venerdì 3 luglio 2020

B&B, alberghi e ombrelloni. Il turismo necessario - Franco La Cecla



In periodo come questo che stiamo vivendo c’è una riduzione all’essenziale che corrisponde a una specie di digiuno ascetico. Sembra che le cose importanti siano poche, le essenziali ancor meno. È una sensazione che sembra emanare realismo. Molti se ne fanno assertori, invocano ritorni alla campagna, promettono enormi cambiamenti, minacciano coloro che non hanno gli stessi sentimenti. È un momento delicato, perché di questa fase possono approfittare coloro che sono convinti che una “certa riduzione” nei bisogni altrui sia più che conveniente. È un momento delicato perché scompare l’ironia, soprattutto l’autoironia. Certo la pandemia ci invita a riformare parecchie cose, a pretendere un mondo meno inquinato e meno soffocato dalle automobili, meno afflitto dalle ragioni del mercato e invece motivato dalle relazioni affettive e amicali. Bisogna però stare attenti alla voglia di “sfrondare” che tutto ciò porta con sé. Ecco, alcune cose sembravano davvero inessenziali. Che senso ha il turismo in un mondo affetto da una pandemia? Anzi, non è proprio il turismo un effetto/causa della globalizzazione? Non c’è nel bubbone che ci minaccia proprio quell’avere consentito che tutto il mondo si rimescolasse? Gli stessi che invocano l’apertura delle frontiere agli immigrati si trovano poi a pretendere che la gente se ne rimanga a casa propria, che ci sia un certo turismo, sì, ma solo di prossimità – e non chiamiamolo nemmeno turismo, che suona male, che so, villeggiatura, fare sguazzare i bambini in acqua, fare sano movimento. Con il bubbone è entrato anche il dubbio che le stesse vacanze abbiano un senso. E giustamente. In un momento in cui l’essenziale è sopravvivere – sia al virus che alla mancanza di lavoro – parlare di vacanze è di pessimo gusto. Così ci sembrava fino a qualche giorno fa che il turismo fosse fuori discussione.

Fin quando “inaspettatamente” l’Italia s’è desta e ha capito che il turismo le servirebbe proprio per ricominciare. Badiamo bene, è un ragionamento tutto legato alla necessità. Di quei brutaloni con i pantaloni corti si farebbe con piacere a meno. Come della pandemia dei b&b, una vera peste per le città e una delle cause principali della loro decadenza. Ma che si vuole? Nell’urgenza tappiamoci il naso e riapriamo al turismo. La timidezza con cui si è fatto questo cambiamento ha del paradossale. Il turismo non è parte dell’offerta culturale di un paese? Ma chi ha il tempo di pensare a un piano per questa estate? Chi mai si è accorto che siamo in un paese mediterraneo in cui gran parte delle attività culturali si possono svolgere all’aperto? I sindaci hanno chiuso teatri, gallerie, musei, per poi riaprirli – visto che avevamo riaperto le spiagge. Senza però alcun piano. Guai a pensare all’offerta culturale: abbiamo ben altri grattacapi e poi il turismo si sa, con la cultura c’entra poco. Siamo reduci da un periodo pre-covid in cui il turismo è stato trattato come una minaccia alla nostra civiltà, un affronto ai valori degli stanziali e in sé una forma pervasiva di neocolonialismo – tanto più grave se si tratta di paesi africani, asiatici, dell’America latina. 

Peccato che il mondo, anche in questi tre continenti sia cambiato parecchio e che lo stesso definirsi di un posto è diventato abbastanza assurdo. Oggi sono proprio le culture indigene, autoctone a rivendicare la propria capacità di ibridazione e di rinnovamento continuo. Come ricorda James Clifford in Strade, si è passati da ROOTS a ROUTES. Basta andare online a cercare il sito di una rete di artisti, stilisti, filmakers, scrittori che convergono nel magazine africano NATAAL per rendersene conto. Il mondo pre-pandemico, ma anche post-pandemico è un modo mobile. Si guardi la sezione dedicata al COVID dagli artisti africani di Nataal per vedere come è possibile un approccio meno ombelicale del nostro. Sì, perché, in fin dei conti a molti di noi il covid è servito a guardarci l’ombelico e a trovare che tutto sommato è quello che ci rimane. Il turismo ci serve a fare un po’ di “dané”, ma non certamente a confrontarci con il resto del mondo. Ho avuto la fortuna di passare il lockdown in Sicilia e mi sembrava assurdo che si dovesse stare “dentro” proprio in un luogo che risana per il solo fatto che si può stare all’aperto.



Gli epidemiologi ci hanno messo un po’ ad ammetterlo. Effettivamente il virus si propaga in luoghi chiusi. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando ha deciso a un certo punto di non uscire più e di annullare qualunque piano culturale per la città. A fine aprile ho scritto sulla Repubblica di Palermo un appello all’uso dei 12 teatri greci all’aperto e delle centinaia di locazioni, parchi, parchi archeologici, paesaggi che costellano l’isola – e mi son trovato a dover ricordare che la Sicilia, ma anche il Sud d’Italia ha dai quattro ai sei mesi in cui si può stare all’aperto. Strano che i Greci l’avessero capito e noi no. Forse i teatri Greci erano una specie di drive-in per bighe? O semplicemente il risultato di una cultura che aveva a che fare con l’esterno e non con l’interno? Ora se si guarda al modo con cui gli “stranieri” aspirano a venire in Italia si scopre che questa vocazione “all’aperto” è la prima cosa che li attira e li affascina. 
In Italia siamo abituati a pensare che il patrimonio monumentale, paesaggistico, culturale sia qualcosa di fermo: è lì. E non capiamo che invece è proprio lo sguardo altrui ad attivarlo: da sempre, o almeno dal Grand Tour. E soprattutto siamo convinti che il “patrimonio” sia “nostro”, grandissimo errore che conduce alle mostruosità del poterselo “vendere” come sta tentando ad esempio di fare il Governo Regionale Siciliano col suo assessore alla cultura dichiaratamente fascista, smantellando le sovrintendenze per costruire dappertutto, su parchi, spiagge e montagne. 

C’è nel disprezzo del turismo qualcosa di non capito nel modo con cui funzionano le culture. Esse non sono mai “separate”, in una visione alla Lévi-Strauss che oramai lui stesso aveva superato. Le culture vivono di riflessi e contro-riflessi, di esotismi incrociati, di sguardi reciproci. Perfino il colonialismo ne è stato vittima, ribaltato, cannibalizzato dai colonizzati. Nel disprezzo del turismo c’è un’idea di purezza che mi fa paura, che rasenta il sovranismo stupido e provinciale della Lega, ma che non è estraneo a molto della non-cultura dei penta-stellati e di molte frange “progressiste”. Oggi come non mai lo scambio tra culture è l’unica condizione che conduce alla tolleranza e alla pace. I paesi dove la gente non viaggia “se non all’interno” come gli Stati Uniti o gli Emirati Arabi ne sono una chiara illustrazione. E non è un caso che la crociata anti turisti e anti b&b giunga da una città, Barcellona, afflitta da un malinteso senso di identità che diventa sempre più un nazionalismo “contro”. Chi pensa che il turismo porti solo disastri dovrebbe studiarsi la storia dell’arte intrecciata al turismo, che comincia con una magnifica mostra a New York nel 1976 “Ethnic and Tourists Arts” e giunge all’ esposizione “Magiciens de la Terre” curata da Jean Hubert Martin nel 1989 al Centre Pompidou. Il turismo è uno straordinario dispositivo che consente alle culture di costruire una “vetrina” di sé stesse nella quale specchiarsi e in cui farsi ammirare. E non sto parlando degli indios, ma dell’Italia: è quello che è successo a noi dall’800 in poi. Chi pensa che questo riflesso sia “impuro”, “invalidante”, falsificante, non ha capito nulla di come le culture vivano davvero trasformandosi continuamente, creolizzandosi e pidginizzandosi. Uno dei motivi per cui si spera che la Cina cominci a cambiare è che i suoi giovani negli ultimi dieci anni sono venuti in massa a studiare in Europa. Nulla come questo può cambiare la visione di una cultura molto abituata a un solo sguardo interno. Per capire come funziona una dittatura basta andare oggi in Iskitlal Caddesi a Istanbul e accorgersi che il turismo è sparito. I dittatori non amano uno sguardo dal di fuori. 

Che poi ci sia un problema di gestione del turismo, di pianificazione di esso all’interno di una pianificazione culturale è altra cosa. La questione non è b&b sì o no, o hotel sì o no, ma è decidere che esiste una faccenda che si chiama ospitalità che può essere declinata in vari modi, ma che è essenziale. I b&b hanno permesso a milioni di giovani di viaggiare a poco prezzo e di vivere dall’interno una città – con buona pace di chi snobisticamente vorrebbe solo i Grand Hotel. Il turismo va riletto in una storia dell’accoglienza di cui Ivan Illich aveva cominciato a scrivere alla fine della sua vita. Le città non possono prescindere dagli stranieri – non è un caso che la parabola del buon samaritano finisce in una locanda. E quindi? Occorre coraggio mai come adesso e soprattutto visione: l’Italia è uno dei più bei paesi del mondo. E la sua è una vocazione a essere visitata, su questa vocazione si può costruire un’economia decente che permetta di chiudere le Beretta o Marghera. Venezia è il risultato di una mente austriaca che nella figura di un sindaco melanconico ha sacrificato la città al turismo di massa perché incapace di una visione di un turismo di visita reale, e di una progettazione culturale del turismo. Ha invitato i veneziani a tapparsi il naso invece di inventarsi dei modi intelligenti di permettere solo un turismo di media durata e non il “mordi e fuggi”. E un discorso a parte andrebbe fatto per il Sud. Le vacanze dei milanesi al Sud sono state costruite nel segno del “prendiamoci” quello che al Nord non c’è più. Il Sud come contraltare di un paese che ha sacrificato al Nord la sua bellezza per poi riprendersela durante le vacanze estive nel Salento o a Pantelleria. Il divario del meridione serve come serbatoio di una bellezza che altrove viene ritenuta inutile. Tutto questo è un assurdo che dovrebbe avere fine. Una mutilazione che non serve a nessuno. E la soluzione sta proprio nel fare diventare Milano un bel posto e non la fogna di tutte le mancanze della classe industriale italiana. 

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