di passaggio, è
uno status symbol, è espressione di libertà. Negli USA è un simbolo
dell’identità nazionale”.
Un grosso ostacolo è costituito poi dalle lobby automobilistiche che, scrivono Mark J. Nieuwenhuijsen (Centro
di ricerca di epidemiologia ambientale, Barcellona) e Haneen Khreis (Istituto
per gli studi sui trasporti, Università di Leeds) in uno studio dal titolo
“Città senza auto: la strada verso una vita urbana sana”, pubblicato nel 2016
su Environment International, già in passato si sono opposte con
successo a misure di restrizione del traffico o riduzione delle aree di
parcheggio, hanno ritardato o fatto cadere piani di pedonalizzazione e
indebolito normative sulle emissioni.
Inoltre, prosegue Manjoo, le soluzioni prospettate dall’industria
automobilistica finora sono state fallimentari. I servizi di carpooling come
Uber e Lyft hanno finito per congestionare il traffico, nonostante il loro
obiettivo iniziale fosse proprio quello di ridurre il numero di auto di
proprietà. Uno studio interno ha trovato che nel 2018 in sei città
statunitensi il numero di chilometri percorsi in automobile è aumentato di
quasi il 14% e molto spesso le auto di Uber e Lyft non avevano passeggeri a
bordo e viaggiavano fuori servizio.
Anche le auto elettriche non sono la panacea ambientale:
sono più efficienti di quelle a gas ma necessitano di materie prime difficilmente reperibili, come
il cobalto (le cui riserve si trovano in regioni politicamente instabili e
fragili, come la Repubblica Democratica del Congo, e per la cui estrazione
vengono impiegati bambini) e il litio, e la loro produzione e successivo
utilizzo avrà in ogni caso un impatto ambientale. Diverse ricerche
pubblicate in questi ultimi anni concordano che in un contesto di mix
energetico, le auto elettriche emettono tra il 25 e il 30% in meno di CO2
rispetto ai veicoli con motori a combustione. Una percentuale destinata a
scendere man mano che il rapporto tra fonti fossili e rinnovabili si sposterà a
favore di queste ultime. Tuttavia, sono ancora pochi gli studi in grado di
valutare gli impatti climatici e ambientali complessivi di tale transizione. In
ogni caso, le auto elettriche faticano a trovare un mercato perché sono ancora
un bene di lusso. L’industria automobilistica è tuttora impegnata a promuovere i veicoli a gas e si stima che negli USA ci vorranno 15
anni per passare totalmente all’elettrico.
Né sono risolutive le auto senza conducente perché, spiega J. H. Crawford, chiedono ancora
troppo spazio per i loro movimenti e consumano troppa energia.
Come spiega a Valigia Blu Elena Colli – dottoranda in Studi Urbani all’Università Bicocca di
Milano con una ricerca su politiche urbane d’interesse
ambientale e mobilità sostenibile – «per essere in qualche modo efficaci (dal
punto di vista ambientale, di occupazione dello spazio, accessibilità, ecc.)
deve accadere che le "tre rivoluzioni" (veicoli autonomi, auto
elettriche, servizi di sharing) avvengano in modo coordinato e congiunto, con
un controllo da parte dell'attore pubblico».
Se vorremo davvero realizzare un’alternativa a una città centrata intorno
alle macchine, occorrerà «sviluppare un sistema integrato di mezzi pubblici e
privati di ogni tipo, dai treni ai tram, dalle biciclette ai monopattini, dai
pattini agli skate, ma anche ripristinare funicolari, trasporti fluviali,
convertire autostrade in ferrovie, e magari usare con creatività mezzi di
spostamento collettivo che ora non pensiamo in quest’ottica», aggiunge il giornalista Andrea Coccia,
autore del recente libro “Contro l’automobile”.
Come si legge nel rapporto della Commissione europea “Il futuro del
trasporto su strada”, pubblicato nel 2019, le grandi
innovazioni tecnologiche nel settore dei trasporti da sole non miglioreranno le
nostre vite se non si passerà da un sistema auto-centrico a uno che metta al
centro i cittadini e una migliore qualità della vita delle persone. E questo
non sarà possibile senza l’interoperabilità delle scoperte tecnologiche, senza
il dialogo tra amministrazioni locali, governi nazionali e istituzioni
internazionali, senza il coinvolgimento dei cittadini e delle industrie dei
settori interessati.
Il miglioramento della governance e lo sviluppo di soluzioni innovative per
la mobilità saranno cruciali per garantire che il futuro dei trasporti sia più
salutare ed equo di quello attuale centrato sull'auto, si legge nel rapporto.
Alle stesse conclusioni giunge lo studio del 2016 di Mark J.
Nieuwenhuijsen e Haneen Khreis. È probabile che le città senza auto private
abbiano dei benefici diretti e indiretti per la salute delle persone, ma perché
ciò accada sarà necessario avere un approccio più sistemico, riunendo intorno
allo stesso tavolo pianificatori urbani e dei trasporti, ambientalisti ed
esperti di salute pubblica. “La pianificazione di città senza auto – scrivono i
due autori – richiede un impegno politico a lungo termine ai massimi livelli e
il consenso da parte dei cittadini. Sono essenziali la stabilità politica,
l'impegno dei partiti, al di là del loro schieramento, la partecipazione dei
cittadini e delle imprese”.
L'entità esatta dei benefici e i potenziali effetti contrastanti (possibile
inasprimento di disuguaglianze sociali ed economiche, impatti economici e
ricadute sull’organizzazione della mobilità urbana) non sono ancora chiari e
sarà necessario attendere ulteriori ricerche sulle nuove sperimentazioni di
città senza auto in diverse parti del mondo per avere un quadro più esaustivo.
Tuttavia, spiegano Nieuwenhuijsen e Khreis, i primi studi mostrano che una
città senza auto può portare a riduzioni significative dell’inquinamento
atmosferico, acustico e delle temperature e, di riflesso, a minori morti
premature e malattie. Inoltre, la maggiore mobilità attiva e attività fisica
richieste per gli spostamenti senza macchine possono avere ricadute positive
sulla salute pubblica, in generale, oltre a dare alle persone maggiori
opportunità di interazione nello spazio pubblico.
Allo stesso tempo, la percezione di una migliore qualità di vita potrebbe
rendere queste città più attrattive, il che potrebbe significare la necessità
di più alloggi e strutture, fiducia degli investitori, circoli economici
virtuosi. Ma, nel gestire questo processo, bisognerà stare attenti ed evitare
che l’arrivo di nuove persone porti a un’espansione urbana non controllata e a
un’ulteriore frammentazione delle città, con conseguente necessità di
utilizzare la macchina per raggiungere le aree pedonali e quelle più
attrattive.
Sarà importante anche prevenire possibili inasprimenti di disuguaglianze
già esistenti. Ad esempio, la riorganizzazione del sistema della mobilità
viaria potrebbe congestionare ulteriormente le aree intorno a quelle
pedonalizzate oppure, in assenza di un servizio pubblico dei trasporti
capillare, le persone che abitano lontano e che di solito fanno affidamento
solo sulla propria auto per potersi spostare, potrebbero vedersi ancora di più
escluse. Per questo, “una parte dei fondi dovrebbe essere destinata per
garantire uno sviluppo equo in tutti i quartieri”.
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