L’uso che viene fatto del suolo naturale è il più
evidente, diretto e immediato indicatore del tipo di civilizzazione. Il sottile strato di
superficie che ricopre la faccia della Terra è la fonte primaria della
riproduzione di ogni forma di vita. In un pugno di terra vivono miliardi di
microorganismi in simbiosi con la vegetazione. Le piante regolano i cicli
idrogeologici, mitigano le temperature, “catturano” e fissano il carbonio e le
altre sostanze che rendono la terra fertile e abitabile. Vengono chiamati
“servizi ecosistemici” che la natura dona gentilmente e gratuitamente
all’umanità. La varietà e la numerosità delle specie (biodiversità) dipendono
dalle condizioni del suolo. Da qui l’importanza dei dati annualmente pubblicati
dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra, Rapporto
sul consumo di suolo 2020), definito da Luca Mercalli un “appuntamento
doloroso”.
Secondo gli studi della Intergovernment Science-Policy Platform on
Biodiversity and Ecosystem Service (IPBS) nel suo ultimo Global Assessment
Report il 75 per cento degli
ecosistemi terrestri e il 65 per cento di quelli marini sono stati modificati
in modo significativo. L’Italia è tra i paesi peggiori in Europa.
Nonostante la costante diminuzione degli abitanti, solo nell’ultimo anno sono
andati perduti – “consumati” – quasi cinquantotto chilometri quadrati di
terreno naturale, agricolo o semiagricolo; sbancati, edificati, permanentemente
impermeabilizzati. Le più colpite
sono le zone costiere, le aree urbane e periurbane – con la scomparsa delle
poche aree verdi interne alle città – soprattutto nella Pianura padana.
Le classifiche del “consumo” del suolo vedono i primati di Veneto e Lombardia,
tra le Regioni, e di Roma, Cagliari e Catania tra i comuni.
Dal 2012 ad oggi in un terzo del Paese è
aumentato il degrado del territorio. Una autentica follia anche solo
considerando i danni economici indiretti, i “costi nascosti” conseguenti
all’erosione del “capitale naturale” causata dall’abbandono di ogni politica di
pianificazione urbanistica che espone il territorio a rischi idrogeologici,
distrugge risorse agricole e paesaggistiche. La mancanza di aree verdi e alberate
nelle città crea “bolle di calore”. La scomparsa delle aree umide e la
interruzione dei “corridoi ecologici” (dovuti alle barriere create dalle grandi
opere infrastrutturali) distrugge gli habitat naturali e compromette la
biodiversità. Se ci aggiungiamo le pratiche agricole industrializzate e
chimicizzate otteniamo la perdita di fertilità e delle basi produttive agricole
in un paese che è già importatore netto di beni alimentari. Le aree a destinazione agricola si sono dimezzate
nell’arco di cinquant’anni. Ma, prima di tutto, andrebbero calcolati
i costi sanitari. Alcuni
ricercatori nel corso dell’epidemia di Covid19 si sono chiesti come mai
l’Italia sia stata la prima e la più colpita (Why Italy First? Health,
Geographical and Planning Aspects of the COVID-19 Outbreak, B.Murgante,
G.Borruso, G.Balletto, P.Castiglia, M.Dettori). Tra le possibili cause della
diffusione e letalità del virus hanno
riscontrato: l’uso del suolo, l’inquinamento atmosferico, il clima e condizioni
meteorologiche.
Con questi dati di casa nostra, indignarsi per la
deforestazione delle aree pluviali amazzoniche è pura ipocrisia. Bolsonaro è
tra noi! Fumo negli occhi sono anche i solenni impegni sottoscritti con l’Agenda
2030 dell’Onu sullo Sviluppo sostenibile da raggiungere anche con l’azzeramento
del consumo netto di suolo tramite demolizioni e rinaturalizzazioni, i cui
obiettivi, calcola Ispra – “sulla base delle attuali previsioni demografiche,
imporrebbero un saldo negativo del consumo di suolo. Ciò significa che, a
partire dal 2030, la ‘sostenibilità’ dello sviluppo richiederebbe un aumento
netto delle aree naturali di 316 km2 o addirittura di 971 km2”.
Se vogliamo mettere al riparo la biodiversità dalla “Sesta estinzione di
massa” (la quinta fu quella dei dinosauri, sessantacinque milioni di anni fa,
provocata da una meteorite) l’unica strategia utile è quella indicata
dall’etnologo conservazionista Edward Osborne Wilson con la strategia Half
Earth: riservare il 50 per cento del suolo all’evoluzione naturale degli
ecosistemi. Nel frattempo, a scopo
precauzionale, basterebbe una leggina di una riga: “Sono vietati i cambi di
destinazione d’uso delle aree inedificate. Pertanto i diritti edificatori
decadono”. Non c’è Green Deal se non parte da qui.
Nessun commento:
Posta un commento