Il mio primo ricordo risale alla famosa nevicata del 1956. La città venne
ricoperta da una spessa coltre bianca. La neve raggiunse quasi un metro
d’altezza, tanto da rendere difficili gli spostamenti e persino uscire di casa.
L’immagine che mi è rimasta impressa è quella di un paesaggio lunare, che
osservavo con la faccia schiacciata sui vetri appannati della finestra di casa
mia. Quello che mi colpiva era il colore bianco intenso della neve, i suoi
riflessi abbacinanti che mi costringevano a socchiudere gli occhi. Un manto
bianco che tutto ricopriva e fissava in un immobilismo irreale, e poi quel
silenzio straniante che tutto avvolgeva e ottundeva. La neve era bella a
vedersi, ma la cosa seccante era che non potevo uscire di casa e soprattutto
non potevo toccare quella che appariva una sorta di panna in cui intingere il
dito.
La casa in cui sono nato era situata all’interno di quella che Salvatore
Satta, nel Il giorno del giudizio, chiama la terza Nuoro: “il
rione di San Pietro finisce dove comincia il lungo Corso appena lastricato,
simbolo della terza Nuoro, la Nuoro del tribunale, del municipio, delle scuole,
dell’episcopio…”. Mentre il rione di Seuna inizia proprio dove finisce il
Corso: al Ponte di Ferro. La linea sinuosa del Corso (l’antica via Majore) che
con una leggera pendenza scendeva dalla Piazza San Giovanni a Ponte e Ferru,
rappresentava il confine che divideva i rioni storici di San Pietro e di Seuna.
Un confine fisico che sottendeva una diversità che si fondava su una differente
vocazione economica e culturale: pastori gli abitanti di San Pietro, contadini
quelli di Seuna. Una differenza che implicava una diversa filosofia di vita: “Il
pastore appartiene alla dinamica della vita, il contadino alla statica. La
differenza tra il pastore e il contadino è che quello conduce una casa che
cammina, questo una casa che sta ferma”.
La nostra casa era in via XX Settembre: una strada stretta, in leggera
discesa, che si dipanava in parallelo con il Corso Garibaldi. Un acciottolato,
un impredau, con una leggera pendenza verso il centro per
permettere lo scorrimento delle acque, e non solo, che rendeva particolarmente
difficoltoso il transito dei carri a buoi, dotati di ruote di legno cerchiate
di ferro, che slittavano a contatto con i ciottoli e sprigionavano delle
scintille, che non impensierivano i piccoli cani, molto grintosi, che li
seguivano. La nostra casa era posta alla confluenza di via XX Settembre con via
Massimo D’Azeglio. La strada era un piccolo mondo a sé, autosufficiente,
totalizzante. Nella parte alta c’era il carbonaio, perennemente avvolto in una
nube di fuliggine nera, e che io identificavo con “l’uomo nero”, lo spauracchio
che, insieme alla “mamma del sole”, veniva agitato da mia madre quando voleva
spaventarmi. Il carbonaio, a dire il vero vestiva abiti femminili, era infatti
“zia Tatana”, una donna energica che portava avanti un’attività per niente
femminile, che diventava, nei mesi invernali, indispensabile per la grande
parte delle famiglie del vicinato: il carbone era l’unico combustibile, insieme
alla legna da ardere, che alimentava bracieri e camini.
Poco prima del carbonaio, sul lato opposto della strada, vi era un
palazzotto colorato di un rosso oramai sbiadito, da tutti conosciuto col nome di
“Nord America”. Un ex albergo avvolto da una cortina di mistero e accompagnato
da una pessima fama, alimentata dalla sua vecchia destinazione d’uso: una casa
di tolleranza che era stata chiusa nel 1958, dopo l’approvazione della legge
Merlin, e dove generazioni di giovani nuoresi avevano perso la
verginità. Il “Nord America”, a distanza di anni dalla chiusura,
continuava a suscitare sentimenti contrastanti: fantasie pruriginose nei
giovani, e non pochi rimpianti in chi giovane non lo era più.
Nella parte centrale della strada abitava la “signorina Ciccita”: una donna
elegante, distinta, una delle poche, insieme a mia madre, a vestire in abiti da
“signora”, a differenza della grande parte che vestiva in fardetta.
La “signorina Ciccita” viveva in una casa signorile, dipinta di un colore
pastello, forse un verde pallido, che spiccava nel grigio del granito delle
case circostanti. Nella parte bassa c’era un piccolo negozio di generi
alimentari che tutti chiamavano del “mamoiadino”, dove molte famiglie acquistavano
a “libretto”: una forma di pagamento che consentiva di saldare il dovuto alla
fine del mese. Nel piccolo negozio si poteva acquistare una deliziosa crema di
cioccolato con delle striature bianche, rigorosamente avvolta nel “papiru e
strazzu”, la carta grezza. Nella stessa carta veniva avvolta la conserva di
pomodoro che, nel breve tragitto che mi separava da casa, veniva ridimensionata
a forza di intingerci il dito.
Non poteva mancare il barbiere, ziu Missente: una nuvola bianca circondata
da una persistente scia di buon profumo, e dove si potevano trovare quei
piccoli calendari profumati, illustrati da donnine in abiti succinti che
alimentavano le fantasie di grandi e piccoli.
Ricordo ancora il fascino che esercitava il negozio di ferramenta, posto
poco più giù della nostra casa: un luogo magico, animato da un continuo via vai
di persone indaffarate, dove si poteva trovare di tutto, anche l’occorrente per
costruire i nostri sogni di bambini. Vi era poi la bettola che emanava un
inconfondibile profumo di mosto fermentato in vecchie botti, frequentata da
quelli che erano chiamati sos mandrones, gli sfaccendati, e dove
mio padre mi mandava a comprare il solito quartino di vino, mentre i più
piccoli potevano assaporare l’ambitissima “gazzosa Palimodde”.
Non poteva mancare lo spazio giochi: un piccolo fazzoletto di terra dove si
poteva giocare con sa bardoffula (la trottola), o al “giro
d’Italia” con i tappi delle bottiglie, o a bullino, a luna
monta, oppure a cadicalongu, o a punzotto, e tanti
altri giochi ancora.
Una parte della nostra casa dava su via Massimo D’Azeglio, e poco più su
abitava il mio amato maestro delle scuole elementari, maestro Arvai. Salendo
ancora, sulla destra, vi era la casa paterna di Monsignor Ottorino Alberti. Una
costruzione su più piani che si distingueva da quelle circostanti.
La strada era il vicinato: un insieme di rapporti umani strettissimi, fatti
di solidarietà e di vicinanza reciproca, di una fitta corrispondenza verbale
che consentiva di sapere tutto di tutti. Una vita di comunità che, nelle notti
d’estate, era alimentata da quel vociare sommesso che si levava dai piccoli
crocchi che si formavano sull’uscio delle case: piccole sedie e sgabelli,
disposti a semicerchio, su cui sedevano uomini, donne, bambini, ad ascoltare
vecchie storie e recenti fatti di cronaca, che si protraevano sino a tarda
notte, in attesa del fresco ristoratore.
È difficile e doloroso per un nuorese della “diaspora” parlare della
propria città. Tutte le volte che mi capita non posso fare a meno di confrontarmi
con un fastidioso senso di colpa, che cerco di scacciare facendo leva su una
razionalità che si rivela incapace di comprendere uno stato d’animo che
appartiene alla sfera dell’inconscio: pensieri, emozioni, che spesso decidono
del nostro agire ma di cui non abbiamo consapevolezza. Un senso di colpa che è
proprio di quanti, dopo aver lasciato la propria comunità, per scelta, per
necessità, oppure per i casi della vita, pensano, non senza presunzione, di
aver contribuito con il loro “tradimento” ad impoverire e a rendere sterile il
grembo materno che li ha generati. Vivono cioè come una colpa il non essere più
parte integrante della comunità di appartenenza.
La storia di Nuoro è costellata di episodi che sottolineano il difficile
rapporto di questa comunità coi i suoi figli. Molti nuoresi non hanno perdonato
a Grazia Deledda di essere scappata da Nuoro e da un ambiente dove si sentiva
soffocare e di essersi trasferita in quel di Roma; così come non hanno
perdonato a Salvatore Satta di aver scritto in modo mirabile, ne Il
Giorno del Giudizio, di Nuoro e dei nuoresi. Quasi che l’essersi
allontanati dal luogo natio li avesse privati del diritto di critica o comunque
della possibilità di esprimere giudizi, e comunque anche solo di parlare della
propria città.
Nuoro e il suo territorio sono i depositari di una cultura millenaria che
affonda le sue radici nella storia della nostra isola: ogni centimetro di
terra, ogni alito di vento, testimoniano di una identità antica, che appartiene
a una comunità più vasta. E poi, per dirla con un nuorese, Salvatore Satta, che
non è mai stato tenero con i nuoresi: “se volete saperlo, ogni sardo, per
quanto si ritenga superiore, persino i tronfi sassaresi e gli spagnoleschi
cagliaritani, guarda a Nuoro come alla sua seconda patria”.
da qui
Nessun commento:
Posta un commento