L’economia turistica di Venezia tra
sfruttamento e resistenza: intervista a Giacomo Maria Salerno - Giacomo
Giossi
La crisi covid ha lasciato le città italiane svuotate dai
turisti. In un certo senso le strade sono state restituite agli abitanti
finalmente liberi di muoversi senza l’incubo della massa turistica. Incubo che
tuttavia spesso rappresenta allo stesso tempo la principale, se non l’unica
risorsa economica di città come Venezia. Ed è proprio attorno al caso Venezia
che si sviluppa il discorso del saggio di Giacomo Maria Salerno, Per
una critica dell’economia turistica (Quodlibet). Come uscire da questa
morsa? È possibile immaginare un turismo sostenibile? Come restituire Venezia
ad una cittadinanza residente e attiva? Ho posto a Giacomo-Maria Salerno che da
anni svolge attività di ricerca su rapporto tra città e turismo, alcune
domande.
Quanto è influenzata l’economia globale dal turismo? Se si dovesse (o potesse) ragionare in termini di comparto e di relativa filiera, quanto il turismo influenza le politiche economiche?
Vari studi attestano ormai un impatto del turismo per oltre il 10% dell’economia globale, e non a caso si è parlato della nostra come dell’Età del turismo.
Nel nostro paese in particolare ci troviamo di fronte a classi dirigenti che per decenni l’hanno descritto come “il petrolio d’Italia”, costruendo su questo settore un strategia di vera e propria politica industriale che mostra oggi tutti i suoi frutti. Si è deliberatamente deciso di non investire in ricerca e innovazione per puntare tutto sullo sfruttamento intensivo di questa strana “risorsa”, che è poi costituita dai valori ambientali, sociali e culturali di cui vivono i nostri territori, senza però prenderne in considerazione le conseguenze.
Sembra paradossale, ma in un paese di cui si proclama continuamente la “vocazione turistica”, come per effetto della chiamata di chissà quale voce celeste, in pochi si soffermano a raccontare che tipo di economia e di società produce questa scelta strategica: che impatti ha sul mercato della casa nei contesti di emergenza abitativa? Quali effetti produce da un punto di vista ambientale, di consumo di suolo, di sfruttamento delle risorse naturali? Che tipo di mercato del lavoro tende a generare, in termini di precarietà, retribuzione, assenza di tutele, formazione della forza lavoro?
Incredibilmente nemmeno la pandemia ha per il momento portato ad un ripensamento di questo modello di sviluppo, che già mostrava ampiamente la sua insostenibilità e che ora rischia di lasciare senza reddito centinaia di migliaia di persone. Basta dare un’occhiata al piano Colao: per 12 schede dedicate al turismo, ce n’è solo una che menziona l’edilizia abitativa e sociale. Credo che in questa ostinata miopia della nostra classe dirigente stia una parte consistente del problema che ci troviamo a fronteggiare.
Il turismo come lo abbiamo conosciuto ha solo preso una pausa o ritornerà trionfalmente preponderante?
È difficile fare delle previsioni sui tempi di recupero del settore, e non sono ovviamente in grado di valutare la possibilità di un’eventuale seconda ondata del virus.
Quello che è certo è che alcuni attori scommettono già adesso su una ripresa in grande stile: chi ha capitali a disposizione li userà per accaparrarsi più assets, chi è in grado di giocare la scommessa di arrivare alla prossima stagione proverà a rilanciare, ma in mezzo tanti altri lavoratori e imprese si troveranno in condizioni drammatiche.
Quanto è influenzata l’economia globale dal turismo? Se si dovesse (o potesse) ragionare in termini di comparto e di relativa filiera, quanto il turismo influenza le politiche economiche?
Vari studi attestano ormai un impatto del turismo per oltre il 10% dell’economia globale, e non a caso si è parlato della nostra come dell’Età del turismo.
Nel nostro paese in particolare ci troviamo di fronte a classi dirigenti che per decenni l’hanno descritto come “il petrolio d’Italia”, costruendo su questo settore un strategia di vera e propria politica industriale che mostra oggi tutti i suoi frutti. Si è deliberatamente deciso di non investire in ricerca e innovazione per puntare tutto sullo sfruttamento intensivo di questa strana “risorsa”, che è poi costituita dai valori ambientali, sociali e culturali di cui vivono i nostri territori, senza però prenderne in considerazione le conseguenze.
Sembra paradossale, ma in un paese di cui si proclama continuamente la “vocazione turistica”, come per effetto della chiamata di chissà quale voce celeste, in pochi si soffermano a raccontare che tipo di economia e di società produce questa scelta strategica: che impatti ha sul mercato della casa nei contesti di emergenza abitativa? Quali effetti produce da un punto di vista ambientale, di consumo di suolo, di sfruttamento delle risorse naturali? Che tipo di mercato del lavoro tende a generare, in termini di precarietà, retribuzione, assenza di tutele, formazione della forza lavoro?
Incredibilmente nemmeno la pandemia ha per il momento portato ad un ripensamento di questo modello di sviluppo, che già mostrava ampiamente la sua insostenibilità e che ora rischia di lasciare senza reddito centinaia di migliaia di persone. Basta dare un’occhiata al piano Colao: per 12 schede dedicate al turismo, ce n’è solo una che menziona l’edilizia abitativa e sociale. Credo che in questa ostinata miopia della nostra classe dirigente stia una parte consistente del problema che ci troviamo a fronteggiare.
Il turismo come lo abbiamo conosciuto ha solo preso una pausa o ritornerà trionfalmente preponderante?
È difficile fare delle previsioni sui tempi di recupero del settore, e non sono ovviamente in grado di valutare la possibilità di un’eventuale seconda ondata del virus.
Quello che è certo è che alcuni attori scommettono già adesso su una ripresa in grande stile: chi ha capitali a disposizione li userà per accaparrarsi più assets, chi è in grado di giocare la scommessa di arrivare alla prossima stagione proverà a rilanciare, ma in mezzo tanti altri lavoratori e imprese si troveranno in condizioni drammatiche.
Le crisi sono delle opportunità solo per chi ha i mezzi per
poterle sfruttare, e alcuni esempi veneziani lo mostrano chiaramente: una
multinazionale austriaca, che ha da poco terminato la costruzione degli ostelli
di via Ca’ Marcello a Mestre, continua il suo pressing per la realizzazione di
un complesso alberghiero nell’area degli ex Gasometri, in una zona che da piano
regolatore è destinata a servizi pubblici o abitazioni; al Lido procede spedita
e senza ripensamenti la contestata operazione di Cassa Depositi e Prestiti
(quindi a regia pubblica) per la trasformazione dell’ex Ospedale al Mare in
Club Mediterranée, sempre ovviamente nella retorica del turismo di qualità e
sostenibile.
Infine, sul fronte delle locazioni turistiche, anche il protocollo recentemente firmato dal Comune, dalle Università veneziane e dalle associazioni dei proprietari per favorire la conversione di ex-Airbnb in appartamenti per studenti, rischia di essere un’arma a doppio taglio. Per quanto si tratti di un’iniziativa mossa dalle migliori intenzioni, c’è il rischio concreto che i proprietari la utilizzino come soluzione tampone in attesa della ripartenza della bolla turistica, sfrattando gli studenti dagli appartamenti, magari nel frattempo restaurati con fondi pubblici, giusto in tempo per la prossima stagione estiva.
Insomma, se da un lato la recente esperienza dovrebbe consigliarci di ripensare il modello urbano che abbiamo predisposto per le nostre città, il timore è che le spinte speculative si facciano ancora più aggressive nella fase della cosiddetta ripartenza.
Possono essere misurati i danni dati dal turismo ai diritti di cittadinanza? Come è slittato il concetto di cittadinanza nelle cosìddette città turistiche come Venezia?
Da anni diversi comitati, in Italia e non solo, denunciano i danni che può arrecare un’industria turistica senza argini ai diritti delle popolazioni locali. I numerosi collettivi e associazioni che hanno dato vita alla Rete SET (Sud Europa di fronte alla turistificazione) ad esempio, puntano il dito contro una serie di criticità facilmente riconoscibili nei nostri paesaggi quotidiani: dalla questione abitativa a quella ambientale e infrastrutturale, dai temi della gentrification fino ai diritti del lavoro. Da più parti si riconosce ormai che la crescita incontrollata dell’industria turistica tende ad aumentare le diseguaglianze sociali e a trasformare un territorio da luogo abitabile a sito di estrazione del valore, fino ad arrivare ad espellerne materialmente gli abitanti.
Infine, sul fronte delle locazioni turistiche, anche il protocollo recentemente firmato dal Comune, dalle Università veneziane e dalle associazioni dei proprietari per favorire la conversione di ex-Airbnb in appartamenti per studenti, rischia di essere un’arma a doppio taglio. Per quanto si tratti di un’iniziativa mossa dalle migliori intenzioni, c’è il rischio concreto che i proprietari la utilizzino come soluzione tampone in attesa della ripartenza della bolla turistica, sfrattando gli studenti dagli appartamenti, magari nel frattempo restaurati con fondi pubblici, giusto in tempo per la prossima stagione estiva.
Insomma, se da un lato la recente esperienza dovrebbe consigliarci di ripensare il modello urbano che abbiamo predisposto per le nostre città, il timore è che le spinte speculative si facciano ancora più aggressive nella fase della cosiddetta ripartenza.
Possono essere misurati i danni dati dal turismo ai diritti di cittadinanza? Come è slittato il concetto di cittadinanza nelle cosìddette città turistiche come Venezia?
Da anni diversi comitati, in Italia e non solo, denunciano i danni che può arrecare un’industria turistica senza argini ai diritti delle popolazioni locali. I numerosi collettivi e associazioni che hanno dato vita alla Rete SET (Sud Europa di fronte alla turistificazione) ad esempio, puntano il dito contro una serie di criticità facilmente riconoscibili nei nostri paesaggi quotidiani: dalla questione abitativa a quella ambientale e infrastrutturale, dai temi della gentrification fino ai diritti del lavoro. Da più parti si riconosce ormai che la crescita incontrollata dell’industria turistica tende ad aumentare le diseguaglianze sociali e a trasformare un territorio da luogo abitabile a sito di estrazione del valore, fino ad arrivare ad espellerne materialmente gli abitanti.
Il caso di Venezia è in questo senso emblematico, e nel
libro provo a ricostruirne la genesi, analizzando le scelte politiche che nel
corso degli anni hanno consegnato la città alla voracità della monocoltura
turistica. Vorrei però sottolineare come anche in quello che può sembrare uno
dei worst case scenario dell’ipersfruttamento turistico non tutto è perduto,
almeno finché la comunità dei cittadini non smette di darsi da fare. Mi fa
piacere ricordare che la rete SET ha infatti tenuto una delle sue prime
assemblee proprio a Venezia, in un luogo come la Vida – che da tempo è al
centro di una battaglia tra le istituzioni locali e i cittadini, che si
oppongono a una sua trasformazione nell’ennesimo ristorante e ne rivendicano al
contrario un uso collettivo destinato ad attività sociali e culturali. Chiunque
osservi oggi la situazione veneziana, non può che rendersi conto della tenacia
di una parte consistente dei suoi abitanti e dell’incredibile vivacità del suo
tessuto sociale, che riempie incessantemente calli e campielli di una miriade
di iniziative come queste.
È immaginabile un’azione collaborativa in grado di coinvolgere tutti gli agenti dalle istituzioni fino agli esercenti? È possibile immaginare una rigenerazione di chi lavora nel turismo in chiave di sostenibilità, partecipazione e integrazione?
Sono sempre molto scettico quando sento parlare di “turismo sostenibile”. Sotto questa etichetta possono nascondersi molte cose diverse tra loro: ad esempio, negli studi sul turismo – per come spesso vengono condotti in Italia, e cioè a partire da un’impostazione manageriale – si parla spesso di sostenibilità della destinazione turistica sulla base di criteri di natura economica che non tengono conto di numerosi altri fattori, difficilmente valutabili sulla base di un’impostazione tutta “quantitativa”.
L’ambiguità di questi modelli diventa evidente se si prende in considerazione il famoso dibattito sulla “capacità di carico”: a Venezia viene ancora citato spesso un’autorevole studio dell’88, che indicava come limite massimo sostenibile 7,5 milioni di presenze turistiche all’anno (una media di 20.750 al giorno). Uno degli autori di quello studio, a distanza di oltre 30 anni, ritocca al rialzo la soglia di sostenibilità indicandola in 19 milioni di presenze (vale a dire 52.000 visitatori al giorno, una cifra pari agli attuali abitanti della Venezia insulare!), per il semplice motivo che rispetto al passato è aumentata l’offerta ricettiva. Poi la realtà ovviamente supera anche queste soglie, se si considera che le stime pre-Covid parlavano per Venezia di oltre 30 milioni di turisti all’anno.
Questo per dire che i criteri di sostenibilità andrebbero valutati a partire da una maggiore complessità di variabili sociali, economiche, ambientali e culturali che influiscono direttamente sulla capacità del sistema urbano di riprodurre sé stesso.
Nella situazione veneziana attuale, occorre quindi rendersi conto che – come dicono i comitati di Barcellona – non ci può essere sostenibilità senza una decrescita del settore turistico.
In un contesto di overtourism, anche iniziative di per sé lodevoli, magari ecofriendly e slow, non farebbero che aggiungere un altro tassello al campionario dell’offerta turistica, risultando così totalmente inefficaci nel ridurre un problema che è di saturazione.
Occorre quindi invertire il punto di osservazione: ci sarà più sostenibilità dell’industria turistica non se ad un Airbnb si aggiunge un Fairbnb, ma se ci concentreremo sul rendere nuovamente abitabili le città turistiche, costringendo l’attore pubblico a prendere decisioni e ad attuare politiche concrete di argine alla rendita e per il diritto alla casa.
La crisi Covid può essere un’occasione per ripensare il modello economico di Venezia o non c’è altra via che un ritorno a questa coltura massiva?
Lo può essere se ci rendiamo conto che la situazione drammatica in cui versano migliaia di lavoratori del turismo non può essere risolta con l’invocazione di un “come prima, più di prima”. La situazione pre-Covid era già ben oltre la soglia critica, e il “normale” corso delle cose era già di per sé problematico. Auspicare, come molti fanno, un ritorno alla normalità, non è quindi che un modo per riprodurre un modello economico intrinsecamente generatore di diseguaglianze e naturalmente esposto al rischio di un calo verticale della domanda.
Insisto, invece che pensare a come rendere sostenibile un’industria estrattiva come quella turistica, bisognerebbe pensare a come costruire una città più giusta e vivibile per tutti. Quali regole per arginare la crescita di un mercato della casa impazzito e drogato dalla domanda turistica? Quali usi per gli spazi pubblici e i beni comuni? Quale tutela dell’ambiente lagunare?
È immaginabile un’azione collaborativa in grado di coinvolgere tutti gli agenti dalle istituzioni fino agli esercenti? È possibile immaginare una rigenerazione di chi lavora nel turismo in chiave di sostenibilità, partecipazione e integrazione?
Sono sempre molto scettico quando sento parlare di “turismo sostenibile”. Sotto questa etichetta possono nascondersi molte cose diverse tra loro: ad esempio, negli studi sul turismo – per come spesso vengono condotti in Italia, e cioè a partire da un’impostazione manageriale – si parla spesso di sostenibilità della destinazione turistica sulla base di criteri di natura economica che non tengono conto di numerosi altri fattori, difficilmente valutabili sulla base di un’impostazione tutta “quantitativa”.
L’ambiguità di questi modelli diventa evidente se si prende in considerazione il famoso dibattito sulla “capacità di carico”: a Venezia viene ancora citato spesso un’autorevole studio dell’88, che indicava come limite massimo sostenibile 7,5 milioni di presenze turistiche all’anno (una media di 20.750 al giorno). Uno degli autori di quello studio, a distanza di oltre 30 anni, ritocca al rialzo la soglia di sostenibilità indicandola in 19 milioni di presenze (vale a dire 52.000 visitatori al giorno, una cifra pari agli attuali abitanti della Venezia insulare!), per il semplice motivo che rispetto al passato è aumentata l’offerta ricettiva. Poi la realtà ovviamente supera anche queste soglie, se si considera che le stime pre-Covid parlavano per Venezia di oltre 30 milioni di turisti all’anno.
Questo per dire che i criteri di sostenibilità andrebbero valutati a partire da una maggiore complessità di variabili sociali, economiche, ambientali e culturali che influiscono direttamente sulla capacità del sistema urbano di riprodurre sé stesso.
Nella situazione veneziana attuale, occorre quindi rendersi conto che – come dicono i comitati di Barcellona – non ci può essere sostenibilità senza una decrescita del settore turistico.
In un contesto di overtourism, anche iniziative di per sé lodevoli, magari ecofriendly e slow, non farebbero che aggiungere un altro tassello al campionario dell’offerta turistica, risultando così totalmente inefficaci nel ridurre un problema che è di saturazione.
Occorre quindi invertire il punto di osservazione: ci sarà più sostenibilità dell’industria turistica non se ad un Airbnb si aggiunge un Fairbnb, ma se ci concentreremo sul rendere nuovamente abitabili le città turistiche, costringendo l’attore pubblico a prendere decisioni e ad attuare politiche concrete di argine alla rendita e per il diritto alla casa.
La crisi Covid può essere un’occasione per ripensare il modello economico di Venezia o non c’è altra via che un ritorno a questa coltura massiva?
Lo può essere se ci rendiamo conto che la situazione drammatica in cui versano migliaia di lavoratori del turismo non può essere risolta con l’invocazione di un “come prima, più di prima”. La situazione pre-Covid era già ben oltre la soglia critica, e il “normale” corso delle cose era già di per sé problematico. Auspicare, come molti fanno, un ritorno alla normalità, non è quindi che un modo per riprodurre un modello economico intrinsecamente generatore di diseguaglianze e naturalmente esposto al rischio di un calo verticale della domanda.
Insisto, invece che pensare a come rendere sostenibile un’industria estrattiva come quella turistica, bisognerebbe pensare a come costruire una città più giusta e vivibile per tutti. Quali regole per arginare la crescita di un mercato della casa impazzito e drogato dalla domanda turistica? Quali usi per gli spazi pubblici e i beni comuni? Quale tutela dell’ambiente lagunare?
Se ci poniamo queste domande, ci renderemo forse conto che
una città più bella e vivibile è possibile solo a condizione che il bene
comune, per una volta, riprenda terreno su ognuno di questi campi che
l’industria turistica gli contende. Perché un migliore accesso alla casa non
può che passare per una limitazione delle locazioni turistiche, uno spazio
pubblico disponibile all’uso che gli abitanti possono farne per un freno ai
plateatici, e la tutela della Laguna per l’estromissione delle navi da crociera
e la riduzione del moto ondoso causato da taxi e lancioni turistici.
È possibile immaginare delle politiche culturali depurate dall’elemento turistico? Esistono esperienze in tal senso virtuose?
In una città come Venezia l’industria culturale è fortemente dipendente da quella turistica, proprio perché quest’ultima, in quanto monocoltura, tende ad assimilare tutto ciò che le è prossimo grazie a un mercato di 30 milioni di visitatori.
I grandi eventi, le grandi istituzioni usano Venezia come un palcoscenico o una vetrina, lasciando sul territorio poco più che qualche lavoro stagionale ed enormi spazi vuoti o sottoutilizzati. Basti pensare all’Arsenale e alla Biennale.
Immaginare invece un comparto culturale che faccia del bene alla città vorrebbe dire ripensare le sue istituzioni, dirottare energie e risorse dallo show alla produzione. Si tratta di investire in spazi fisici e programmi di residenze, di valorizzare le esperienze indipendenti e dal basso che in città esistono, concedendogli spazi e possibilità di moltiplicarsi, per puntare alla costruzione di un ambiente e di un’economia in grado di radicarsi sul territorio.
Invece questo mondo, come d’altronde quello studentesco e della ricerca, vede i suoi spazi continuamente erosi dalla pervasività dell’industria turistica, che definisce possibilità lavorative e abitative.
Qual secondo te le priorità per salvare Venezia, quali azioni necessarie per immaginare un modello di sostenibilità che vada oltre il turismo di massa e le facili nostalgie?
Come provavo a dire prima, credo che sia possibile immaginare un modello diverso se smettiamo di focalizzarci sulla sostenibilità dell’industria turistica, e cominciamo invece a progettare una città più giusta e vivibile. Questo vuol dire smettere di cullarsi nelle retoriche del “turismo di qualità”, che spesso significa solo selezione di classe, e abbandonare progetti come i tornelli o il numero chiuso, che oltre a rappresentare un impedimento alla libertà di circolazione delle persone sancirebbero definitivamente la natura museale del “sito”. Venezia invece va pensata come una città, con e per i suoi abitanti.
Per scendere nel concreto, ci sono diverse cose che
andrebbero fatte con urgenza, a partire da un serio impegno sulle politiche
abitative. Ad esempio, la malagestione del pur consistente patrimonio
residenziale pubblico, come riportato dall’Osservatorio Civico sulla casa e la residenza
(OCIO), grida letteralmente vendetta, tra continui definanziamenti e case non
manutenute e non assegnate. Occorrerebbe poi intervenire sulle locazioni
turistiche: un’amministrazione degna di questo nome dovrebbe innanzitutto
provare ad utilizzare gli strumenti urbanistici a sua disposizione, e
contestualmente promuovere un dibattito che consenta una revisione del quadro
normativo nazionale sul tema, che alla prova dei fatti si dimostra
drammaticamente arretrato.
Le timide discussioni di pochi mesi fa sembrano essere state affossate dall’emergenza Covid, ma di possibili strade da percorrere ce ne sono molte. Basta guardarsi un po’ in giro in Europa, dove si attuano alcune politiche ragionevoli che qui scandalizzerebbero il partito trasversale della rendita, come la necessità di una licenza o una limitazione temporale agli affitti brevi. Occorrerebbe poi bloccare la svendita del patrimonio pubblico per necessità di cassa, così come le concessioni alberghiere e i cambi di destinazione d’uso. Si dirà che i buoi sono ormai scappati, ma nessuno si è ancora premurato di chiudere la stalla.
Infine, l’estromissione delle navi da crociera dalla Laguna, che come dimostrato e portato agli onori delle cronache da anni di mobilitazioni, portano profitto per pochi e danni per tanti. Insomma, delle possibilità per cambiare lo stato delle cose esistono e il futuro non è già scritto. Occorre però la volontà politica di cambiare radicalmente direzione, come chiedono – e non da oggi – ampi settori della società veneziana.
Le timide discussioni di pochi mesi fa sembrano essere state affossate dall’emergenza Covid, ma di possibili strade da percorrere ce ne sono molte. Basta guardarsi un po’ in giro in Europa, dove si attuano alcune politiche ragionevoli che qui scandalizzerebbero il partito trasversale della rendita, come la necessità di una licenza o una limitazione temporale agli affitti brevi. Occorrerebbe poi bloccare la svendita del patrimonio pubblico per necessità di cassa, così come le concessioni alberghiere e i cambi di destinazione d’uso. Si dirà che i buoi sono ormai scappati, ma nessuno si è ancora premurato di chiudere la stalla.
Infine, l’estromissione delle navi da crociera dalla Laguna, che come dimostrato e portato agli onori delle cronache da anni di mobilitazioni, portano profitto per pochi e danni per tanti. Insomma, delle possibilità per cambiare lo stato delle cose esistono e il futuro non è già scritto. Occorre però la volontà politica di cambiare radicalmente direzione, come chiedono – e non da oggi – ampi settori della società veneziana.
Venezia, l'«industria della nostalgia» e un
vuoto da riabitare - Sarah Gainsforth
Il turismo è una pratica talmente diffusa da
apparire come un fatto naturale, scontato e poco interessante - nonostante
costituisca oggi un settore portante dell'economia globale. È vero il
contrario: indagare il fenomeno del turismo consente di cogliere, riflessa e
rovesciata, l'immagine del mondo contemporaneo, e in essa la condizione
dell'uomo-moderno-in-generale. Riprendendo questa intuizione, in Per una critica dell'economia turistica. Venezia tra museificazione e
mercificazione (Quodlibet, pp. 250, euro 20), Giacomo Salerno
costruisce un denso percorso di critica del turismo, maturato nell'arco di tre
anni, articolato in tre sezioni-scenari: globale, urbano, lagunare. A partire
da diverse prospettive disciplinari, Salerno mescola con cura tracce filosofiche,
sociologiche, economiche, costruendo una sintesi originale delle teorizzazioni
finora prodotte; sulla scorta delle riflessioni sulla trasformazione della
struttura dell'esperienza, il turismo è una «industria della nostalgia»: il
tentativo mercificato di recuperare ciò che è stato perduto con il passaggio
alla modernità, ovvero l'esperienza tradizionale, intesa come costruzione di
senso, secondo la diagnosi di Benjamin.
L'oggetto del desiderio turistico è dunque la possibilità stessa di esperire, di avere un contatto, un'esperienza autentica, di sé e del mondo. Qualcosa che un tempo spettava alla sfera del sacro, e che oggi è prerogativa del viaggio, della vacanza, della sfera del mercato. Su questa ricerca l'industria turistica cresce e fa profitti, condannando il turista a una condizione di alienazione, che va letta nel contesto della trasformazione dell'economia e dei processi produttivi del capitalismo industriale. Così come l'esperienza viene «mercificata e venduta come pacchetto turistico» la città diventa «la costruzione postmoderna di un paradiso perduto», palcoscenico per il «rito secolarizzato del consumo», resto storico museificato e patrimonializzato, privato del suo valore d'uso.
Sw la modernità ha traghettato l'uomo «dal mondo del destino all'universo della scelta», con le rivoluzioni della mobilità prima e delle tecnologie poi «il mondo è diventato oin tal virtualmente disponibile nella sua totalità», al prezzo però della perdita di uno spazio identitario e comunitario tipico della città preindustriale: una dissociazione che produce sradicamento. Così, ancora, «al centro delle strategie commerciali degli operatori turistici è spesso posta proprio la particolare esperienza urbana che è stata dapprima negata per essere poi ricodificata in forma di merce».
Nessun moralismo dunque se si considera il turista come un ingranaggio di un processo di espropriazione, di un'economia delle esperienze, che sfrutta nostalgia e alienazione e che fa del centro storico, il rovescio della periferia, luogo e merce di consumo, il simulacro della vita urbana da «tutelare» e «valorizzare». Un discorso dietro cui si cela «la materialità di un processo reale» che fa delle città risorse di un'economia estrattiva - una «forma contemporanea di colonialismo interno». Nella città turistica per eccellenza, Venezia, Salerno ripercorre le tappe di una storia particolare che è anche quella di molte città contemporanee: strategie di gentrification e turistificazione che sono il frutto di precise scelte politiche, come quella che ha consentito, alla fine degli anni Novanta, un aumento della capacità ricettiva del 30% in tre anni. La pressione turistica, aumentata poi con Airbnb e con il turismo crocieristico, non è insomma piovuta dal cielo. Né si può ridurre a mero fatto numerico.
Si tratta di un vero e proprio saccheggio della città, «contesa tra i due modelli affini del parco tematico e del museo, in ogni caso ostaggio di chi dalle sue pietre e dalla sua immagine è in grado di estrarre un valore che non ha prodotto ma che ha espropriato ai suoi abitanti». Una città nuova non può che emergere dai movimenti che in nome del diritto alla città oppongono una resistenza alla privatizzazione e allo sfruttamento di Venezia, e di tutte le città desertificate e ridotte a merce, di cui il tempo della pandemia ha svelato il grande vuoto, ma anche la possibilità di essere riabitate.
L'oggetto del desiderio turistico è dunque la possibilità stessa di esperire, di avere un contatto, un'esperienza autentica, di sé e del mondo. Qualcosa che un tempo spettava alla sfera del sacro, e che oggi è prerogativa del viaggio, della vacanza, della sfera del mercato. Su questa ricerca l'industria turistica cresce e fa profitti, condannando il turista a una condizione di alienazione, che va letta nel contesto della trasformazione dell'economia e dei processi produttivi del capitalismo industriale. Così come l'esperienza viene «mercificata e venduta come pacchetto turistico» la città diventa «la costruzione postmoderna di un paradiso perduto», palcoscenico per il «rito secolarizzato del consumo», resto storico museificato e patrimonializzato, privato del suo valore d'uso.
Sw la modernità ha traghettato l'uomo «dal mondo del destino all'universo della scelta», con le rivoluzioni della mobilità prima e delle tecnologie poi «il mondo è diventato oin tal virtualmente disponibile nella sua totalità», al prezzo però della perdita di uno spazio identitario e comunitario tipico della città preindustriale: una dissociazione che produce sradicamento. Così, ancora, «al centro delle strategie commerciali degli operatori turistici è spesso posta proprio la particolare esperienza urbana che è stata dapprima negata per essere poi ricodificata in forma di merce».
Nessun moralismo dunque se si considera il turista come un ingranaggio di un processo di espropriazione, di un'economia delle esperienze, che sfrutta nostalgia e alienazione e che fa del centro storico, il rovescio della periferia, luogo e merce di consumo, il simulacro della vita urbana da «tutelare» e «valorizzare». Un discorso dietro cui si cela «la materialità di un processo reale» che fa delle città risorse di un'economia estrattiva - una «forma contemporanea di colonialismo interno». Nella città turistica per eccellenza, Venezia, Salerno ripercorre le tappe di una storia particolare che è anche quella di molte città contemporanee: strategie di gentrification e turistificazione che sono il frutto di precise scelte politiche, come quella che ha consentito, alla fine degli anni Novanta, un aumento della capacità ricettiva del 30% in tre anni. La pressione turistica, aumentata poi con Airbnb e con il turismo crocieristico, non è insomma piovuta dal cielo. Né si può ridurre a mero fatto numerico.
Si tratta di un vero e proprio saccheggio della città, «contesa tra i due modelli affini del parco tematico e del museo, in ogni caso ostaggio di chi dalle sue pietre e dalla sua immagine è in grado di estrarre un valore che non ha prodotto ma che ha espropriato ai suoi abitanti». Una città nuova non può che emergere dai movimenti che in nome del diritto alla città oppongono una resistenza alla privatizzazione e allo sfruttamento di Venezia, e di tutte le città desertificate e ridotte a merce, di cui il tempo della pandemia ha svelato il grande vuoto, ma anche la possibilità di essere riabitate.
Nessun commento:
Posta un commento