Nelle piccole comunità di cura che prefigurano le società della cura, esistono storie che vale la pena raccontare. Rivoluzione è questo vivere l’arte dell’incompiuto, convertire l’ordine delle cose, dare importanza alle pratiche sociali che sopravvivono e resistono nonostante il sistema capitalistico. Da queste pratiche dobbiamo prendere spunto quando parliamo di società della cura. La comunità Il Noce di Termoli è una piccola casa con una grande famiglia, un luogo fisico, ma soprattutto psichico e relazionale, un luogo intermedio tra il dentro e il fuori, è il luogo proprio dell’apprendimento e l’apprendimento più radicale è apprendere a separarsi. Separarsi per esistere Si impara a separarsi dalle sostanze di cui si è schiavi, dagli stili di vita dannosi, dalle relazioni nocive. In un percorso comunitario si avvia una evoluzione, autonoma per il singolo e integrata nel gruppo, e si fa l’esperienza della separazione, necessaria all’esistenza vera, un passaggio obbligato che aprirà la possibilità di nuove comprensioni, nuove esperienze, nuovi legami.
Te-ambaré e te-a-pèrd: letteralmente “devo
insegnarti e devo perderti”. Nel nostro dialetto insegnare si dice
imparare: insegnare e imparare sono sinonimi, descrivono una relazione
reciproca nella quale i ruoli si sovrappongono, chi insegna sta imparando e chi
impara sta insegnando. Nel nostro dialetto imparare è un verbo transitivo (ti
imparo una cosa) che descrive una trasformazione diretta: ti imparo equivale a
ti trasformo. “Ti insegnerò tante cose e ti perderò”: la relazione è la
destinazione (alcune frasi sono tratte da Eppure il vento soffia
ancora di Felice Di Lernia, edizioni Bordeaux). Te-ambaré e te-a-pèrd
è un monito, un mandato di libertà, una promessa di non possesso: devo
insegnarti e non devo tenerti, devo insegnarti per non tenerti, devo
insegnarti e lasciarti andare, devo insegnarti a lasciarti andare. Oggi, a
distanza di ventisette anni di travagliata vita, la comunità Il Noce di Termoli
festeggia il fine programma di altri due giovani che, con storie diverse, ci
ricordano che la vita è sempre un’opportunità, una responsabilità, un diritto.
Ventinove anni fa alcune famiglie approvarono lo statuto dell’associazione,
Famiglie Contro l’Emarginazione e la droga (Fa.C.E.D.), da cui nacque la
comunità Il Noce, sorella maggiore della Città Invisibile, per dire che
“Accoglienza” è una parola per cui vale la pena vivere. Cominciammo con i
tossicodipendenti, ma ci facemmo carico del grande rischio che correva la
nostra coscienza di benpensanti, tutta dedita ad alzare muri verso i drogati, i
migranti, gli omosessuali, i malati di aids, i detenuti, le vittime della
tratta. Eravamo animati dai volti dei nostri fratelli e sorelle che avevano
subìto la schiavitù della droga, ma ce l’avevano fatta grazie all’accoglienza e
oggi direi grazie alla misericordia che è il ridare a tutti opportunità di
vita. Non vogliamo raccontare i numeri, ma i tanti volti che tratteggiano
un’umanità sofferente, ferita, responsabile dei propri sbagli e tesa a trovare
una strada, una vita possibile. Vorremmo però non dimenticare le notti insonni,
le lacrime che abbiamo asciugato, la paura per ciò che non conoscevamo perché
chi si mette sulla strada e sulle frontiere non conosce l’inedito e
l’imprevedibile, ma quello che ricordiamo è anche quello che viviamo oggi con
tanta difficoltà e tanti debiti. Vantiamo anche un grande credito di umanità
donata e ricevuta perché abbiamo accompagnato chi faceva fatica e restava da
solo. Abbiamo anche affrontato il saccheggio e la devastazione di un sistema
che usa il volto buono del volontariato per poi abbandonarlo al proprio
destino, specie quando questo non è funzionale all’ordine delle cose,
diventando scomodo. Spiccano però, su tutte, le storie a lieto fine di quei
volti fieri e timorosi che si riaffacciavano alla vita con tremore e un fremito
di incoscienza vitale, come oggi i volti di C. e P., soprattutto grazie
all’aiuto di coraggiosi volontari e professionisti della cura, che lavorano
attendendo quello stipendio che il nostro sistema sanitario pubblico regionale
riconosce solo dopo diversi mesi. Vorremmo dire che tanti hanno abusato della
nostra accoglienza per disonestà e calcolo, soprattutto chi non ha capito e chi
ha contrastato, con le petizioni, con gli attacchi personali, ma molti di più
hanno fatto strada con noi nella semplicità e nella disponibilità perché
comprendevano che nonostante la nostra apparente ingenuità e fragilità c’era
qualcosa che il mondo stava smarrendo e che noi, insieme a tanti, custodivamo,
investendolo ogni giorno in abbracci, sorrisi, parole e sostegno sociale,
psicologico e pratico. Questo qualcosa si chiama: Accoglienza.
Questa parola è il vero volto disumanizzato di
questo quarto di secolo che porta una grande speranza con sé. Abbiamo
visto le lacrime tramutarsi in sorrisi, il dolore in gioia, la disperazione in
speranza, la sfiducia in fiducia, la morte nella vita. Abbiamo visto il patire,
il morire e la risurrezione nei volti dei senza volto, nei nomi dei senza nome
e abbiamo conosciuto ciò che il paradiso può rappresentare: un mondo al
contrario in cui gli ultimi, i vulnerabili, i poveri diventano i primi, i
coraggiosi, i ricchi e i privilegiati. Ne è valsa la pena per quanti hanno
creduto, lottato e vissuto per un ideale che è diventato pratica sociale di
accoglienza, di ascolto e di protagonismo anonimo. Sotto la cenere c’è vita!
In ciò che scartiamo c’è il fondamento di una
nuova umanità che ogni tanto fa capolino per dire al mondo che la
costruzione dei muri, l’emarginazione dell’unica razza umana sta facendo paura e
che solo chi tende la mano fa la storia, come quella eccezionale e coraggiosa
di questi due nostri figli ai quali va la nostra profonda riconoscenza per
averci insegnato che la vita non muore mai. La festa di C. e P. non è solo la
nostra, ma anche quella di un’intera comunità che, con volontà e coraggio, si
sforza di costruire, insieme agli invisibili, la società della cura e una nuova
economia della custodia del vivente.
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