In una prospettiva odierna, il traguardo del 2100 ci appare davvero
lontano. Eppure, i bambini che oggi hanno pochi anni potranno facilmente vedere
l’inizio del prossimo secolo. Tra loro possono esserci i nostri figli, i nostri
fratelli minori, i nostri nipoti.
Se i progressi della medicina continuano ad accrescere la durata media
della vita, e se si incrementano le pratiche di successful ageing, nel 2100 i
bambini che noi oggi amiamo, e i loro coetanei, avranno ancora davanti a sé
anni di vita, e forse qualche decennio.
E poi, naturalmente, ci sono i bambini che devono ancora nascere.
Tempo minuto e frammentato
L’idea della solidarietà intergenerazionale considera l’impatto che possono avere decisioni prese oggi sulle generazioni successive alle nostre, a cominciare da quella a cui appartengono i figli, i fratelli minori e i nipoti.
L’idea della solidarietà intergenerazionale considera l’impatto che possono avere decisioni prese oggi sulle generazioni successive alle nostre, a cominciare da quella a cui appartengono i figli, i fratelli minori e i nipoti.
Stiamo parlando di un futuro che, per loro, è prossimo e possibile, che
comincia qui e ora e che, riguardando loro, riguarda molto da vicino anche noi.
Se non riusciamo a rendercene conto, è solo perché il nostro “qui e ora” si
è ristretto troppo. La nostra percezione del tempo si sta facendo più minuta e
frammentata: ci affanniamo a districarci istante dopo istante tra la parte
reale e quella virtuale di un presente talmente incerto, sincopato e
sovraccarico di informazioni da impedirci di allargare il nostro sguardo.
Così, il futuro ci appare, al massimo, come una fiction remota, di cui
possiamo essere incuriositi spettatori, ma che emotivamente non ci tocca più di
tanto.
Questo è pericoloso: almeno fino a oggi, proprio dalla capacità di
ragionare sul futuro e di preoccuparcene è dipeso il successo evolutivo della nostra
specie.
“Viviamo in un’epoca di breveterminismo patologico”, dice il filosofo
sociale Roman Krznaric. Il quale afferma che nei confronti del futuro abbiamo
sviluppato un’attitudine colonizzatrice. Come se si trattasse di un enorme
avamposto vuoto, che non appartiene a nessuno perché nessuno lo sta
(ovviamente) abitando ora, e sul quale noi possiamo dunque accampare diritti.
Un luogo in cui scaraventiamo scorie nucleari, debito pubblico, rischi
climatici e tecnologici. E che possiamo tranquillamente rapinare, dato che a
presidiarlo e difenderlo non c’è nessuno.
In un libro appena uscito, e intitolato The good ancestor,
Krznaric ci invita tutti quanti a espandere il nostro orizzonte temporale nella
direzione dei decenni e dei secoli prossimi venturi. Propone un Intergenerational solidarity index (indice
di solidarietà intergenerazionale) che, integrando numerosi parametri
(dall’impronta ecologica al coefficiente di Gini) misura il grado di attenzione
che i diversi paesi prestano alle generazioni future. E, in particolare,
considera gli investimenti volti a migliorarne o a sostenerne il benessere,
attraverso l’incremento del capitale ambientale, economico e sociale che viene
lasciato in eredità.
Ci tocca saltare
In cima alla classifica c’è l’Islanda. Tra i primi dieci paesi ci sono Nepal, Costa Rica e Uruguay, a dimostrare non è necessario poter contare su un alto reddito per mettere in atto politiche lungimiranti. L’Europa in generale non è messa male, ma la prestazione italiana è ampiamente migliorabile.
In cima alla classifica c’è l’Islanda. Tra i primi dieci paesi ci sono Nepal, Costa Rica e Uruguay, a dimostrare non è necessario poter contare su un alto reddito per mettere in atto politiche lungimiranti. L’Europa in generale non è messa male, ma la prestazione italiana è ampiamente migliorabile.
È davvero paradossale il fatto che, quanto più ci rendiamo capaci di
determinare le sorti dell’intero pianeta con le scelte che compiamo (e anche
con quelle che per opportunismo o negligenza omettiamo di compiere), e quanto
più efficaci sono gli strumenti di cui disponiamo per renderci conto sia dei
rischi, sia del nostro potere, tanto meno sembriamo propensi a farcene carico.
Certo: oggi siamo pressati dall’emergenza, e pensare a lungo termine sembra
difficilissimo. Eppure, proprio nei periodi di instabilità il pensiero a lungo
termine si dimostra necessario e potente. Necessario, perché aiuta a trovare
una direzione nuova e obiettivi consistenti. Potente perché, più gli equilibri
sono precari, più modificarli può risultare facile.
Nassim Taleb scrive nel Cigno nero che
“la storia e le società non strisciano, saltano. Passano da una frattura a
un’altra con qualche vibrazione nel mezzo. Eppure, a noi (e agli storici) piace
credere in una progressione continua”.
Che l’ideogramma cinese per la parola “crisi” riunisca i segni che
significano “pericolo” e quelli che indicano “opportunità” è una
(suggestiva) bufala. Sembra invece vero che la maggior parte dei
risultati di lungo termine sia determinata da decisioni prese in
lassi di tempo circoscritti. Con ogni probabilità stiamo vivendo esattamente in
uno di questi. Ci tocca saltare.
“Guarda e ascolta per il benessere
di tutto il popolo, e abbi sempre davanti al tuo sguardo non solo il presente,
ma anche le generazioni che verranno, perfino quelle i cui volti sono ancora
oltre la superficie della terra – i non ancora nati della nazione futura”.
È un principio tratto dalla Grande legge
degli haudenosaunee, la legge orale fondante della Confederazione degli irochesi. L’idea è che
ogni decisione vada presa tenendo a mente le sette generazioni future.
“Dobbiamo imparare a usare il principio della settima generazione”, scrive Medium. “È qualcosa di normale per le
popolazioni indigene. Può essere una nuova normalità per noi?”.
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