Questo articolo è stato pubblicato il 3 novembre 2017 sul numero 1229 di Internazionale. L’originale era uscito su The London Review of Books con il titolo The Sucker, the Sucker!.
Nel 1815, quindici anni prima di realizzare la sua opera più celebre, La grande onda di Kanagawa, Hokusai pubblicò tre volumi di stampe erotiche. Tra queste c’era la xilografia Tako to ama (Polpo e pescatrice subacquea), anche se il titolo fu tradotto con Il sogno della moglie del pescatore. Raffigura una donna nuda stesa sulla schiena, con le gambe aperte e gli occhi chiusi, mentre un enorme polpo rosso le fa un cunnilingus. Gli occhi obliqui del polpo sporgono tra le gambe della donna e i suoi arti coperti di ventose le avvolgono il corpo fremente.
Un secondo polpo, più piccolo, le infila il becco nella bocca stringendole il capezzolo sinistro con la punta di un braccio. In Europa la stampa fu interpretata come la scena di uno stupro. Ma i critici non capivano il giapponese. Nel testo che riempie lo spazio tra i corpi intrecciati, la pescatrice subacquea esclama: “Odioso polpo! Mi togli il respiro succhiandomi alla bocca del ventre! Ah! Sì… è… lì! Con la ventosa, la ventosa…! Lì, lì…! Finora era me che gli uomini chiamavano polpo! Polpo…! Come fai…? Oh! Limiti e confini scomparsi! Svanisco!”.
Il polpo minaccia i limiti. Il suo corpo, una massa di tessuti molli senza ossa, non ha una forma fissa. Anche i polpi grossi (la specie più grande, il polpo gigante del Pacifico, ha un’apertura delle braccia di almeno sei metri e pesa 45 chili) riescono a passare da una fessura larga due centimetri e mezzo, più o meno le dimensioni di un loro occhio. Queste caratteristiche, unite alla notevole forza (un maschio adulto di polpo gigante del Pacifico può sollevare quasi quattordici chili con ognuna delle sue 1.600 ventose), spiegano perché è così difficile tenere i polpi in cattività. Molti esemplari sono scappati dalle vasche degli acquari attraverso piccole aperture. Alcuni sono riusciti a sollevare i coperchi delle vasche e a raggiungere uno spuntino in una vasca vicina o un tubo di scarico e da lì, forse, tornare al mare.
I polpi non hanno un colore o una consistenza stabili. Li cambiano a piacimento per adattarsi all’ambiente: un polpo che si mimetizza può essere invisibile a pochi metri di distanza. Come gli esseri umani, hanno un sistema nervoso centralizzato, ma nel loro caso non esiste una distinzione netta tra cervello e corpo. I neuroni del polpo sono distribuiti su tutto il corpo e due terzi si trovano sulle braccia. I polpi hanno braccia, non tentacoli (i tentacoli hanno ventose solo sulle punte), a differenza di calamari e seppie, che hanno sia braccia sia tentacoli. Ogni braccio può agire autonomamente in modo intelligente, afferrando e manipolando oggetti e cacciando.
Da un punto di vista evolutivo, l’intelligenza dei polpi è un’anomalia. L’ultimo antenato comune agli esseri umani (e ad altri animali intelligenti come scimmie, delfini, cani, corvi) e ai polpi era probabilmente una creatura primitiva vissuta seicento milioni di anni fa, cieca e simile a un verme. Altre creature ugualmente distanti dagli esseri umani sul piano evolutivo (astici, chiocciole, lumache, vongole) si collocano piuttosto in basso sulla scala cognitiva. Ma i polpi – e in parte anche i loro cugini cefalopodi, la seppia e il calamaro – contraddicono la limpida distinzione evolutiva tra vertebrati intelligenti e invertebrati poco svegli. Trovano soluzioni complesse ai problemi, riescono a imparare a usare degli strumenti, sono in grado di imitare e di ingannare e, secondo alcuni, hanno anche senso dell’umorismo. Quanto siano elaborate le loro capacità è oggetto di discussione tra gli scienziati: i polpi sono difficili da studiare proprio perché sono così strani. La loro intelligenza è al tempo stesso simile e totalmente diversa dalla nostra. I polpi sono quanto di più vicino a una specie intelligente aliena possiamo incontrare sulla Terra.
Peter Godfrey-Smith, autore di Other minds: The octopus, the sea, and the deep origins of consciousness, è un filosofo e sommozzatore che da anni studia i polpi e altri cefalopodi in natura. Secondo lui, la stranezza dei polpi ci dà l’opportunità di riflettere sulla natura della cognizione e della coscienza senza partire dall’esempio degli esseri umani. La loro distanza evolutiva da noi li rende “un esperimento indipendente nel campo dell’evoluzione dei grandi cervelli e dei comportamenti complessi”. Se riusciamo a stabilire un contatto intelligente con i polpi (a capirli e a farci capire da loro), non è “per via di una storia comune o di una qualche parentela, ma perché l’evoluzione ha costruito delle menti due volte”.
E se l’abisso evolutivo tra noi e il polpo fosse tale da rendere impossibile l’intesa reciproca? In questo caso il polpo avrebbe qualcosa da insegnarci sui limiti della nostra stessa comprensione.
Otto braccia e tre cuori
Il polpo è un mollusco con otto braccia e un corpo molle. Le braccia, coperte di ventose, sono disposte radialmente intorno a una bocca dal becco appuntito. Il polpo si nutre catturando le sue prede con un braccio e trasportandole fino alla bocca lungo un tappeto ondeggiante di ventose (in questo senso le braccia del polpo possono anche essere considerate le sue labbra). In cima alle braccia si trova la testa, che contiene il cervello e ha due grandi occhi con le pupille orizzontali, come gli occhi di un gatto girati di novanta gradi. Dietro la testa c’è il mantello, una grossa struttura tondeggiante che racchiude gli organi vitali del polpo, compresi tre cuori che pompano sangue verde-azzurro. Attaccato al mantello c’è un sifone tubolare che il polpo usa di volta in volta per la propulsione a getto, per la respirazione, per l’escrezione e per schizzare d’inchiostro i predatori.
Le dimensioni di un polpo adulto vanno dai sei metri di apertura delle braccia di un polpo gigante del Pacifico ai due centimetri e mezzo dell’Octopus wolfi, che pesa meno di un grammo. Nel romanzo I lavoratori del mare, Victor Hugo fa una lunga descrizione del polpo o “pesce-diavolo”:
Se il terrore è uno scopo, la piovra è un capolavoro… Questa massa informe avanza lentamente verso di voi. All’improvviso si apre, otto raggi si allargano bruscamente intorno a una faccia con due occhi. Quei raggi sono vivi: fiammeggiano ondeggiando. Spaventosa espansione! La sua stretta strangola, il suo contatto paralizza. Ha l’aspetto dello scorbuto o della cancrena. È una malattia fatta mostruosità. Sotto ognuna delle antenne scorrono parallele due file di pustole di grandezza decrescente, cartilagini cilindriche, cornee, livide. Una viscosità dotata di volontà, cosa può esserci di più orribile?
I polpi sono effettivamente viscosi. Secondo Sy Montgomery, autore dello splendido Soul of an octopus, il muco sulla pelle di un polpo è un misto di bava e moccio. Ma la volontà del polpo è tutto fuorché orribile, quanto meno verso gli esseri umani. I polpi a volte attaccano le persone, dando un morsetto velenoso o rubando una videocamera subacquea se si sentono minacciati o disturbati, ma in genere sono creature miti e curiose. I pescatori, invece, spesso li uccidono strappandogli il cervello a morsi, e in molti paesi sono mangiati vivi. Quando i polpi incontrano dei nuotatori o dei sommozzatori, capita che gli si avvicinino tendendo un braccio indagatore, e a volte li prendono per mano e li portano a fare un giro. Aristotele, scambiando questa curiosità per scarsa intelligenza, li definiva “creature sciocche” perché tendevano ad avvicinarsi alla mano tesa di un essere umano.
I polpi sono in grado di riconoscere le persone e reagiscono in modo diverso davanti a individui diversi, accogliendone alcuni con una carezza e altri con una spruzzata di inchiostro. È un comportamento sorprendente in un animale così antisociale. I polpi conducono un’esistenza solitaria in un’unica tana e muoiono giovani, poco dopo essersi riprodotti. Molti polpi maschi, per evitare di essere uccisi durante l’accoppiamento, si tengono quanto più possibile distanti dalla femmina, tendendo verso il suo sifone un unico braccio con una sacca di sperma, una mossa chiamata “l’allungo”.
Ma quanto sono intelligenti i polpi? Un polpo ha mezzo miliardo di neuroni, più o meno come un cane (un essere umano ne ha cento miliardi). Inoltre ha un elevato rapporto tra volume cerebrale e massa corporea, un segno di quanto un animale investe nelle proprie capacità cognitive. Ma si tratta di indicatori approssimativi dell’intelligenza animale. Ci sono anche altri fattori su cui basarsi, come il numero e la complessità delle connessioni sinaptiche tra i neuroni (corvi e pappagalli, pur avendo cervelli piccoli, sono molto intelligenti). E il rapporto tra volume cerebrale e massa corporea non tiene conto della maggior parte dei neuroni del polpo, che si trova fuori dal suo cervello. Come se non bastasse, la struttura del cervello del polpo non ha niente a che vedere con quella del cervello umano. Perfino gli uccelli e i pesci hanno un cervello che corrisponde perfettamente ad alcune parti del cervello umano. Il cervello del polpo, invece, è costruito secondo un modello completamente diverso.
Quando i polpi sono in cattività sembrano essere consapevoli della loro condizione
Visto che il confronto con il cervello umano non ci dice granché, gli scienziati cercano di valutare il potere cognitivo del polpo partendo dal suo comportamento. Il problema è che si scontrano spesso con quella che Godfrey-Smith chiama una “mancata corrispondenza” tra racconti aneddotici e studi sperimentali. In laboratorio i polpi se la cavano piuttosto bene: riescono a orientarsi nei labirinti, a usare la memoria per risolvere dei rompicapo semplici e a svitare i coperchi di barattoli e bottiglie a prova di bambino per procurarsi del cibo (alcuni sono stati ripresi mentre aprivano dei barattoli dall’interno). Ma possono metterci tantissimo a imparare nuovi comportamenti, e questo, secondo alcuni ricercatori, indicherebbe dei limiti cognitivi.
Molti dei primi studi sull’intelligenza dei polpi sono stati fatti nella stazione zoologica di Napoli. Nel 1959 Peter Dews, uno scienziato di Harvard, addestrò tre polpi a tirare una leva per ottenere un pezzo di sardina. Due di loro, Albert e Bertram, impararono a tirare la leva con una “ragionevole costanza”. Invece il terzo, Charles, appoggiava le braccia contro le pareti della vasca esercitando un’enorme pressione sulla leva, tanto che finì per romperla, interrompendo prematuramente l’esperimento. Dews inoltre riferì che Charles aveva afferrato e immerso più volte una lampada nella sua vasca e che aveva “una spiccata tendenza a spruzzare dei getti d’acqua fuori della vasca, in particolare contro il ricercatore”. “Questo comportamento”, scrisse Dews, “interferiva materialmente con il corretto svolgimento degli esperimenti ed era chiaramente incompatibile con l’azione di tirare una leva”. Secondo Godfrey-Smith, questa storia “dice quasi tutto sul comportamento dei polpi”. I polpi sono molto curiosi e usano gli oggetti che li circondano piegandoli ai propri fini. Forse ci sono cose che i polpi faticano a imparare. O forse hanno di meglio da fare.
Coscienza senza mezze misure
I polpi in cattività sembrano essere consapevoli della loro condizione. Vi si adattano, ma possono anche opporvi resistenza. Quando provano a scappare tendono ad aspettare il momento in cui nessuno li guarda. Ci sono polpi che hanno allagato dei laboratori tappando con le braccia le valvole delle vasche.
All’università di Otago, in Nuova Zelanda, un polpo causava cortocircuiti spruzzando acqua contro le lampadine dell’acquario, e lo faceva così spesso che alla fine hanno dovuto liberarlo. Jean Boal, una studiosa di cefalopodi della Millersville university, in Pennsylvania, ha raccontato che un giorno stava dando del calamaro scongelato (non proprio il cibo preferito dai polpi) ad alcuni esemplari rinchiusi in una fila di vasche. Ripassando davanti alla prima vasca si accorse che il polpo, invece di mangiare il calamaro, lo stringeva con la punta di un braccio teso. Guardando Boal, attraversò lentamente la vasca e fiondò il calamaro nel tubo di scarico.
Cosa si prova a essere un polpo? Si prova davvero qualcosa? O i polpi sono solo, per dirla con Godfrey-Smith, “macchine biochimiche per le quali all’interno tutto è buio?”. Questo genere di domande è un modo filosoficamente conciso di chiedere se una creatura è cosciente. Per molti filosofi, la coscienza è un fenomeno senza mezze misure: si ha o non si ha. Gli esseri umani ce l’hanno, e forse anche gli scimpanzé e i delfini. I topi, le formiche e le amebe presumibilmente no.
Questa visione si fonda in parte sul fatto che è difficile immaginare dei gradi di coscienza. Altri attributi cognitivi, come la memoria, le capacità linguistiche e l’abilità nel risolvere problemi, possono variare da una creatura all’altra, da una specie all’altra. Per la coscienza non sembra possibile far valere lo stesso principio. Eppure, se la coscienza è qualcosa di naturale che si è evoluto nel tempo, sembra improbabile che sia spuntata così, già formata, a un certo punto della storia dell’evoluzione.
Godfrey-Smith parte dal principio che la coscienza sia qualcosa di evoluto, e che abbia quindi dei precursori più primitivi: in altre parole, che possa esistere in gradi. Secondo lui, la coscienza (il fatto di possedere un modello “interiore” del mondo “esteriore”, o la consapevolezza di avere una prospettiva integrata e soggettiva del mondo) è solo una forma altamente evoluta “dell’esperienza soggettiva”.
Molti animali, sostiene Godfrey-Smith, hanno un certo grado di esperienza soggettiva, senza arrivare a una vera e propria coscienza. Basta pensare a quelle che il fisiologo Derek Denton chiamava “emozioni primordiali”: sete, bisogno d’aria, dolore fisico. Queste sensazioni interferiscono con dei processi mentali più complessi e non possono essere ignorate. Rimandano a una forma più elementare di esperienza del mondo, una forma che secondo Godfrey-Smith non richiede un sofisticato modello interiore del mondo. A proposito del dolore, della sete o del bisogno d’aria, il filosofo scrive: “Pensate che siano qualcosa che sentiamo solo in virtù di un sofisticato processo di elaborazione cognitiva emerso nei mammiferi in uno stadio avanzato dell’evoluzione? Ne dubito”.
L’esempio del dolore animale sembra confermare questa osservazione. Alcuni animali semplici reagiscono alle lesioni fisiche mostrando segni di sofferenza. Prove sperimentali indicano che provano dolore e che le lesioni fisiche li fanno stare male. Il pesce zebra, dopo che gli è stata iniettata quella che è considerata una sostanza chimica dolorosa, preferirà un ambiente che in altri casi sarebbe per lui meno piacevole se nell’acqua sarà stato sciolto un analgesico. Allo stesso modo, i polli con delle lesioni alle gambe sceglieranno del mangime che generalmente non amano se contiene un antidolorifico. Gli insetti non sembrano provare dolore e non cambiano comportamento anche dopo aver subìto lesioni gravi. I granchi e i gamberi, invece, si puliscono le parti ferite, ma se gli viene somministrato un anestetico le puliscono di meno. Nulla di tutto questo dimostra che gli animali provano dolore, ma allora non è chiaro cosa potrebbe dimostrarlo. Per dirla con Godfrey-Smith, “potete continuare a dubitare che questi animali provino qualcosa. Ma potete avere lo stesso dubbio sul vostro vicino”.
Se perfino gli animali semplici hanno forme elementari di coscienza o di esperienza soggettiva, come si sentono? Cosa si prova a essere un granchio ferito? Godfrey-Smith riprende una metafora usata dalle teoriche dell’evoluzione Simona Ginsburg ed Eva Jablonka: il rumore bianco. La coscienza primitiva, scrive il filosofo, potrebbe essere come “un crepitio di elettricità metabolica”, un “brusio confuso” la cui complessità e chiarezza aumentano con l’evoluzione.
Se esistono dei gradi di coscienza, dove si colloca il polpo? Quasi certamente i polpi provano dolore. Curano e proteggono le parti del corpo ferite e non amano essere toccati vicino alle lesioni. Fino a poco tempo fa i ricercatori eseguivano operazioni sui polpi senza anestetico, e in molti dei primi esperimenti si usava l’elettroshock. La direttiva europea del 2010 sulla protezione degli animali usati a fini scientifici ha inserito i cefalopodi nella stessa categoria degli animali vertebrati, “perché è dimostrato che possono provare dolore, sofferenza, angoscia e danno prolungato”.
Oltre a provare dolore, i polpi hanno delle sofisticate capacità sensoriali: un’ottima vista e un senso spiccato del gusto e dell’olfatto. Per Godfrey-Smith, questo dato, unito al loro grande sistema nervoso e al loro comportamento complesso, è la prova che i polpi hanno un’esperienza soggettiva ricca. Ma potrebbe esserci dell’altro. Secondo alcuni studiosi, in particolare Stanislas Dehaene, un certo tipo di elaborazione mentale (per esempio eseguire dei compiti nuovi e prolungati nel tempo) non solo va di pari passo con la coscienza umana, ma aiuta a capire perché gli esseri umani hanno coscienza di sé. La curiosità del polpo, la sua capacità di adattarsi a circostanze nuove, “evocano” – sostiene Godfrey-Smith – queste forme cognitive tipicamente umane. Se così fosse, allora essere un polpo potrebbe somigliare alla condizione umana molto più di quanto abbiamo sempre pensato.
I polpi mimetici possono prendere le sembianze di oltre quindici animali
Immaginare l’esperienza soggettiva di un polpo è difficile anche per via dello strano rapporto tra il suo cervello e il suo corpo. Le braccia di un polpo hanno più neuroni del suo cervello, circa diecimila neuroni in ogni ventosa. Le sue braccia possono sentire sapori e odori, e presentano una memoria a breve termine. Ogni braccio agisce in modo notevolmente autonomo rispetto al cervello. Perfino un braccio tagliato chirurgicamente può tendersi e afferrare oggetti, evitare stimolazioni dolorose e cambiare colore. Ma il cervello di un polpo può esercitare una funzione esecutiva, “riacquistando il controllo” se necessario, per esempio quando un polpo tende un unico braccio indagatore per esaminare un estraneo.
Godfrey-Smith sostiene che il polpo si trovi, da un punto di vista fenomenologico, in una posizione ibrida: le sue braccia sono in parte sé, in parte altro. Per questo a volte è presentato come l’emblema della “cognizione incarnata”, una teoria in psicologia secondo la quale il corpo fisico, limitando e rendendo possibili certe azioni, è di per sé “intelligente”. La capacità umana di camminare, per esempio, non è solo una questione di controllo cerebrale dall’alto verso il basso, ma anche una funzione degli angoli delle nostre articolazioni. In questo senso, i nostri corpi codificano informazioni essenziali per l’azione intelligente.
Non c’è dubbio che l’incarnazione di un polpo sia radicalmente diversa dalla nostra, e che dobbiamo afferrarla bene per capire la mente di un polpo. Ma considerare il polpo in termini di cognizione incarnata potrebbe sminuirne la singolarità. Mentre ha senso considerare i nostri corpi in termini di limiti e possibilità, il corpo del polpo, come scrive Godfrey-Smith, è “proteiforme, tutto possibilità”. Anche chiedersi in che misura il corpo contribuisca all’azione intelligente presuppone una divisione tra cervello e corpo che non sembra applicarsi al polpo. Il corpo del polpo è tutto sistema nervoso: non è una cosa controllata dalla parte pensante dell’animale, è di per sé pensante.
Considerando l’esperienza del polpo ci s’imbatte in un altro fatto curioso, che riguarda il suo rapporto con il colore. La pelle di un polpo è uno schermo a strati di sacche di colore simili a pixel, chiamate cromatofori, che consentono al polpo di cambiare colore a piacere per armonizzarsi con l’ambiente o minacciare un aggressore. I polpi mimetici possono prendere le sembianze di oltre quindici animali diversi, tra cui platesse, pesci leone e serpenti di mare.
Il colore del polpo, a quanto pare, indica anche il suo umore: alcuni polpi diventano bianchi dopo essere stati accarezzati a lungo da un essere umano e dopo l’accoppiamento. Tra le manifestazioni cromatiche prodotte dai polpi possono esserci schemi complessi fatti di strisce e puntini, anelli lampeggianti e onde colorate. Eppure i polpi, come la maggior parte dei cefalopodi, sembrano non distinguere i colori. I loro occhi non hanno il tipo di fotorecettori necessari per vedere i colori, e alcuni esperimenti hanno dimostrato che i polpi non riescono a distinguere oggetti di colori diversi.
Recentemente si è scoperto che i polpi hanno fotorecettori non solo negli occhi ma anche nella pelle, e che quindi la loro pelle è in grado di vedere (oltre che di sentire sapori e odori), mandando al cervello le informazioni visive ricevute o elaborandole da sola. Entrambe le ipotesi sono strane: o l’intera pelle diventa un occhio, o il corpo del polpo vede indipendentemente dal suo cervello. Ma anche così il quadro non è completo, perché i fotorecettori nella pelle del polpo, come quelli negli occhi, non fanno percepire i colori. L’ipotesi più convincente è che una qualche complessa interazione tra i fotorecettori della pelle e i cromatofori permette al polpo di assumere colori che non è in grado di vedere. I polpi cambiano colore soprattutto per mimetizzarsi e per inviare segnali. A volte, però, producono complessi giochi di colori senza nessun motivo apparente, non in presenza di predatori o di altri polpi. Godfrey-Smith chiama queste manifestazioni “chiacchiere cromatiche”, e sostiene che potrebbero essere solo un involontario effetto metabolico.
E se invece tradissero un’intenzione espressiva? Se i polpi parlassero a se stessi? È un’ipotesi problematica perché i polpi non sembrano avere un linguaggio, ed è quindi improbabile che parlino tanto agli altri quanto a se stessi. Wittgenstein sosteneva l’impossibilità concettuale di una “lingua puramente privata”, che avesse senso per un’unica persona. Che sia concettualmente possibile o meno, è in ogni caso inverosimile dal punto di vista evolutivo, poiché la capacità di parlare a se stessi sembrerebbe essere una successiva internalizzazione della capacità di parlare ad altri.
Con un corpo che è uno schermo in megapixel, in teoria il polpo potrebbe trasmettere informazioni di una complessità quasi infinita, con una ricchezza espressiva che farebbe invidia a scimpanzé e babbuini. Eppure gran parte dei segnali cromatici prodotti dai polpi non sembra avere nessun effetto significativo sugli altri polpi, il che lascia pensare che si tratti di segni senza senso, di parole prive di significato.
Una vita ricca ma breve
La maggior parte delle specie di polpi vive solo un anno o due. Il polpo gigante del Pacifico, la specie che vive più a lungo, muore dopo al massimo quattro anni. Femmine e maschi si accoppiano una volta sola. Poco dopo comincia un rapido e improvviso declino verso la senescenza: gli animali sviluppano delle lesioni bianche sulla pelle e diventano inappetenti, scoordinati e confusi. Le femmine muoiono di fame mentre proteggono le loro uova e i maschi di solito vengono catturati da un predatore mentre vagano senza meta nell’oceano. Molti degli animali più intelligenti vivono più a lungo dei polpi, e lo stesso vale per alcuni molluschi.
Per quale motivo la vita di un polpo è così breve? I teorici dell’evoluzione in genere spiegano l’invecchiamento riferendosi al cosiddetto effetto Medawar: la selezione naturale tende a eliminare le mutazioni i cui effetti nocivi compaiono precocemente nella vita di un animale, ma è meno probabile che le elimini se quegli effetti si manifestano più tardi. Questo perché la maggior parte degli animali muore per predazione, malattia o incidente prima di raggiungere l’età in cui potrebbero attivarsi mutazioni nocive. Le mutazioni che si manifestano tardi si accumulano quindi nella popolazione animale, finendo a volte per produrre una durata di vita programmata.
Nel polpo, l’effetto Medawar unito a un inconsueto piano strutturale ha portato a una durata di vita insolitamente breve. All’inizio della sua storia evolutiva, il polpo ha rinunciato alla conchiglia protettiva tipica dei molluschi per abbracciare una vita di possibilità senza limiti. Ma così facendo si è reso più vulnerabile agli attacchi di predatori provvisti di denti e ossa. Un animale dal corpo molle e privo di conchiglia non può vivere a lungo, e così le mutazioni nocive che si attivano solo quando ha vissuto un paio di anni si diffonderanno rapidamente in tutta la popolazione. Il risultato è una vita ricca di esperienze ma chiaramente breve.
All’inizio dell’estate del 2017, andando in macchina da San Francisco a Los Angeles, mi sono fermata al Monterey bay aquarium per vedere i polpi. In quel periodo l’acquario ospitava due polpi giganti del Pacifico, e altri due erano stati riuniti per una mostra temporanea, Tentacles, la più grande mai dedicata ai cefalopodi. Era il mio secondo incontro con un polpo vivo (preferisco non ricordare il numero di incontri a tavola con dei polpi morti, ottimi come carpaccio anche se ormai ci ho messo una croce sopra).
Il primo era avvenuto a Mykonos, mentre facevo snorkeling. Non c’era molto da vedere, finché a un certo punto non notai una massa rossa a qualche metro da me, grande più o meno quanto un gatto, con un solo occhio che mi guardava. Rimasi immobile, ricambiando lo sguardo. Il polpo faceva dei piccoli movimenti, arricciando e stendendo le braccia, e respirava rumorosamente spostandosi sul fondale. Alla fine strisciò fino a una corda finita sott’acqua e l’avviluppò. Il suo corpo si trasformò in una matassa marrone coperta di conchiglie, poi rimase un unico occhio bianco con il tratto nero della pupilla. L’occhio si chiuse, e il polpo svanì.
Nell’acquario di Monterey i polpi giganti si trovavano in due vasche adiacenti, larghe qualche metro. Il primo, pieno di energia, schiudeva e comprimeva il suo enorme corpo, srotolando le braccia e premendo le ventose contro le pareti della vasca, facendo avanti e dietro nell’acqua fremente e zampillante. I turisti scattavano foto con il flash nonostante i cartelli spiegassero che i polpi non amano le luci forti.
Quando guardiamo un polpo, la nostra attenzione si porta sulle file di ventose, sulle braccia arricciate e sul corpo protuberante. Gli occhi appaiono assonnati e semichiusi. Bisogna sapere cosa cercare per notare che sono aperti, e che ci stanno fissando. Ho guardato il polpo negli occhi e ho scoperto che anche lui mi stava fissando, mentre il suo corpo si gonfiava e si sgonfiava.
Il secondo polpo era più calmo e se ne stava raggomitolato in cima alla vasca. Pochi esili fili di uova traslucide, simili a perle, che il polpo aveva deposto e poi tenuto faticosamente insieme con le punte sottili delle braccia, erano sospese lì vicino, unico resto della covata rimossa dal personale dell’acquario. Il polpo aveva la pelle opaca e bianca. Stava morendo.
Gli acquari, come gli zoo, seguono la logica della conservazione: i singoli animali devono sacrificare la loro libertà per far sì che la specie possa essere protetta. La logica conservazionista s’incarna in tutta la sua persuasività in un acquario come quello di Monterey, che vanta un centro di ricerca, un ufficio di politica ambientale e delle attività didattiche pubbliche d’avanguardia. Molte delle sue creature sembrano felicissime di essere lì, per quanto sia possibile giudicarlo, e altre sembrano perfettamente ignare di dove si trovano. È certo che molti di questi animali vivrebbero meno a lungo e sarebbero meno sani se fossero nell’oceano.
Eppure rimangono dei dubbi etici, sollevati da creature come i polpi, che anelano così chiaramente alla libertà. Forse dal nostro punto di vista la vita di un polpo selvatico è già di per sé tragica, fatta di socialità senza società, di messaggi inascoltati e di un mondo vitale poco longevo. Un alieno. Se il polpo fosse più simile a noi, forse lo lasceremmo in pace.
(Traduzione di Francesca Spinelli)
Questo articolo è stato pubblicato il 3 novembre 2017 sul numero 1229 di Internazionale. L’originale era uscito su The London Review of Books con il titolo The Sucker, the Sucker!.
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