Un’ondata di caldo sicuramente “anomalo” ha colpito per molti giorni del
mese di maggio l’Europa sudorientale e il Medio Oriente, con temperature
superiori ai 40 gradi a Creta, Cipro, coste della Turchia, mentre nell’area tra
Israele e la Giordania si sono registrati anche 47 gradi centigradi.
Nello stesso periodo, a scala internazionale, la città più calda è stata
Nawabshah, in Pakistan, dove il 19 maggio il termometro ha fatto registrare i
46 gradi, mentre il 26 dello stesso mese a New Delhi, India, la
temperatura era di 47,6 gradi mentre nel Rajastan sono stati raggiunti i 50
gradi. Intanto in Canada , a Montreal, con 36,6 gradi, si raggiungeva un record
storico per il mese di maggio.
Nell’Antartide, nella stagione invernale, la base di ricerca Concordia
annunciava la temperatura più bassa di -73,6 gradi centigradi. L’estate calda è
quindi iniziata e nei mesi successivi ne vedremo gli effetti sul riscaldamento
globale.
E’ stato anche evidenziato un altro fenomeno importante, in parte connesso
alle temperature. Sopra l’Artico si è chiuso il buco nello strato di ozono
atmosferico che protegge la Terra dai raggi solari eccessivi e che dal 2011 si
era formato a causa dei CFC (clorofluorocarbonio) di produzione
industriale.
Questo fenomeno, ben conosciuto e ampiamente denunciato, aveva portato nel
1987 al Protocollo di Montreal per la sostituzione di tali sostanze con gli Hcfc,
ritenuti all’epoca meno dannosi. In realtà, a scala internazionale, solo una
parte modesta, intorno al 10%, dei “buchi” si è effettivamente ridotta,
mentre le nuove sostanze utilizzate sono state più di recente considerate
anch’esse dannose.
In realtà sembra che la ricostituzione dello strato di ozono sull’Artico
sia il prodotto di un “vortice polare” in questi mesi
particolarmente compatto e prolungato e dall’aumento delle temperature globali.
Infine, è opportuno segnalare che sono iniziate ad apparire i primi dati
relativi agli effetti “positivi” sulla crisi climatica della pandemia in corso,
cioè la drastica riduzione delle vittime di incidenti stradali e degli
inquinamenti dell’aria.
I calcoli finora effettuati evidenziano che le riduzione del traffico di
auto e di aerei decise per bloccare la diffusione dei contagi, abbia
determinato la forte diminuzione di diossido di azoto (NO2) e di particolato
PM10 , evitando circa 11mila morti premature.
Ovviamente ciò non significa che dobbiamo auspicare l’aumento delle
epidemie per risolvere i problemi ambientali, ma evidenzia per l’ennesima volta
la gravità dei danni da inquinamento che affliggono la popolazione mondiale.
Gli eventi estremi sono sempre più “normali”
In primo luogo, i cicloni, in tutto il mondo a velocità e frequenza crescenti.
Nel Bengala, il ciclone Amphan percorre il territorio a 190 chilometri orari, e
si parla di tre milioni di persone costrette a spostarsi per cercare riparo.
Nelle Filippine il tifone Vongfong fa registrare diecine di migliaia di persone
sfollate. Nel Salvador sono 15 i morti causati dalla tempesta tropicale Amanda,
e /000 le persone costrette a spostarsi dalle loro abitazioni.
Anche gli incendi si moltiplicano in California, dove dal primo gennaio al
10 maggio ne sono stati registrati 675, cioè il 60% in più dello stesso periodo
del 2019.
In indonesia gli incendi hanno distrutto nel 2019 1,6 milioni di ettari di
vegetazione; in questo paese hanno deciso di sperimentare la tecnica della
inseminazione delle nuvole con particolari prodotti che stimolano le
precipitazioni di piogge nei periodi più opportuni per difendere foreste e
raccolti.
Le invasioni di locuste continuano a fare notizia. In questi mesi gli
sciami si sono moltiplicati in India, nella parte occidentale per e
centrale, sembra alimentati da esemplari locali (quindi non ci sono
collegamenti con le invasioni dei paesi africani, che pure erano arrivate fino
al Pakistan). E’ il peggior evento degli ultimi venticinque anni, e ciascuno
dei quattro sciami principali conta da 40 a 80 milioni di esemplari adulti per
chilometro quadrato. Anche in questo caso in 24 ore mangiano quanto
35.000 esseri umani e finora hanno coperto 50.000 ettari di territori
coltivati.
Infine, ricordiamo un fenomeno analogo ma con caratteristiche diverse che
sta colpendo gli Stati Uniti dell’Est: milioni di cicale, che per periodi
di circa 17 anni vivono sottoterra in forma di ninfe, hanno assunto la forma
adulta e stanno emergendo in almeno tre Stati, con grandi preoccupazioni degli
agricoltori che temono per i loro raccolti.
Per concludere questa parte , è opportuno ricordare il disastro che ha
colpito la Siberia a circa trecento chilometri all’interno del Circolo Polare
Artico, a Norilsk, il 27 maggio.
I depositi di carburanti che alimentavano un impianto elettrico al servizio
delle miniere di nickel russe, hanno riversato il loro contenuto in un ampio
territorio e in alcuni fiumi, in particolare l’Ambarsaya e il Piasyna che
sboccano sul mar di Kara.
La causa sembra sia strettamente collegata al riscaldamento globale, in
quanto le basi delle cisterne poggiavano sul ghiaccio e soprattutto sul
permafrost sottostante, questi si sono sciolti nei mesi estivi, i sostegni si sono
rovesciati e oltre 20.000 tonnellate di petrolio e di altri carburanti hanno
dilagato. La notizia è stata riportata da molti giornali, che sottolineavano in
particolare le difficoltà del governo russo ad intervenire in ambienti così
difficili e lontani.
Poiché un incidente analogo si è verificato anche nel 1994, con uno
sversamento di ben 94.000 tonnellate, forse sarebbe opportuno sottolineare il
fatto che le grandi risorse minerarie finora nascoste dai ghiacci, alle quali
molte imprese e molti Stati aspirano, (uno dei motivi che ritardano la presa di
coscienza da parte dei decisori politici, della reale urgenza della crisi
ambientale), non sono poi così a portata di mano, e possono invece
addirittura creare ulteriori danni all’ambiente.
Gli effetti diffusi degli squilibri planetari
Si moltiplicano le zone fortemente danneggiati dai meccanismi di danno
ambientale, ne ricordiamo solo alcune. Le zone che circondano il lago Turkana
(7500 chilometri quadrati, il quarto lago salato del mondo) , nel nord
ovest del Kenya, a partire dagli ultimi anni ’60, la temperatura media è
aumentata di circa tre gradi centigradi.
Si sono quindi allungati i periodi di siccità, mentre è fortemente
diminuita la portata del fiume Omo, anche a causa delle grandi dighe in
costruzione in Etiopia, dove ha origine, e il lago si è molto ridotto in
ampiezza.
Ne hanno molto risentito le popolazioni rivierasche, in particolare i
pescatori, e le migrazioni verso la capitale Nairobi sono aumentate del 74%. La
popolazione del paese è per il 90% al di sotto della soglia di povertà e
per l’80% non ha mai frequentato una scuola. Inoltre, sempre nella contea dei
turkana, sono stati scoperti importanti giacimenti di petrolio (si calcola che
il bacino centrale contenga oltre seicento milioni di barili); l’inglese Tullow
Oil, in collaborazione con la Africa Oil hanno già ottenuto i primi permessi di
prospezioni, ma le attività petrolifere non sono certo leggere per l’ambiente e
i livelli occupazionali non sono sicuramente in grado di contribuire
positivamente alla soluzione dei problemi sociali del paese.
Una seconda area gravemente inquinata è quella di Witbank (di recente
ribattezzata Emalaheleni), a nord est di Johannesburg, Sudafrica, centro di
estrazione ed esportazione di carbone, 22 miniere e 450mila persone che
combattono contro la polvere nera, che si posa sui campi e che si accumula nei
polmoni, causando gravi malattie. Le aziende minerarie e gli impianti per
l’elettricità assorbono gran parte delle risorse idriche, e quindi la
popolazione incontra molte difficoltà ad approvvigionarsi, anche perché le
falde sono spesso inquinate dai residui del carbone. La società Eskom,
una utility elettrica che si alimenta con la produzione di una vicina miniera di
litantrace, usa anche l’acqua per raffreddare le turbine che producono
elettricità da vendere al Mozambico e allo Eswatini (ex Swaziland), mentre la
popolazione della zona è costretta a bere un acqua conservata in cisterne e che
spesso viene razionata.
Una terza area a forte inquinamento è costituita dal territorio circostante
il Lago Vittoria, secondo al mondo per ampiezza e primo dell’Africa e che
alimenta il Nilo Bianco. Intorno ai suoi 68.mila chilometri di estensione
vivono 40 milioni di persone abitanti di tre paesi, Tanzania, Uganda e
Kenya. Molti sono i fattori negativi che stanno incidendo sulla vita del
grande lago, in primo luogo il riscaldamento globale che riduce la presenza di
pesci, abbassa il livello delle acque e rallenta i venti.
Il settore della pesca occupa ottocentomila persone e ne sfama quasi due
milioni, ma l’insabbiamento del lago causato dai fiumi crea dei canali che
drenano prodotti agrochimici che avvelenano le acque ma alimentano la
crescita di piante come il giacinto d’acqua , pianta che è tossica per
l’ossigenazione, favorisce la diffusione della malaria e ostruisce il passaggio
delle barche. In sostanza l’intero ecosistema è in crisi ed esercita una azione
negativa su tutte le attività economiche della zona e una meraviglia della
natura si sta velocemente trasformando in una fonte di danni ambientali
crescenti.
Segnali di fumo dal sistema dominante
Il gravissimo ritardo che caratterizza le attuali politiche di quasi tutti
i governi rispetto agli interventi ormai urgenti per ristabilire gli equilibri
del pianeta e ridurre drasticamente i meccanismi di danno ambientale è ormai un
dato acquisito.
Le denunce sempre più angosciate (e talvolta ormai rassegnate
all’inevitabile) si susseguono e perfino l’Onu con il rinvio della CAP 26
sembra non essere in condizione di avviare soluzioni diverse. Quanto segue non
si discosta da queste posizioni realistiche e da queste analisi sempre più
drammatiche. Tuttavia non si possono trascurare alcuni barlumi che emergono qua
e la nel mondo, non fosse altro che per valutarli nella loro reale portata e
senza coltivare al momento alcuna illusione.
In primo luogo, alcuni dati in se positivi, ma dovuti soltanto al
diffondersi della pandemia da virus, relativi ai consumi energetici. Si prevede
infatti che la domanda mondiale di energia si ridurrà del 6% e le emissioni di
anidride carbonica dell’8%.
Naturalmente andamenti di questo genere possono scomparire in pochi mesi
con la ripresa delle attività economiche , e comunque sono ben lontani da
quanto previsto dagli Accordi di Parigi, cioè per contenere il riscaldamento
globale ad di sotto di 1,5 gradi centigradi. Le energie rinnovabili dovrebbero
far registrare un modesto aumento, dell’ordine del 5%, e potrebbero arrivare la
30% dei consumi di energia (40% se si comprende quella di origine nucleare, e
si trascura l’inquinamento da scorie). Un secondo aspetto di qualche interessa
riguarda l’Unione Europea, che in due recenti documenti sembra
voler mettere alcune basi di una politica volta a proteggere l’ambiente.
Il primo, “Strategia per la biodiversità”, delinea interventi per la
protezione e il recupero di aree naturali, il secondo, “Dal campo alla tavola”,
costituisce uno dei pilastri del Green Deal, il patto verde della Presidente
von der Leyen. Nel primo testo sono contenute delle indicazioni di massima
(senza scadenze e valutazioni economiche) che si possono così sintetizzare:
§
Piantare tre miliardi di alberi
§
Riportare 25.000 chilometri di fiumi allo stato naturale
§
Creare aree protette che coprano il 30% di territorio e il 30% dei
mari
§
Riservare il 10% delle aree protette alla protezione integrale, dove non
siano consentite attività umane
§
Riservare il 10% delle aree agricole ad elementi naturali del paesaggio
(siepi, terrazzamenti, filari, terreni a riposo o a rotazione)
§
Arrivare a coltivare almeno il 25% dei terreni a produzioni biologiche
(triplicando la situazione attuale dell’Europa che è pari all’8%)
§
Dimezzare la dispersione nell’ambiente di azoto e fosforo dei concimi
chimici,
§
Ridurre del 20% l’uso dei fertilizzanti chimici
§
Riduzione del 50% dei pesticidi
Queste indicazioni chiariscono che l’Unione Europea è ancora molto lontana
da un modello di coltivazione agricola non più dipendente dai prodotti chimici
dannosi, ma alcuni dati, come quelli relativi alla riforestazione, potrebbero
permettere fin da ora al nostro paese e alle regioni di delineare dei piani
territoriali più concreti, esercitando anche una pressione per
ottenere politiche più realistiche da parte dell’Unione Europea.
Anche il secondo documento, relativo alle politiche agroalimentari presenta
alcuni elementi di novità rispetto alle posizioni tradizionali della UE, come
ad esempio l’attenzione dedicata al valore del cibo, l’impegno ad accorciare le
filiere di produzione e il trasporto delle derrate, misure per la registrazione
dei semi e per facilitare l’accesso ai mercati delle varietà tradizionali, il
dimezzamento dell’uso degli antibiotici negli allevamenti. Tuttavia non si fa
alcun accenno alle gravi condizioni degli allevamenti intensivi, alla eccessiva
presenza di lavoro migrante nelle attività ortofrutticole, e tanto meno alla
necessità di ridurre i consumi di prodotti di origine animale.
Anche in questo caso gli elementi di novità sono di ridotta importanza,
mentre vengono ignorate tutte le deficienze strutturali del settore e quindi
c’è ancora molto cammino da fare per affrontare realmente i meccanismi più
dannosi legati alla alimentazione.
Un terzo elemento vale la pena di essere ricordato, cioè l’emergere di
alcuni “manifesti” sottoscritti anche da imprese, che sottolineano l’importanza
della cosiddetta “green economy” o lasciano intravedere la possibilità di una
economia meno dominata dal profitto.
Almeno finora, è evidente che si tratta in genere di tentativi di
individuare nuovi settori “rispettosi per l’ambiente” ma che aprano
ulteriori campi in cui realizzare comunque dei profitti.
In alcuni casi si tratta ancora di tentativi solo pubblicitari di coprire
di verde prodotti sempre realizzati con metodi industriali e senza alcuna
attenzione alla qualità dei cibi.
La sola indicazione utile che se ne può trarre è che le imprese
capitalistiche cominciano a preoccuparsi perchè una parte evidentemente
crescente dei consumatori si pone degli interrogativi sulla qualità degli
alimenti e sui rapporti tra alimentazione e salute.
Infine un quarto commento riguarda l’uso del carbone nelle produzioni
industriali. Questa materia prima è ancora in uso anche in paesi più avanzati,
che sono sulla carta disposti a eliminare gli impianti ormai obsoleti, ma
presentano piani di chiusura proiettati in avanti di molti anni (la Germania ha
iniziato a indicare scadenze precise per le chiusure, ma poi prevede il
completamente nel 2038 o, forse, nel 2034) e quindi non tengono conto delle
urgenze indicate in sede ONU. Altri paesi, come la Cina, sanno di dover
affrontare un problema di grandi dimensioni, e quindi evitano di prendere
impegni precisi nelle sedi internazionali, mentre paesi come la Polonia evitano
proprio di affrontare il problema.
In Italia, l’Enel dichiara di voler chiudere sei impianti, ma intanto il
primo che sembra abbia cessato l’attività è ubicato in Cile, mentre per
quattro degli impianti italiano sta tentando di trasformarli in impianti
alimentati a gas, ma chiede aiuti pubblici per la riconversione, senza tener
conto del fatto che il gas è quasi altrettanto inquinante.
Le indicazioni di un qualche interesse provengono da alcuni istituti di
assicurazione e da qualche banca, che segnalano di voler evitare , a scadenza
ravvicinata, il finanziamento di impianti a carbone. Al momento, quindi, non
siamo assolutamente in presenza di una strategia di cancellazione di impianti
tecnologicamente superati, ed emergono tutte le difficoltà e le incertezze di
processi totalmente volontari e della mancanza di norme vincolanti e di piani
organici di eliminazione di una delle materie prime che più incidono sul
riscaldamento globale.
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