In periodo
come questo che stiamo vivendo c’è una riduzione all’essenziale che corrisponde
a una specie di digiuno ascetico. Sembra che le cose importanti siano poche, le
essenziali ancor meno. È una sensazione che sembra emanare realismo. Molti se
ne fanno assertori, invocano ritorni alla campagna, promettono enormi
cambiamenti, minacciano coloro che non hanno gli stessi sentimenti. È un
momento delicato, perché di questa fase possono approfittare coloro che sono
convinti che una “certa riduzione” nei bisogni altrui sia più che conveniente.
È un momento delicato perché scompare l’ironia, soprattutto l’autoironia. Certo
la pandemia ci invita a riformare parecchie cose, a pretendere un mondo meno
inquinato e meno soffocato dalle automobili, meno afflitto dalle ragioni del
mercato e invece motivato dalle relazioni affettive e amicali. Bisogna però
stare attenti alla voglia di “sfrondare” che tutto ciò porta con sé. Ecco,
alcune cose sembravano davvero inessenziali. Che senso ha il turismo in un
mondo affetto da una pandemia? Anzi, non è proprio il turismo un effetto/causa
della globalizzazione? Non c’è nel bubbone che ci minaccia proprio quell’avere
consentito che tutto il mondo si rimescolasse? Gli stessi che invocano
l’apertura delle frontiere agli immigrati si trovano poi a pretendere che la
gente se ne rimanga a casa propria, che ci sia un certo turismo, sì, ma solo di
prossimità – e non chiamiamolo nemmeno turismo, che suona male, che so,
villeggiatura, fare sguazzare i bambini in acqua, fare sano movimento. Con il
bubbone è entrato anche il dubbio che le stesse vacanze abbiano un senso. E
giustamente. In un momento in cui l’essenziale è sopravvivere – sia al virus
che alla mancanza di lavoro – parlare di vacanze è di pessimo gusto. Così ci
sembrava fino a qualche giorno fa che il turismo fosse fuori discussione.
Fin quando
“inaspettatamente” l’Italia s’è desta e ha capito che il turismo le servirebbe
proprio per ricominciare. Badiamo bene, è un ragionamento tutto legato alla
necessità. Di quei brutaloni con i pantaloni corti si farebbe con piacere a
meno. Come della pandemia dei b&b, una vera peste per le città e una delle
cause principali della loro decadenza. Ma che si vuole? Nell’urgenza tappiamoci
il naso e riapriamo al turismo. La timidezza con cui si è fatto questo
cambiamento ha del paradossale. Il turismo non è parte dell’offerta culturale
di un paese? Ma chi ha il tempo di pensare a un piano per questa estate? Chi
mai si è accorto che siamo in un paese mediterraneo in cui gran parte delle
attività culturali si possono svolgere all’aperto? I sindaci hanno chiuso
teatri, gallerie, musei, per poi riaprirli – visto che avevamo riaperto le
spiagge. Senza però alcun piano. Guai a pensare all’offerta culturale: abbiamo
ben altri grattacapi e poi il turismo si sa, con la cultura c’entra poco. Siamo
reduci da un periodo pre-covid in cui il turismo è stato trattato come una
minaccia alla nostra civiltà, un affronto ai valori degli stanziali e in sé una
forma pervasiva di neocolonialismo – tanto più grave se si tratta di paesi
africani, asiatici, dell’America latina.
Peccato che
il mondo, anche in questi tre continenti sia cambiato parecchio e che lo stesso
definirsi di un posto è diventato abbastanza assurdo. Oggi sono proprio le
culture indigene, autoctone a rivendicare la propria capacità di ibridazione e
di rinnovamento continuo. Come ricorda James Clifford in Strade, si
è passati da ROOTS a ROUTES. Basta andare online a cercare il sito di una rete
di artisti, stilisti, filmakers, scrittori che convergono nel magazine africano
NATAAL per rendersene conto. Il mondo pre-pandemico, ma anche post-pandemico è
un modo mobile. Si guardi la sezione dedicata al COVID dagli artisti africani
di Nataal per vedere come è possibile un approccio meno ombelicale del nostro.
Sì, perché, in fin dei conti a molti di noi il covid è servito a guardarci
l’ombelico e a trovare che tutto sommato è quello che ci rimane. Il turismo ci
serve a fare un po’ di “dané”, ma non certamente a confrontarci con il resto
del mondo. Ho avuto la fortuna di passare il lockdown in Sicilia e mi sembrava
assurdo che si dovesse stare “dentro” proprio in un luogo che risana per il
solo fatto che si può stare all’aperto.
Gli
epidemiologi ci hanno messo un po’ ad ammetterlo. Effettivamente il virus si
propaga in luoghi chiusi. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando ha deciso a un
certo punto di non uscire più e di annullare qualunque piano culturale per la
città. A fine aprile ho scritto sulla Repubblica di Palermo un appello all’uso
dei 12 teatri greci all’aperto e delle centinaia di locazioni, parchi, parchi
archeologici, paesaggi che costellano l’isola – e mi son trovato a dover
ricordare che la Sicilia, ma anche il Sud d’Italia ha dai quattro ai sei mesi
in cui si può stare all’aperto. Strano che i Greci l’avessero capito e noi no.
Forse i teatri Greci erano una specie di drive-in per bighe? O semplicemente il
risultato di una cultura che aveva a che fare con l’esterno e non con
l’interno? Ora se si guarda al modo con cui gli “stranieri” aspirano a venire
in Italia si scopre che questa vocazione “all’aperto” è la prima cosa che li
attira e li affascina.
In Italia
siamo abituati a pensare che il patrimonio monumentale, paesaggistico,
culturale sia qualcosa di fermo: è lì. E non capiamo che invece è proprio lo
sguardo altrui ad attivarlo: da sempre, o almeno dal Grand Tour. E soprattutto
siamo convinti che il “patrimonio” sia “nostro”, grandissimo errore che conduce
alle mostruosità del poterselo “vendere” come sta tentando ad esempio di fare
il Governo Regionale Siciliano col suo assessore alla cultura dichiaratamente
fascista, smantellando le sovrintendenze per costruire dappertutto, su parchi,
spiagge e montagne.
C’è nel
disprezzo del turismo qualcosa di non capito nel modo con cui funzionano le
culture. Esse non sono mai “separate”, in una visione alla Lévi-Strauss che
oramai lui stesso aveva superato. Le culture vivono di riflessi e
contro-riflessi, di esotismi incrociati, di sguardi reciproci. Perfino il
colonialismo ne è stato vittima, ribaltato, cannibalizzato dai colonizzati. Nel
disprezzo del turismo c’è un’idea di purezza che mi fa paura, che rasenta il
sovranismo stupido e provinciale della Lega, ma che non è estraneo a molto
della non-cultura dei penta-stellati e di molte frange “progressiste”. Oggi
come non mai lo scambio tra culture è l’unica condizione che conduce alla
tolleranza e alla pace. I paesi dove la gente non viaggia “se non all’interno”
come gli Stati Uniti o gli Emirati Arabi ne sono una chiara illustrazione. E
non è un caso che la crociata anti turisti e anti b&b giunga da una città,
Barcellona, afflitta da un malinteso senso di identità che diventa sempre più
un nazionalismo “contro”. Chi pensa che il turismo porti solo disastri dovrebbe
studiarsi la storia dell’arte intrecciata al turismo, che comincia con una
magnifica mostra a New York nel 1976 “Ethnic and Tourists Arts” e giunge all’
esposizione “Magiciens de la Terre” curata da Jean Hubert Martin nel 1989 al
Centre Pompidou. Il turismo è uno straordinario dispositivo che consente alle
culture di costruire una “vetrina” di sé stesse nella quale specchiarsi e in
cui farsi ammirare. E non sto parlando degli indios, ma dell’Italia: è quello
che è successo a noi dall’800 in poi. Chi pensa che questo riflesso sia
“impuro”, “invalidante”, falsificante, non ha capito nulla di come le culture
vivano davvero trasformandosi continuamente, creolizzandosi e pidginizzandosi.
Uno dei motivi per cui si spera che la Cina cominci a cambiare è che i suoi
giovani negli ultimi dieci anni sono venuti in massa a studiare in Europa.
Nulla come questo può cambiare la visione di una cultura molto abituata a un solo
sguardo interno. Per capire come funziona una dittatura basta andare oggi in
Iskitlal Caddesi a Istanbul e accorgersi che il turismo è sparito. I dittatori
non amano uno sguardo dal di fuori.
Che poi ci
sia un problema di gestione del turismo, di pianificazione di esso all’interno
di una pianificazione culturale è altra cosa. La questione non è b&b sì o
no, o hotel sì o no, ma è decidere che esiste una faccenda che si chiama
ospitalità che può essere declinata in vari modi, ma che è essenziale. I b&b
hanno permesso a milioni di giovani di viaggiare a poco prezzo e di vivere
dall’interno una città – con buona pace di chi snobisticamente vorrebbe solo i
Grand Hotel. Il turismo va riletto in una storia dell’accoglienza di cui Ivan
Illich aveva cominciato a scrivere alla fine della sua vita. Le città non
possono prescindere dagli stranieri – non è un caso che la parabola del buon
samaritano finisce in una locanda. E quindi? Occorre coraggio mai come adesso e
soprattutto visione: l’Italia è uno dei più bei paesi del mondo. E la sua è una
vocazione a essere visitata, su questa vocazione si può costruire un’economia
decente che permetta di chiudere le Beretta o Marghera. Venezia è il risultato
di una mente austriaca che nella figura di un sindaco melanconico ha
sacrificato la città al turismo di massa perché incapace di una visione di un
turismo di visita reale, e di una progettazione culturale del turismo. Ha
invitato i veneziani a tapparsi il naso invece di inventarsi dei modi
intelligenti di permettere solo un turismo di media durata e non il “mordi e
fuggi”. E un discorso a parte andrebbe fatto per il Sud. Le vacanze dei
milanesi al Sud sono state costruite nel segno del “prendiamoci” quello che al
Nord non c’è più. Il Sud come contraltare di un paese che ha sacrificato al
Nord la sua bellezza per poi riprendersela durante le vacanze estive nel
Salento o a Pantelleria. Il divario del meridione serve come serbatoio di una
bellezza che altrove viene ritenuta inutile. Tutto questo è un assurdo che
dovrebbe avere fine. Una mutilazione che non serve a nessuno. E la soluzione
sta proprio nel fare diventare Milano un bel posto e non la fogna di tutte le
mancanze della classe industriale italiana.
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