Le fonti
rinnovabili sono elementi irrinunciabili per la costruzione di un regime
energetico fondato sulla giustizia climatica e sociale. Ne sono, però, anche
condizione sufficiente? Il testo che segue riflette su questa domanda,
discutendo da una prospettiva geografica le contraddizioni del produrre energia
‘pulita’ dentro il paradigma dell’accumulazione perpetua.
Procediamo
con ordine. La necessità di de-carbonizzare il regime energetico, è oramai
largamente accettata dagli approcci egemonici nell’accademia e nella politica.
Tuttavia, sulla determinazione di quanto profondo debba essere tale cambiamento
e di come debbano essere distribuiti costi e benefici tra classi e territori,
pesano i rapporti di forza prevalenti nella società, aggravati dalla
frammentazione della coscienza di classe dei subalterni. All’apice dell’era
neoliberale, le teorie della modernizzazione ecologica (del capitalismo) hanno
intelaiato la transizione energetica attorno ai principi dell’investimento
privato, mettendo l’accumulazione di plusvalore al riparo da qualunque pretesa
trasformativa, men che mai sovversiva. Un esito, questo, cui si è giunti
attraverso la pacificazione del ciclo di lotte che dalla fine degli anni ’60, e
lungo i ’70 e parte degli ’80, intrecciava le istanze ‘ambientaliste’
all’interno dei conflitti di classe, ponendo il sovvertimento sistemico quale
unica, complessiva, soluzione alle ingiustizie sociali, quindi ambientali. Le
energie rinnovabili erano concepite come alternative all’ordine mondiale
-guerresco- del nucleare e delle fossili. Erano, insomma, uno tra gli elementi
di una nuova civiltà. Le teorie della modernizzazione ecologica hanno via via
astratto e cooptato le energie rinnovabili dal contesto in cui erano state
pensate da ecopacifismo e antinuclearismo. Le hanno rese una mera soluzione
tecnica, sanificata dal veleno rivoluzionario, completamente funzionale
all’accumulazione perpetua. E allo stesso tempo le hanno forzate dentro la
retorica imbonitrice della green economy, che dagli anni 2000 ne faceva il
testimonial di quanto fosse adeguato, e profittevole, derubricare la
distruttiva irrazionalità del capitalismo a semplice imperfezione. Ovvero, di
quanto fosse possibile, e sexy, proteggere l’ambiente estraendone profitto.
Se però è
vero, come ci ricorda David Harvey, che in ogni momento “l’ambiente costruito
appare come un palinsesto di paesaggi la cui forma è determinata dai dettami dei
differenti modi di produzione a seconda del loro stadio di sviluppo storico”,
dovendone dedurre che “sotto il capitalismo […] tutti gli elementi assumono la
forma-merce”1,
non può sfuggire a questa logica la svolta ‘verde’ del capitalismo, quindi la
produzione rinnovabile dentro il mercato. È infatti con un processo di
mercificazione (commodification), continuamente esteso alle nature umane
e più-che-umane, che il capitalismo protende verso l’infinito l’estrazione di
plusvalore; che crea, cioè, geografie, ecologie e addirittura nature adatte a
soddisfare il suo imperativo categorico: per sempre accumulare sempre di più2.
Riformulando
la domanda iniziale possiamo ora chiederci quali spazi lascino i sistemi
sociotecnici che organizzano la produzione di energia rinnovabile, quindi le
narrazioni egemoniche innervate, al superamento in senso eco-socialista
dell’ecologia del capitale?
A questo
guardano le considerazioni teoriche e politiche3 esposte
più avanti. Sono il risultato dello studio di due casi di produzione
rinnovabile industriale, condotto nel corso degli ultimi due anni e che ha
combinato i metodi qualitativi e quantitativi della geografia umana. Il primo
si è concentrato sulla produzione di energia eolica nell’Appennino Apulo
Campano, il secondo sulla produzione di biogas, e delle colture energetiche
necessarie (mais prevalentemente), negli stati tedesco-orientali di Brandeburgo
e Meclemburgo-Pomerania Occidentale. Insomma, due periferie all’interno
dell’Europa occidentale, uno dei centri del capitalismo mondiale.
Oltre
all’elevata concentrazione geografica di investimenti e alla conflittualità
sociale sviluppatasi intorno ad essi, a rendere significativi i due casi è
proprio la marginalità economica e sociale dei rispettivi territori. Questa
affonda le radici nella storia più o meno recente, successiva all’unificazione,
per l’Italia (1861)4,
e alla riunificazione, per la Germania (1990)5.
E in particolare, il fallimento delle politiche pubbliche, tese a colmare il
divario con le aree più ricche dei due paesi, ha relegato i due territori in
una geografia periferica, tipica delle comunità sacrificate a svolgere funzioni
tributarie dell’accumulazione di capitale, affluente nei centri dell’economia
(ecologia) mondo6.
Ed è questo contesto che rende le due produzioni rinnovabili assimilabili a
enclavi estrattive. Mentre la stragrande maggioranza dell’energia prodotta
viene esportata, le tecnologie impiegate7,
che drenano porzioni sostanziali del plusvalore estratto, sono importate da
centri esterni, come la Germania occidentale, la Danimarca, l’Italia
settentrionale, la Cina e gli USA. Infine, i capitali che controllano gli
impianti sono, per grandezza e origine, scarsamente integrati nel tessuto
socioeconomico locale.
Non bastano
però lo spirare del vento e la produttività del suolo agricolo a spiegare il
radicamento delle due filiere estrattive. Un quadro omogeneo possiamo
costruirlo solo guardando ai costi ridotti e la redditività degli investimenti,
alta – come vedremo – nonostante la bassa produttività degli impianti.
In quanto ai
costi, a contare è quello della terra. La dismissione dell’economia agricola e
forestale dell’Appennino meridionale e la privatizzazione forzata della
proprietà collettiva e statale della DDR, dopo il 1989 in Germania, hanno
compresso i costi fondiari, inspessendo i margini di profitto. Cosa significa
questo dal punto di vista della teoria marxista? Soffermiamoci di nuovo su
David Harvey. Secondo il geografo inglese, gli aggiustamenti (fixes) cui
il capitale ricorre per mantenere sempre alta la redditività, tirata verso il
basso dalle sue stesse contraddizioni interne, sono in sostanza due:
l’innovazione tecnologica e la rimodulazione spazio-temporale8 degli
investimenti. Nei nostri casi, mentre l’aggiustamento tecnologico, turbine da
un lato e digestori-generatori dall’altro, ha consentito di valorizzare
determinati processi biofisici, ossia il vento e la produttività del suolo
agricolo, quello spazio-temporale ha guidato i capitali verso territori
marginali dove l’accesso a tali processi costava meno.
Qualcosa
però ancora non torna. Per quanto elevata la produttività della tecnologia, per
quanto compressi i costi della terra, né gli aerogeneratori né i
digestori-generatori sono in grado di produrre profitto. Nessuno di loro, insomma,
ha raggiunto quella che in gergo viene definita grid parity9.
Da dove
proviene quindi il reddito che le filiere estrattive in questione
redistribuiscono? Dall’incentivazione. Possiamo concepire quest’ultima
come un flusso di valore che lo Stato immette nelle filiere, con la
legittimazione della – irrinunciabile – necessità di mitigare la crisi
climatica. Tale flusso, che origina in processi produttivo-estrattivi situati
altrove nell’organizzazione socioeconomica e viene raccolto attraverso il
sistema fiscale, è assimilabile a una rendita finanziaria. Con una
fondamentale discontinuità: non accresce i profitti dell’entità che lo emette
(lo Stato), ma di quella che lo percepisce (investitori-speculatori). Con
questa redistribuzione verso l’alto, lo Stato foraggia l’accumulazione privata
perché realizzi la transizione energetica, fornendogli, al contempo, una
potente legittimazione.
Il volume
dell’incentivazione attira gli investitori come il miele le api. Più ce n’è più
sciamano. Sia per l’energia eolica in Italia che per il biogas in Germania il
picco di investimenti si sovrappone a quello di incentivazione, grossomodo tra
il 2002 e il 2012. Durante questo periodo, diverse fazioni del capitale, i
settori delle classi lavoratrici direttamente coinvolti (tra cui gli impiegati
nella produzione delle macchine e gli installatori) e alcune articolazioni
dello Stato, soprattutto a livello locale, hanno cooperato attraverso alleanze
territoriali10.
Almeno fino a quando il taglio degli incentivi non innescasse il si salvi chi
può.
Chiaramente,
le specificità dei due casi hanno favorito dialettiche storiche simili solo in
parte.
Nell’Appennino
meridionale, le opportunità offerte dall’incentivo CIP6 (1992), il primo a
sostenere la produzione rinnovabile in Italia, furono colte principalmente da
capitale nazionale, con le due aziende Riva Calzoni e West Ansaldo, e da
una joint venture di capitale statunitense e italiano riunito
nella Italian Vento Power Corporation, di Brian Caffyn e Oreste Vigorito.
Questi sarebbe ben presto diventato uno dei re dell’eolico italiano insieme a
Vito Nicastri, per potenza eolica gestita. I due incarnano la figura dello
sviluppatore verde in salsa italiana. Un ruolo che richiede la conoscenza –
palmo a palmo – dei territori, di cui gli sviluppatori, veri e propri
intermediari, padroneggiano i linguaggi11.
Senza di essi sarebbe impossibile per capitali di provenienza e natura
disparata accedere alla catena estrattiva dell’eolico di scala industriale in
Italia. Ovvero, agganciare i territori, influenzare gli enti locali, comprese
le procedure autorizzative che questi controllano, entrare in contatto con i
proprietari della terra e cooperare con le altre fazioni del capitale sovra o
sotto-ordinate nella filiera. Nel contesto socio-storico del capitalismo
italiano, ciò implica la convergenza di capitali armati, comunemente conosciuti
come mafie12.
Così la filiera si espande, in uno scambio fitto di influenze e soldi, lungo
reti che connettono potentati locali a nazionali, passando per i partiti. Tra
questi spicca la Lega Nord13.
In
Brandeburgo e Meclemburgo-Pomerania Occidentale il legame normalmente stretto
tra biogas e produzione agricola è stato esasperato dalla presenza di grandi
estensioni agricole a basso costo combinate con la generosità degli incentivi.
Dal 2004 un sistema di bonus ha premiato fortemente l’uso di colture
energetiche per la produzione di biogas14.
Il grande stimolo alla domanda, prevalentemente di mais, che ne è derivato si è
mutualmente rinforzato con un altro, fortissimo, originato dai sussidi per il
settore agricolo garantito dalla Politica Agricola Comune (PAC)15.
In sostanza, piantare monoculture energetiche su grandi appezzamenti e
trasformarle in biogas divenne incredibilmente profittevole, poiché remunerato
da due differenti linee di incentivi, uno per le rinnovabili e l’altro per
l’agricoltura. Bastò a suscitare gli appetiti di una pluralità di fazioni del
capitale, da quelle tradizionalmente agrarie ad altre con origini disparate,
tra cui grandi società di costruzioni, multinazionali produttrici di mobili e
fondi d’investimento16.
Grandi conglomerati agro-finanziari fecero il loro ingresso, approfittando
degli alti rendimenti possibili. Un esempio ne è KTG Agrar che, con 46 mila
ettari di cui 38 mila in Germania orientale, è stata la più grande
agro-corporation d’Europa fino al 2016, quando andò in bancarotta lasciando
debiti per 600 milioni di euro. Gli appetiti del gruppo per il biogas crebbero
talmente tanto che il ramo venne affidato a KTG bioenergie, una controllata
quotata in borsa. KTG Agrar era un grande collettore di incentivi per le
rinnovabili e sussidi PAC, che, tramite complesse ingegnerie contabili, usava
per nascondere la fragilità dei bilanci e aumentare costantemente la propria
esposizione debitoria. Un altro caso è AC biogas, per un periodo il più grande
produttore di biogas in Europa, con una produzione per lo più integrata
verticalmente, dai campi alla generazione elettrica. Anch’esso fallito nel
2014, in concomitanza con il taglio degli incentivi, impiegava capitali da
fondi d’investimento statunitensi, come Alinda Capital Partners, e banche
europee, tra cui Deutsche Bank.
Rimane
ora da capire come le filiere estrattive siano penetrate nei territori e con
quali effetti sulle relazioni socio-ecologiche. Ci vengono in aiuto i concetti
di accaparramento (grabbing) e inglobamento (enclosure)17,
con cui Marx racconta quanto l’atto fondativo del capitalismo si compia sempre
come espropriazione, espulsione e alienazione18.
In effetti, l’accaparramento e l’inglobamento caratterizzano anche i nostri due
casi, a un primo sguardo almeno come semplice accaparramento e inglobamento di
terra (land grabbing)19.
È infatti da questa forma cruda, ossia assicurando il controllo sulla terra in
quanto spazio e condizione di produzione, che accaparramento e inglobamento
possono estendersi all’interezza delle relazioni socio-ecologiche viventi su
specifiche porzioni di globo. Un processo perpetuo e necessario tanto quanto
l’accumulazione stessa. Almeno finché vigerà l’ordine del capitale.
Nel
caso tedesco, l’accaparramento di terra si è sviluppato secondo uno schema che
ha combinato meccanismi ostili di mercato20
e azione giuridico-amministrativa, nel solco della variante ordoliberale tipica
di quel paese. A una prima fase di privatizzazione immediatamente successiva
alla riunificazione, quando, sotto la guida dello Stato, il patrimonio agricolo
e forestale della DDR fu per la maggior parte spartito tra investitori privati,
e per la restante trasferito a una società pubblica che ne avrebbe completato
la privatizzazione, ne seguì una seconda. Dalla metà degli anni 2000 l’alto
livello di incentivazione del settore agricolo, anche a causa delle politiche
di supporto alle rinnovabili, i prezzi fondiari estremamente contenuti e i
bassi tassi d’interesse hanno accresciuto l’attrattività della terra
tedesco-orientale come opzione d’investimento. L’ondata di accaparramenti21
che ne è derivata ha progressivamente spinto in alto i prezzi, rendendo sempre
più difficile la permanenza nel settore per piccoli agricoltori, peraltro
esacerbando la già alta concentrazione della proprietà fondiaria22.
Nel
caso italiano, l’accaparramento di terra è avvenuto dapprima attraverso
meccanismi ostili di mercato e poi, primariamente e più classicamente, come
processo forzoso organizzato da un dispositivo giuridico: il d.lgs 387/2003
introdotto dall’allora governo Berlusconi. Il decreto stabilisce che “le opere
per la realizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili […] sono di
pubblica utilità ed indifferibili ed urgenti”. Con tale norma, si introdusse la
possibilità di espropriare ex lege gli appezzamenti individuati per la
costruzione di impianti rinnovabili, in assenza di un efficace sistema di
contrappesi. Da un lato, dunque, si tutelava l’investimento privato
riconoscendogli il diritto all’accaparramento di terra, dall’altro si
indebolivano le già flebili capacità di resistenza o negoziazione dei piccoli
proprietari, nonché la possibilità per le comunità territoriali di incidere
sulla programmazione socio-ecologica del proprio futuro.
Tuttavia,
l’accaparramento e l’inglobamento di terra non sono che la manifestazione
superficiale di una dialettica di mercificazione molto più profonda, dove l’accaparrare
e l’inglobare rispondono a-come dicevamo-ll’esigenza di metabolizzare in
merce, ovvero riplasmare in oggetti del capitale, porzioni sempre più ampie
dell’esistente. Ed è qui che l’accumulazione per espropriazione23
diviene accumulazione per incorporazione. Un processo che
nell’assicurare controllo su spazi e risorse, fra cui primariamente la terra,
non può che estendersi al groviglio vivente di relazioni socio-ecologiche che
li significano. Un processo che ingloba il territorio, inteso come socio-natura
geograficamente determinata, imponendo la riorganizzazione di quella dialettica
di “fecondazione e domesticazione” tra l’insediamento umano e la natura
più-che-umana secondo i dettami dell’accumulazione perpetua24.
Un’osservazione
progressivamente più profonda dei due casi in questione ci permette di scoprire
come le politiche di promozione delle fonti rinnovabili, dentro gli schemi del
capitalismo, possano, disgraziatamente, contribuire a rafforzarne il dominio. A
un primo, più immediato, livello di osservazione, si nota subito come il
paesaggio sia profondamente modificato, dalle pale che affollano i crinali
appenninici al giallo del mais che colora le lande tedesche orientali. Una
trasformazione visiva impetuosa quanto il boom sospinto dall’incentivazione irrazionalmente
concentrata su scale produttive estese. Così tanto da aver inspirato epiteti
quali “eolico selvaggio” o neologismi come “maisificazione” (Vermaisung)
del paesaggio, tutti e due coniati dai movimenti che delle filiere contestano
soprattutto il carattere estrattivo. Andando più a fondo, vediamo come il
radicamento delle due filiere estrattive, attraverso processi centralizzati e
poco partecipati, possa determinare l’instaurazione di dipendenze
socioeconomiche, dagli esiti peraltro prevedibili. Una volta che la fase di
picco passa e la bolla esplode, le fazioni del capitale più forti e mobili
disinvestono rapidamente e scappano, mitigando i contraccolpi o tramutandoli
addirittura in ulteriori profitti. Di contro, a subire i danni peggiori di tali
svalutazioni territorializzate rimangono le fazioni del capitale meno mobili,
come i piccoli i produttori di colture energetiche o i piccoli fornitori di
servizi. Ancora più duramente sono colpiti altri attori strutturalmente più
deboli, come i lavoratori, le cui vite dipendono da produzioni localizzate, o
come gli enti locali e le istituzioni di prossimità, che percepiscono una
seppur minima frazione del valore estratto, tramite la tassazione. Ciò appare
particolarmente chiaro dal caso tedesco, dove si è passati dall’incitare gli
agricoltori a trasformarsi in “coltivatori di energia”25,
alla catena di bancarotte e licenziamenti innescata dalla de-incentivazione.
Andando ancora più a fondo, colpisce come siano le stesse caratteristiche
biofisiche dei territori a uscire accomodate ai desiderata dell’accumulazione
perpetua. Se gli sbancamenti necessari all’installazione dei parchi eolici
alterano stabilmente gli habitat autoctoni, le monoculture intensive di mais
impoveriscono stabilmente i suoli. O peggio, li contaminano, con il largo uso
di composti chimici che richiedono, aggravando direttamente e indirettamente la
crisi climatica.
Così,
i territori diventano giacimenti di energia rinnovabile, ma insostenibile.
Attorno alla sua estrazione vengono completamente riorganizzati e
risignificati, come oggetti del capitale.
Veniamo
ora alla proposta teorica. La portata dei processi metabolici del capitale è
talmente profonda da suggerire l’estensione del concetto di accaparramento e
inglobamento dalla terra al territorio. Bisognerebbe parlare di accaparramento
e inglobamento di territorio o territorio grabbing and enclosure26 per rendere conto della pervasività trasformativa del
capitalismo. Se i territori sono socio-nature geograficamente determinate, la
loro ri-significazione in giacimenti di valore, ovvero di cibo, minerali,
energia, servizi per il turismo o derivati finanziari, sottende la loro
mercificazione e incorporazione all’interno di filiere estrattive e ne
rimodella le caratteristiche bio-fisiche. Le dialettiche storiche implicate non
possono che dispiegarsi secondo rapporti di forza, esercitati tramite la
coercizione fisica, la forza legale o relazioni di mercato ostili, e
legittimati da retoriche egemoniche che sfruttano l’efficienza, ovvero la
necessità determinata da emergenze di ordine economico, amministrativo,
sanitario e ambientale. Le razionalità sottese tecnicizzano la partecipazione
politica, accentrandone i processi e relegandoli alla sfera giudiziaria,
minando la capacità delle comunità territoriali di autodeterminarsi.
***
Quali
considerazioni politiche si possono trarre? Innanzitutto, che la
trasformazione del regime energetico nella direzione della giustizia climatica
e sociale è tanto necessaria quanto inscindibile dalla sovversione del sistema
di accumulazione perpetua di capitale. Un nesso chiaro a molti tra i gruppi e
collettivi che si battono per una democratizzazione della produzione
rinnovabile. Quando dicono “noi non ci opponiamo alle energie rinnovabili,
vogliamo piuttosto che vengano liberate dalla speculazione, ovvero dalla morsa
delle filiere estrattive” avanzano un punto programmatico importante per il
percorso di costruzione proprio della giustizia climatica e sociale. Sostengono
cioè che bisogna sottrarre la produzione di energia da fonti rinnovabili alle
grinfie del capitale. Riappropriarsene. Come? Decentralizzandone la produzione
e distribuzione quale bene comune, tramite meccanismi territoriali di
democrazia sostanziale. E ancora, finanziando gli investimenti necessari
attraverso il prelievo fiscale su grandi profitti e patrimoni. Quindi,
proclamando la proprietà collettiva dell’energia e plasmando un pezzo
dell’ecologia del vivente a discapito di quella del capitale.
Note
1 Harvey, D. 2018. The limits to capital. Verso.
2 Smith, N. 1984. Uneven development: Nature,
capital, and the production of space. University of Georgia Press.
3 Le tesi
anticipate in questo articolo sono discusse in maggiore profondità in Lipari S.
forthcoming 2020. Industrial-scale wind energy
in Italian southern Apennine: territorio grabbing, value extraction and
democracy. Scienze
del Territorio.
4 Barbagallo, F.
2017. La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi. Laterza.
5 Giacchè, V.
2013. ANSCHLUSS. L’annessione: L’unificazione della Germania e il futuro
dell’Europa. Imprimatur Editore.
6 Wallerstein, I.M. 2004. World-systems analysis: an
introduction. Duke
University Press.
7 Le tecnologie
produttive più rilevanti sono le turbine per la produzione eolica e i
digestori-generatori per il biogas.
8 Harvey, D. 2018. The limits to capital. Verso.
9 La grid
parity è il momento in cui il costo livellato dell’energia prodotta da
fonti rinnovabili raggiunge un livello equivalente a quello delle fonti
fossili.
10 Harvey, D. 2018. The limits to capital. Verso.
11 Giannini, M.,
Minervini, D. and Scotti, I. 2012. The
Wind-Farm Developer: A New Green Expert Connecting Métier and Profession. Energy
Issues and Social Sciences, Theories and Applications., pp.151–162.
12 Armiero, M., Gravagno, F., Pappalardo, G. and Ferrara,
A.D. 2019. The Nature of Mafia: An Environmental History of the Simeto River
Basin, Sicily. Environment
and History.
13 Palazzolo, S.
and Reale, C. 2019. Arrestato Paolo Arata consulente di Salvini per l’energia.
In cella anche Nicastri, il ‘re’ dell’eolico. La Repubblica Palermo.
14 Il biogas può
essere prodotto anche da altri substrati, come i residui di lavorazione
agricola, il letame o i rifiuti organici.
15 La Politica
Agricola Comune è la voce più importante del bilancio UE nonché una delle sue
politiche più importante. Finanzia direttamente e indirettamente il settore
agricolo e lo sviluppo rurale. È al centro di durissime contestazioni per la
poca trasparenza e la tendenza a favorire la concentrazione fondiaria e
l’accaparramento, tramite i suoi meccanismi di finanziamento.
16 Tietz, A. 2017. Überregional aktive Kapitaleigentümer
in ostdeutschen Agrarunternehmen: Entwicklungen bis 2017. Thünen
Institute.
17 Alla traduzione
recinzione comunemente usata in letteratura, si preferisce qui inglobamento.
Il significato di questa parola appare più adatto a indicare il processo di
incorporazione, annessione, sotteso dal verbo inglese en-close,
letteralmente chiudere dentro. D’altro canto, recinzione sembra troppo
connotato al perimetrare, l’apporre un recinto, perdendo la capacità di
segnalare la pervasività trasformativa dell’enclosure come atto dell’incorporare,
ovvero della trasformazione metabolica in oggetto del capitale.
18 Marx, K. 1976. Capital: a critique of political
economy, Vol. 1 (B. Fowkes & D. Fernback, eds.). Harmondsworth
London: Harmondsworth: Penguin.
19 Questa formula
è preferita per quei casi di accaparramento legittimate da retoriche basate su
imperativi di mitigazione del degrado ambientale o della crisi climatica
20 Hickey, S. and Du Toit, A. 2013. Adverse
incorporation, social exclusion, and chronic poverty In: Chronic
Poverty. Springer,
pp. 134–159. I due autori offrono una analisi del concetto di incorporazione
avversa (adverse incoporation) all’interno delle strategie di
accumulazione del capitale. Mettono in risalto come la partecipazione alle
filiere estrattive, anche formalmente in qualità di investitori e non di lavoro
salariato, non implichi necessariamente la partecipazione all’accumulazione di
capitale. Un esempio ne sono i piccoli coltivatori di commodity alimentari nel
sud globale. Benché inclusi nelle filiere, sono ingabbiati in una situazione di
povertà strutturale.
21 Tietz, A. 2017. Überregional aktive Kapitaleigentümer
in ostdeutschen Agrarunternehmen: Entwicklungen bis 2017. Thünen Institute.
22 van der Ploeg, J.D., Franco, J.C. and Borras, S.M. 2015. Land concentration and land grabbing in Europe: a
preliminary analysis. Canadian Journal of Development Studies / Revue
canadienne d’études du développement. [Online]. 36,pp.147–162.
23 Harvey, D. 2004. The new imperialism: accumulation by
dispossession. Socialist
register.
(40).
24 Magnaghi, A.
2007. Il territorio come sviluppo delle società locali. Etica ed economia. [Online]. 2, pp.51–70.
25 Breitschuh, G., Reinhold, G. and Vetter, A. 2004. Wirtschaftliche Bedeutung der energetischen Nutzung
nachwachsender Rohstoffe fur die Landwirtschaft: Der Landwirt als
Energiewirt-Potenziale fur die.
26 Nella
formulazione in lingua inglese territorio grabbing and enclosure il
termine territorio e stato volutamente lasciato nella sua forma
neolatina, afferente alle lingue italiana e spagnola. Ciò per riferirsi direttamente
al dibattito su territori e territorialità che le letterature italofone e
ispanofone sviluppano in maniera più attenta alla dimensione contestata di tali
concetti geografici, in cui si enfatizzano i ruoli e i conflitti tra i diversi
soggetti che ne determinano i rapporti di forza e le relazioni
socio-ecologiche, laddove la letteratura anglofona si concentra sul territorio
principalmente come elemento delle statualità. Per una sintesi coerente si veda
Halvorsen, S., Fernandes, B.M. and Torres, F.V. 2019. Mobilizing Territory: Socioterritorial Movements in Comparative
Perspective. Annals of the American Association of Geographers.
[Online].
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