Intervista di
Sabrine Hamed
A margine di una
conferenza on-line organizzata dall’Osservatorio Tunisino per l’Acqua (OTE) sul
tema: “Quali strategie e approcci per promuovere un’agricoltura resiliente e
sostenibile e una sovranità alimentare nel contesto post Covid-19?”, La
Presse ha contattato il professor Habib Ayeb, geografo,
professore emerito all’Università di Parigi VIII a Saint Denis. I suoi lavori,
le sue ricerche e pubblicazioni si basano essenzialmente sulle questioni
rurali, agrarie, contadine, alimentari ed ecologiche, con la dimensione sociale
come filo conduttore di riflessione e analisi che permette di comparare
situazioni diverse e variegate.
Ayeb è membro
fondatore dell’Osservatorio sulla Sovranità Alimentare e l’Ambiente (OSAE).
OSAE è un’organizzazione associativa senza scopo di lucro che rivendica
un’indipendenza totale da tutti i movimenti politici. La sua missione è
produrre conoscenze attraverso progetti di ricerca accademici sulle questioni
relative alla sovranità alimentare, l’ambiente, il clima, la giustizia sociale
ed ecologica. In tal modo essa contribuisce a sviluppare delle solide istanze
in favore delle realtà contadine, del diritto d’accesso alle risorse, della
sovranità alimentare, delle sementi e delle varietà locali che si declinano a
tutte le scale, dall’individuale al collettivo, dal locale al globale, senza
dimenticare la grande tematica del cambiamento climatico e delle sue
conseguenze.
Professor Ayeb, esiste
una relazione tra i cambiamenti climatici e la pandemia di Covid-19?
Il cambiamento climatico
non cade dal cielo. È un prodotto diretto delle nostre politiche economiche neo
liberiste in generale, e in gran parte delle politiche agricole basate su un
modello capitalista, intensivo, produttivista, orientato all’esportazione e che
consuma grandi quantità di energia, di fertilizzanti chimici, di pesticidi, di
antibiotici, di risorse naturali, dall’acqua alla terra. Noi sappiamo che il
settore agricolo contribuisce a oltre il 22% dell’emissione globale di CO2,
responsabile del riscaldamento climatico. Certo, il contributo della Tunisia al
cambiamento climatico resta incomparabile con quello dei paesi
industrializzati, ma la deregolamentazione climatica si produce a una scala
globale e non prende in considerazione la parte di responsabilità di questo o
quel paese. E lo stesso vale per altri fenomeni di distruzione della natura e
della vita che colpiscono indistintamente tutte le regioni del mondo.
Alla stessa maniera,
il Covid – 19, che è stato individuato per la prima volta in Cina nel dicembre
2019, ha coinvolto tutte le regioni del mondo in tempo record, giusto qualche
settimana, con più di 8 milioni di contagi e oltre 300.000 morti (oltre 11 milioni
e più di 500 mila morti al 5 luglio 20202, ndr). Mai, nella storia
conosciuta, una pandemia ha colpito tanto rapidamente la totalità del pianeta.
Molti biologi, tra cui Rob Wallace e altri, dimostrano che la deforestazione
intensiva, di cui necessita l’allevamento intensivo, l’estensione delle
monocolture industriali (ad esempio il mais che serve a produrre l’etanolo, il
“petrolio verde”, o l’olio di palma ecc…) e lo sviluppo dell’industria del
legno, hanno raggiunto zone quasi totalmente inaccessibili nel cuore delle
grandi foreste. Queste pratiche produttiviste hanno così liberato molti germi
sconosciuti, tra cui virus, e facilitato il loro spostamento attraverso il
globo approfittando della mobilità umana e animale permessa dai vari mezzi di
trasporto, sempre più rapidi e frequenti.
Per riassumere, è un
processo complesso, indotto dal sistema economico capitalista e in particolare
dall’agricoltura capitalista, che si traduce particolarmente nel riscaldamento
accelerato del clima, nella distruzione massiva della biodiversità animale e
vegetale, e nella comparsa di nuovi virus, per nascita, per mutazione e per
sconfinamento forzato dalle proprie zone naturali originarie.
Quindi, la pandemia
del Covid-19 lascia vedere chiaramente i rapporti stretti tra i modelli
agricoli intensivi, la deforestazione, la distruzione dell’ambiente e della
biodiversità, i cambiamenti climatici e la comparsa dei virus. C’è una
concatenazione di cause ed effetti che si riprodurrà automaticamente finché
l’agricoltura resterà produttivista e capitalista. La scomparsa massiva delle
api, essenzialmente causata dall’uso di pesticidi, apre la strada
all’apparizione di virus nuovi fino ad ora sconosciuti, perché naturalmente
confinati dentro foreste isolate ed inaccessibili, ma oggi liberati a causa
della deforestazione. La scelta è dunque tra due sole alternative possibili: la
prima è di continuare a intraprendere e rinforzare le politiche agricole
intensive e dunque a esporre l’intera umanità, a cominciare dai più fragili,
vulnerabili e indigenti, a rischi estremamente gravi, per la sanità individuale
e collettiva e allo stesso tempo per le libertà individuali e collettive. La
seconda è cambiare radicalmente le politiche agricole e alimentari nel
ri-orientamento verso un equilibrio indispensabile tra il nutrire gli umani,
proteggere la biodiversità e il clima e rispettare i diritti delle generazioni
future a un ambiente sano e vivibile. Un’agricoltura che esce dalla logica del
profitto e dell’insicurezza alimentare per una alimentazione rispettosa della
salute, della vita e della giustizia. Un’agricoltura contadina e frugale al
cuore delle politiche e delle strategie, purificata e liberata dagli
investimenti speculativi e da tutte le attività estrattive.
Quali sono i problemi
riscontrati dai contadini e dalle contadine a reddito limitato?
I contadini e le
contadine senza terra hanno particolarmente sofferto degli effetti della
pandemia e del lock-down. Prima di tutto, bisogna ricordare che la maggior
parte (circa il 70%) dei redditi dei contadini deriva dall’esterno delle loro
aziende, a causa del loro accesso limitato alle risorse naturali, come l’acqua
e la terra, ma anche alle risorse materiali, come il credito e le
assicurazioni, che non permettono di garantire un reddito in grado di coprire
l’insieme dei bisogno di base delle famiglie. La femminizzazione massiva del
lavoro agricolo dentro e fuori dalle aziende è una conseguenza della
competizione per le risorse tra l’agricoltura contadina e l’agro-business.
Questa è soprattutto la prova dell’impoverimento generalizzato dei contadini.
In situazione di pandemia e lockdown, molte centinaia di famiglie
si sono trovate senza reddito e senza risorse, e fortemente esposte a rischi di
sotto-nutrizione e/o di malnutrizione. Le loro sole alternative sono state: o
trasgredire gli ordini di confinamento e rischiare di esporsi a sanzioni più o
meno salate; oppure, rispettare gli ordini di confinamento ed esporsi
all’insicurezza alimentare. Altre frange indigenti della società si sono
trovate in situazioni analoghe. Le semi-rivolte per la farina o la semola in
pieno lockdown non sono state altro che l’emblema
dell’impossibilità di scegliere tra il rischio di prendere il virus e quello di
soffrire la fame. Una situazione drammatica che molti abitanti delle città, più
o meno ricchi, non riuscivano a cogliere. Inoltre, durante il lockdown molti
contadini non hanno potuto fare i loro raccolti e soprattutto molti altri non
hanno potuto acquistare le sementi o le piante che avevano l’abitudine di
seminare o piantare tra marzo, aprile e maggio. In particolare è il caso di
pomodori, cocomeri e altre cucurbitacee. Questo vuol dire che gli effetti
economici indiretti della pandemia si prolungheranno fino alla fine dell’estate
e certamente oltre. Quindi, se per qualcuno la riapertura significa
semplicemente la fine del confinamento “fisico”, per altri la riapertura non è
che una tappa della crisi che sono e saranno obbligati ad affrontare a tasche e
mani vuote. E non voglio nemmeno parlare della situazione di disuguaglianza
nella quale i contadini si trovano di fronte alla malattia, dal momento che la
campagna tunisina corrisponde a un vero e proprio “deserto sanitario”, dove è
estremamente difficile trovare una struttura medica a distanza accettabile e in
misura da prendere in carico rapidamente malati in situazione d’urgenza.
Quali sono i rapporti
tra i modelli agricoli intensivi e i regimi alimentari dominanti?
Le politiche agricole
attuali sono, a parte qualche dettaglio, identiche a quelle introdotte dal
potere coloniale sin dall’inizio dell’occupazione. Basate sul principio dei
“vantaggi comparativi”, che si sviluppa al principio del XIX secolo, queste
politiche agricole integrano due assi fondamentali: A) l’esportazione di
prodotti che le condizioni climatiche e geografiche (come l’abbondanza di sole,
le scarse risorse idriche, ecc) ma anche salariali (bassi salari, diritti del
lavoro, sicurezza sociale ecc…) consentono di ottenere in quantità sufficienti
e a basso costo; B) l’importazione di prodotti, come i cereali, che altri paesi
producono in quantità più importanti.
In sostanza, noi
esportiamo i dessert e gli antipasti, con l’olio d’oliva, e importiamo i piatti
principali. Nonostante noi siamo in grado facilmente produrre abbastanza grano
per coprire tutte le nostre esigenze se adottiamo politiche agricole orientate
al mercato nazionale e locale, di fatto importiamo metà delle nostre esigenze
di grano.
Non c’è alcun dubbio
sul fatto che la Tunisia non conosce problemi di sicurezza alimentare nel senso
di penuria prolungata di prodotti alimentari. Questo grazie alla sua posizione
strategica sulla sponda Sud del Mediterraneo, che le permette di essere
costantemente sotto la “sorveglianza” ravvicinata di molti altri paesi come la
Francia e gli altri paesi europei, che sanno che eventuali problemi politici
provocati da una situazione di insicurezza alimentare grave in Tunisia si
potrebbero ripercuotere sui paesi del Nord sotto forma di ondate migratorie e
violenze politiche che non mancherebbero di verificarsi in un modo o nell’altro.
Ma si tratta di una questione di sicurezza alimentare a breve termine che non
ci protegge in alcun modo dagli sconvolgimenti del mercato alimentare mondiale
né dalle conseguenze di una possibile crisi geopolitica, sanitaria o militare,
regionale o globale. D’altra parte, ricordiamo anche che gli embarghi decisi
dalle potenze mondiali contro i loro alleati Saddam Houssein in Iraq e Gheddafi
nella vicina Libia, mostrano chiaramente che i nostri amici “protettori” di
oggi potrebbero trasformarsi in nemici feroci capaci di imporci sanzioni
inumane se, per una ragione o per un’altra, lo stato tunisino operasse nuove
scelte politiche che non convenissero più a loro. Infine, non soltanto le
politiche agricole intensive, dette “di sicurezza alimentare” e orientate verso
l’export, non sono in grado di garantire una sicurezza alimentare duratura e
indipendente dai movimenti del mercato alimentare mondiale e dalle crisi
geopolitiche regionali o globali. Esse partecipano anche fortemente al degrado
dell’ambiente, delle risorse naturali e della biodiversità, e al processo di
impoverimento generalizzato della società contadina. A livello politico, un
paese agricolo che importa l’essenziale per la sua alimentazione è un paese
politicamente dipendente e totalmente privato di una qualsivoglia sovranità
politica o economica. È un paese che non può scegliere né i propri partner, né
i propri modelli di alimentazione, e ancora meno può decidere la propria
politica agricola e, più in generale, la propria economia. È un paese privato
della dignità. La Tunisia è in questa situazione ed è più che urgente cambiare
radicalmente le politiche agricole per avere più libertà, sicurezza,
indipendenza, sovranità e dignità. Il covid-19 ci dovrà indurre a prendere
questa direzione.
Come possiamo cambiare
radicalmente la politica agricola e alimentare per proteggere la biodiversità e
il clima?
La funzione e il posto
dell’agricoltura nella società e nell’economia devono essere completamente
ridefiniti. Per questo, non possiamo evitare un ampio dibattito attorno a questa
domanda centrale: “A cosa deve servire l’agricoltura?”. Oggi l’agricoltura
tunisina viene utilizzata sempre meno per nutrire la popolazione e sempre di
più per accumulare i profitti di una piccola minoranza di investitori e
soprattutto per soddisfare le esigenze essenziali o “esotiche” dei consumatori
ricchi dei paesi del Nord. Io ricordo sempre lo scandalo assoluto rappresentato
dal fatto che la Tunisia è allo stesso tempo uno dei più grandi produttori ed
esportatori di olio d’oliva e uno dei primissimi importatori di oli vegetali.
Uno scandalo che si eleva all’altezza di un crimine sanitario, ecologico e
sociale. Questo non può durare a lungo perché i costi sociali, ecologici ed
economici di questa agricoltura “per gli altri” sono sempre più elevati. Noi
dobbiamo radicalmente cambiare il paradigma e passare a una politica agricola,
sociale, ecologica equa e sostenibile, con la società agricola al cuore del
sistema e la sovranità alimentare come esigenza immediata, con obiettivo a
breve e medio termine. Dobbiamo categoricamente passare dai vantaggi
comparativi ai bisogni imperativi, dalla sicurezza alla sovranità alimentare,
dall’importazione alla produzione locale. Per questo, io propongo 5
riforme urgenti da adottare, come prima tappa di un progetto politico globale
di sovranità alimentare con le sue dimensioni agricole, sociali, ambientali e
climatiche:
1. Una riforma
agraria radicale che fissi la dimensione minima a 5 ettari indivisibili (tranne
all’interno delle vecchie oasi) e la dimensione massima a 100 ettari, con
“stadi” intermedi inversamente proporzionali alla piovosità media: maggiore è
la piovosità, minore è la superficie massima.
2. Una
ridistribuzione dei terreni di proprietà statale in piccole aree comprese tra
cinque e dieci ettari indivisibili (e non “rivendibili” per un periodo
di 30 anni o più ai possibili eredi degli ex proprietari) in favore dei
contadini senza terra o di quelli con meno di cinque ettari e dei giovani senza
lavoro stabile a partire dai figli dei contadini.
3. L’istituzione
di un sistema Bonus / Malus ecologico per l’assegnazione di sussidi, crediti e
altri aiuti finanziari da parte dello Stato (ad esempio, meno
pesticidi e antibiotici e più semi e varietà locali).
4. La
sovrattassa o il divieto di esportazione di prodotti agricoli ottenuti
attraverso l’irrigazione e sussidi di riserva e aiuti pubblici per la
produzione di alimenti agricoli destinati al mercato locale.
5. L’uscita
del settore agricolo da tutte le convenzioni internazionali, tra cui ALECA, gli
accordi bilaterali e quelli del WTO, in un approccio proattivo alla rottura con
il sistema alimentare mondiale e il mercato alimentare globale.
Al netto della (non)
volontà politica, il Paese ha tutto ciò di cui abbiamo bisogno per attuare
questa riforma vitale nelle migliori condizioni possibili. Allora perché
aspettare che una nuova pandemia di grandezza maggiore di quella covid-19 o una
grande crisi economica globale per muoverci?
Come rispettare i
diritti delle generazioni future a un ambiente sano e vivibile?
È un cambiamento
radicale della mentalità dei produttori, dei decisori e dei consumatori che si
dovrà affermare per tentare di proteggere i diritti delle generazioni future.
Abbiamo questa pretesa criminale di pensare che possiamo vivere contro la
natura che avrebbe vocazione a sottomettersi alla nostra “intelligenza” e alle
nostre illimitate fantasie di dominio. Ci comportiamo come se fossimo
totalmente invulnerabili e dotati di forza soprannaturale. Sfruttiamo
eccessivamente le risorse naturali, distruggiamo la biodiversità e l’ambiente,
causiamo il riscaldamento globale, consumiamo fino all’obesità fisica e
mentale, accumuliamo fortune inimmaginabili e disprezziamo i più deboli e i più
fragili tra noi, senza pensare che un semplice terremoto può distruggere un
intero paese in meno di una frazione di secondo … Il nostro egoismo individuale
e collettivo dà più diritti al capitale che alle generazioni future.
Alimentiamo volontariamente il capitalismo piuttosto che le centinaia di
milioni di persone che soffrono di povertà, marginalità, denutrizione, malattie
e stigmatizzazione… Ci è voluto un virus che ha attraversato il pianeta come
una tempesta di pandemia, toccato milioni di soggetti e portato via alcune
centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo per ricordarci dell’enormità
delle nostre debolezze e dell’insignificanza delle nostre pretese e fantasie di
superpotenza. Questa drammatica pandemia risveglierà abbastanza consapevolezza
da far emergere una nuova, più modesta e realistica percezione e soprattutto
più consapevole delle nostre debolezze collettive e della nostra “piccolezza”
di fronte alla grandezza della natura? Lo spero con l’ottimismo della passione
e dell’impegno e il pessimismo della ragione. In ogni caso, mi sembra che
l’unico modo per proteggere i diritti essenziali delle generazioni future sia
quello di porre fine al sistema capitalista che si nutre della miseria di
uomini e donne e della distruzione di esseri viventi e natura. L’intangibilità
dell’agricoltura e del cibo contro ogni forma di monopolizzazione,
accumulazione, dominazione e distruzione massiccia della biodiversità e della
vita è un primo passo essenziale e vitale per costruire un nuovo mondo più
rispettoso dei diritti delle generazioni presenti e future. Alla scala del nostro
paese, le alternative disponibili oggi per proteggere le generazioni future
sono molto limitate. Abbiamo la scelta tra: continuare le attuali politiche che
rafforzano la nostra dipendenza dall’esterno, impoverire i nostri contadini,
distruggere le nostre risorse naturali e il nostro ambiente, partecipare al
riscaldamento globale e ignorare i diritti dei nostri figli e nipoti; o
adottarne una nuova più equa, più ecologica, più rispettosa della vita e più
sovrana, quindi più libera. Questo è l’unico modo per proteggere il paese e il
mondo dalla dipendenza, dalle pandemie e dalla distruzione dell’ambiente e
della biodiversità.
L’agricoltura
contadina e di sussistenza è in grado di nutrire la totalità del pianeta?
Quasi tutte le
principali istituzioni internazionali, compresa la FAO, sostengono che
l’agricoltura contadina alimenta già l’80% della popolazione, mentre le grandi
aziende agroalimentari contribuiscono solo per il 20% all’approvvigionamento
alimentare del mondo. Tuttavia, sappiamo che oltre la metà dei terreni agricoli
è in mano a meno del 10% di tutti i produttori agricoli, mentre i produttori
con meno di 10 ettari utilizzano solo circa un terzo dei terreni agricoli
disponibili. È l’espressione più eloquente dell’ingiustizia fondiaria e
alimentare. Dovremmo aspettare una crisi alimentare ancora più dura di quella
del 2007-2008 o di una carestia, prima di degnarci di pensare a un cambiamento
di paradigmi? Dovremmo vivere l’esperienza di un embargo ermetico e totale,
come nel caso dell’Iraq di Saddam, per decidere finalmente di produrre tutti i
nostri bisogni alimentari a livello locale? La Tunisia ha circa mezzo milione
di famiglie contadine, che hanno un know-how straordinario e
un livello ineguagliato di conoscenze accumulate di generazione in generazione,
di cui non esiste un equivalente nelle scuole più prestigiose. Eppure le sue
famiglie sono sempre più escluse e private delle loro risorse naturali e delle
loro prime fonti di reddito dall’agroindustria che oppone loro una concorrenza
ineguale rispetto alle risorse naturali e ai vari aiuti di stato diretti e
indiretti. Se li reinstallassimo nel cuore della politica agricola con un
accesso sufficiente e sicuro alle risorse naturali e materiali necessarie,
sarebbero in grado di nutrire l’intera popolazione tunisina in condizioni
eccellenti e per molti anni a venire. Per fare questo, dobbiamo iniziare
ammettendo una cosa semplice: contrariamente a quanto affermano molti esperti e
decisori, i contadini non sono vincoli e ostacoli allo sviluppo, ma un’opportunità
straordinaria e un favoloso “potenziale” per, allo stesso tempo, costruire una
vera politica di sovranità alimentare, sviluppare un’agricoltura destinata a
nutrire gli esseri umani, proteggere la biodiversità e le risorse naturali e
garantire l’accesso al cibo per tutti, oggi e domani. Non c’è e non può esserci
sovranità alimentare e protezione della vita senza i contadini. Prendiamo
l’esempio delle sementi locali che stanno scomparendo sempre più rapidamente a
favore della nuova industria delle sementi che si suppone essere più redditizia
e più in grado di garantire la sicurezza alimentare per la popolazione. In
Tunisia c’erano oltre cinquanta diverse varietà di grano che tracciavano una
mappa ecologica dei cereali … Oggi nel paese vengono coltivate meno di una
dozzina di varietà diverse, principalmente varietà industriali, dette
“migliorate”. Che cosa è successo negli ultimi sei o sette decenni? Una vera
espropriazione dei contadini, che producevano i propri semi dalle loro colture,
e che si sono trovati dipendenti dai mercati delle sementi industriali che
richiedono un rinnovamento molto frequente e l’uso di grandi dosi di
fertilizzanti e pesticidi … Nel fare questo, i contadini sono passati da uno
stato di indipendenza cerealicola alla dipendenza quasi totale. Dunque, i
contadini tunisini sono in grado di garantire la sovranità alimentare da soli,
a condizione che si trovi una sorta di contratto politico che li riconosca come
garanti della sovranità alimentare, della protezione delle risorse naturali,
della biodiversità e delle piante e degli animali e contro i cambiamenti
climatici, in cambio di uno status sociale ed economico che li protegga da
catastrofi naturali e crisi economiche.
Habib Ayeb è stato
intervistato da una giornalista del quotidiano tunisino francofono”La Presse”
con la promessa che l’intervista sarebbe stata pubblicata senza alcun taglio.
La promessa non è stata mantenuta, il testo è stato tagliato circa del 35% e
pubblicato sul quotidiano La Presse . Habib Ayeb ha spiegato anche
che è stata amputata della parte più importante, quella che riguarda le riforme
che aveva proposto. Così la versione integrale, quella che avete letto
qui, è stata ripresa in francese dai nostri
amici di Tunisia
in Red, che ci hanno cortesemente proposto di pubblicarla anche
su Comune con la traduzione e l’adattamento dal francese
curato da Bernardo Severgnini.
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