domenica 5 luglio 2020

Ma noi nuoresi non siamo cattivi… - Giovanni Fancello

Nel 1994 cambiò tutto. Le ultime guarnigioni ex-sovietiche lasciavano la Germania orientale e i paesi baltici. In Italia c’era il primo governo Berlusconi. Noi traslocavamo dalla periferia al centro storico di Nùoro, rione Santu Predu. Via Chironi, per la precisione, su cui affaccia la casa che fu di Giampietro Chironi, senatore del Regno. Quasi parallela a via Grazia Deledda, dove c’è la casa in cui nacque Grazia Deledda, scrittrice.
Abitavamo, prima, in un appartamento di via fratelli Kennedy. Dove, inspiegabilmente, non c’era la casa dei fratelli Kennedy. Appena sotto, via Togliatti; c’era la mia scuola materna, ma nessuna targa che rechi un “Qui ha vissuto…”.
Finalmente, il mio status di nuorese acquisiva i connotati di qualcosa di più autentico.

Al di fuori degli incerti confini delle cosiddette “zone interne”, dire che si è di Nùoro espone quasi sempre ad una reazione interrogativa dell’interlocutore – “Di Nùoro-Nùoro?”. Nella mia risposta affermativa c’è sempre una misura di smarrimento che la consuetudine con questa domanda (dopo vent’anni trascorsi altrove) non è ancora riuscita a dissipare. Più che altro, non ho mai capito se chi fa questa domanda pensi Nùoro e il Nuorese come sostanzialmente coincidenti, o supponga questa convinzione in me.
Visti da oltremare si è sardi-e-basta, tutti indistintamente caricati del bolso esotismo che alcuni assecondano nella forma della caricatura primitivistica, della decomposizione del factum tradizionale nel fictum turistico; chi è nato (ragionevolmente vicino) a Nùoro, invece, questa condizione la vive due volte, assegnato/a per sangue ad una indistinta entità geografica che non solo unifica e sfuma il centro urbano e il suo circondario, ma agglomera capoluogo e centri più piccoli.
Forse accade anche a chi non è nato a Nùoro, o forse no.

La campagna, comunque, è sempre stata vicina. Sarà per la marcata irregolarità del centro urbano, con le sue propaggini moderne che irradiano verso ovest, o forse solo per le sue modeste dimensioni – fatto è che ogni angolo di Nùoro ha uno scorcio di campagna a pochi minuti di cammino.
Alle volte, la città si lascia infiltrare da ampie zone di verde, com’è il caso dell’area di Tanca Manna, con il nuraghe in mezzo e le case popolari a ridosso; o il vasto parco di eucalipti dell’Ospedale Zonchello.

Salvo diversa indicazione, insomma, si è nuoresi-e-basta, per gli altri sardi – quelli, come dicevo, che stanno al di là della labile frontiera interna che separa la Sardegna centrale dal resto dell’isola. Un limen in qualche modo sostenuto anche dall’interno, se è vero che in molti, da queste parti, considerano gli altri sardi come sardi-altri – in un rispecchiamento di luoghi comuni talvolta benevoli, talvolta meno, che i retorici miraggi sulle potenzialità turistiche del centro Sardegna contribuiscono a distorcere in un modo perverso, cristallizzandoli nel finto autentico da proporre con modesto sovrapprezzo a corredo della vacanza costiera.

Ma Nùoro era soprattutto un centro di contadini e pastori, disciplinatamente separati: i primi a ovest, nel quartiere di Seuna, case basse e dimesse; gli altri, appunto, a Santu Predu, dove le case avevano i cortili per ospitare qualche bestia da cortile. In mezzo, il Corso Garibaldi, con le case dei notabili.
In cima al Corso c’è Piazza Su Connottu – “il conosciuto”. Un secolo e mezzo fa ospitò i moti contro la legge delle chiudende, che dava le terre pubbliche a chi le poteva recintare e toglieva il diritto al pascolo e al legnatico a quelli che non avevano casa al Corso.
Poco distante c’è il mio Liceo, che un tempo era Regio e aveva una palestra con la scritta ONB, all’ingresso: Opera Nazionale Balilla. È intitolato a Giorgio Asproni, deputato del Regno. Lui era a favore delle chiudende, ma qualcuno sostiene che abbia fatto anche cose buone.

Questa forma di nuoresità sfumata, dunque, si costituisce concettualmente per sintesi geografica. Ma la dimensione della concentrazione spaziale non la esaurisce; è invece nell’alterazione temporale che essa si smaschera più clamorosamente. L’esempio più lampante sta nella tendenza ad accozzare nel periodo estivo figure e temi del calendario tradizionale che gli sono del tutto estranei. Sradicate e deportate dallo spazio-tempo che dà loro pienezza di significato, le maschere dei carnevali di paesi vicini (Ottana, Mamoiada, Orotelli), si adunano nell’agosto nuorese per la Festa del Redentore – che ne risulta essa stessa snaturata al punto che quest’anno qualcuno ha trovato perfettamente ragionevole accogliervi una comparsata della Brigata Sassari.
In questo ri-produrre interamente finalizzato ad una fruizione ignara dei contesti, Nuoro è diventata dunque il luogo in cui questa convergenza innaturale è pensata e, quindi, ha luogo – ma non tempo.

Per inciso: riuscite a immaginare cosa significhi indossare una maschera di legno, una pelle di pecora e trenta chili di campanacci – è il caso dei boes di Ottana – sotto il sole di agosto? Ecco. Sembrerebbe solo un gratuito atto di cattiveria. Dev’essere per questo che i turisti – si dice – non hanno mai tempo di visitare Nuoro.
Ma noi nuoresi non siamo cattivi.

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