Priolo Gargallo, provincia di Siracusa, è la località dove si è consumato
l’ennesimo episodio di ordinaria ferocia: un sessantenne ha legato con una
catena al parafango posteriore della sua autovettura un cane e lo ha
trascinato per kilometri, per poi fermarsi e gettare quel che
restava di lui in un campo, a mo’ di spazzatura, mentre era ancora in vita:
Matteo (questo il nome con cui ci si riferisce alla povera bestia) è morto poco
dopo, ridotto a carne smembrata, sul tavolo del veterinario da cui era stato
portato dai soccorritori.
La reazione di rabbia impotente davanti
a tale scempio è acuita dalla certezza che, se due coraggiosi ragazzi non
fossero stati testimoni della scena e non avessero avuto la prontezza
di scattare foto che riprendevano anche il numero di targa
dell’auto, il ritrovamento dei resti sarebbe stato giudicato immeritevole
di ulteriore indagine, perché fatto di consueta malvagità, come
dimostrano i resti di tanti animali ritrovati in discariche con segni di
torture, ai quali solo nel migliore dei casi fa seguito un trafiletto su
qualche notiziario locale.
Alcuni particolari devono
ancora essere accertati, ma quello che è già stato documentato basta a
generare, oltre all’ orrore, alcune riflessioni. Poco importa se
Matteo fosse il cane di nessuno, randagio come tanti; o invece, come
raccontano, “appartenesse” al suo aguzzino che lo teneva legato in
campagna, portandogli da mangiare e da bere quando capitava. Quale
che sia la realtà, non cambia l’oscenità di un uomo che infierisce contro un
essere incatenato e indifeso, indifferente alla sofferenza che urla sotto i
suoi stessi occhi. Se anche non esiste motivazione al mondo che possa
giustificare tanta protervia, l’assenza di qualsiasi “ragione” appare
particolarmente drammatica: siamo di fronte al male allo stato puro:
ingiustificabile, estremo, opera compiaciuta di una mente
lucida; non uno di quei delitti d’impeto, generati da emozioni che,
esondando, obnubilano i pensieri, ma massacro programmato e
preciso.
Sarebbe interessante se il processo, che
ci si augura venga celebrato, e presto, andasse a scrutare nel profondo la
personalità di un tale uomo, alla ricerca del bandolo dell’oscura matassa della
sua psiche; ma non succederà di certo, perché l’uccisione di un cane non
è ritenuta degna di un impiego di mezzi tanto onerosi: consulenti,
perizie, psichiatri non sono mai al servizio della giustizia dovuta a un
animale. Con buona pace di tutti gli studi che mettono in luce il link comprovato
tra la crudeltà agita sugli animali umani e quelli non umani. Il chè significa
che, anche in presenza di un colpevole disinteresse per le sofferenze di un
cane, almeno la preoccupazione per gli umani dovrebbe spingere a ben diverse
reazioni.
Sono comunque i fatti ad offrire una
chiave di lettura, pur prescindendo dal meticoloso scandaglio
dell’inconscio del colpevole: e i fatti parlano di una personalità in cui la
violenza è evidentemente la modalità di relazione, il modo conosciuto per alimentare
un ego bisognoso di autorassicurazioni sul proprio valore
a fronte della sua stessa pochezza: valore che viene misurato sulla
possibilità di ferire, tormentare, uccidere,
perchè questo è il modo miserando di affermare la propria
superiorità. Una pochezza vile, dal momento che la vittima non è forte e
pericolosa, ma debole e indifesa e il luogo quanto più isolato
possibile, per vedersi garantita l’impunità. Se ogni persona è
quella che è diventata coniugando il proprio patrimonio genetico con le vicende
di tutta una vita, anche il sig. Antonio R. avrà pure una sua
biografia su cui sono andati sistemandosi i tasselli della sua sadica viltà;
conoscerli sarebbe utile per sapere cosa è necessario
per sollecitare le parti peggiori di noi. Parti che, considerando
la diligente precisione con cui ha portato a termine l’impresa, è lecito
supporre che avranno già avuto modo di esprimersi nella vita del suddetto
Antonio, perché le nostre mani così come la nostra mente non
improvvisano ciò che non sanno e ciò che non sono: lo imparano, su altri corpi,
su altre vittime.
Ma c’è dell’altro: perché gli atti
privati sono sempre inseriti in un contesto e possiedono
anche una portata sociale, come testimoniano tante situazioni, su
cui forse non si riflette abbastanza: è da mezzo secolo che lo psicologo
Philippe Zimbardo approfondisce gli studi che provengono da un famosissimo
esperimento (“L’effetto lucifero”; Stanford University, anni ’70) ,
che dimostrò con evidenza come il contesto (in quel caso costruito ad hoc in
una prigione) sia in grado di trasformare in brevissimo tempo le persone
rendendole capaci di un male che non avrebbero mai previsto di poter
compiere. E Primo Levi, reduce dallo sconvolgimento del lager, concentrato
delle mostruosità che la mente umana può ideare, ha affidato alla pubblicazione
de “I sommersi e i salvati” la scrittura di pagine preziose sulla
considerazione che anche i peggiori criminali sono esseri umani tristemente
ordinari, trasformati dalle circostanze: non mostri, vale a dire non quegli
extraterrestri, su cui ci piace tanto gettare la responsabilità di quello che
di noi stessi riteniamo inaccettabile, e che invece dimora come Ombra
disconosciuta proprio nel fondo della nostra psiche, parte di noi che può
restare silente o esplodere, a seconda delle situazioni. Ce ne vergogniamo e
accusiamo qualcuno con cui non abbiamo niente da condividere,
neppure l’appartenenza alla specie umana.
E altre ricerche che ci dicono che anche
delitti che riteniamo individuali, totalmente attribuibili alla responsabilità
di un singolo individuo, come la violenza sessuale, in realtà risentono di
altre variabili che, sommandosi l’una all’altra, vanno a costituirne il brodo
di cultura: variabili tra cui è davvero interessante scoprire che possono
trovarsi, per esempio, attività lecite quali la caccia, insieme alla
diffusione di media violenti e al numero di esecuzioni capitali (la ricerca è
svolta negli Stati Uniti, dove , come è risaputo, è contemplata la pena di
morte). In fondo la lezione un po’ siamo stati capaci di impararla: è da
qualche anno che ogni episodio di violenza sulle donne non provoca solo la
richiesta di una punizione adeguata del colpevole, ma risolleva ogni volta
dibattiti e discussioni sulla necessità di contrastare la convinzione ancora
diffusa, per quanto negata o misconosciuta, che vede nelle donne
esseri su cui esercitare diritti autoconferiti. Si comincia in altri
termini a capire che il contrasto ai femminicidi
non può prescindere dalla necessità di ridefinire la cultura dominante che
resta ancora intrisa dei residui delle convinzioni esplicitamente espresse fino
a pochi decenni fa, che, con il riconoscimento di cittadinanza al delitto
d’onore, sancivano anche dal punto di vista giuridico la
convinzione che non i diritti delle donne, ma la tutela dell’onore ferito
maschile dovesse essere la vera preoccupazione. Pensiero che sopravvive sotto
pelle e si riaffaccia, sotto mentite spoglie, nella motivazione di tanti
comportamenti maschili.
Riflessioni di questo genere sono
tutt’altro che estranee alla vicenda dell’aguzzino del cane Matteo: anzi, in
questo caso il link è molto più diretto e comprensibile e
coinvolge altri cani e altri aguzzini. A partire dal
fatto che il piccolo paese in cui è stata portata a termine la
tortura solo poche settimane prima era stato teatro, ad opera di responsabili
rimasti ignoti, di sevizie a danno di un altro cagnolino inerme,
prima torturato e poi impiccato. Pura coincidenza? Se si allarga lo sguardo, la
visuale ingloba un territorio più vasto, che vede la Sicilia spesso in una
posizione tutt’altro che lusinghiera in tema di tutela animale: nelle sue
strade ospiterebbe (il condizionale è d’obbligo in assenza di censimenti) la
bellezza di 100.000 randagi, triste primato europeo; mancano per loro adeguate
strutture di accoglienza; le periferie delle città si trasformano spesso in
discariche di cucciolate indesiderate e i canili fungono da depositi
di cani dismessi. A parte la squalifica morale, questa situazione
comporta uno stato di cose drammatico: gli animali a causa del loro
stesso numero strabordante sono spesso considerati e trattati come pericolosi,
quindi scacciati, presi a sassate o bastonate. Spaventati e in cerca di cibo,
può succedere a qualcuno di loro di rendersi responsabile di un’aggressione a
danno di una persona: e allora la reazione che era lì pronta ad
esplodere trova una giustificazione ad hoc per scatenarsi, perché, se la
vittima è pericolosa, allora del mio infierire non mi devo vergognare,
ma posso anzi inorgoglirmi spacciandomi per difensore della
collettività.
E’ all’interno di queste dinamiche che
periodicamente si registrano avvelenamenti di massa, qualcuno
incapace per la prepotenza dei numeri di sottrarsi ai riflettori dei media,
come fu il caso delle decine di cani uccisi a Sciacca nel febbraio del 2018. Ma
ci sono cronache ancora più spaventevoli che parlano di animali inermi che
neppure tentano di sottrarsi all’infierire su di loro di umani furiosi, fino
alla morte: la pur coraggiosissima abnegazione di tanti volontari non ce la fa
a contrastare tutto questo.
E’ necessario riflettere su come questo
genere di situazioni rappresenti il brodo di cultura di comportamenti
desensibilizzati: se la quotidianità è marcata dall’indifferenza verso animali
in evidente difficoltà e stato di bisogno, se la cultura intorno, a partire
dalle istituzioni, lungi dallo stigmatizzare, autorizza abbandoni,
maltrattamenti, ingiurie, tutto si ammanta di normalità: sono di
fatto rapporti di forza, prepotenza, violenza che, essendo tanto diffusi e non
perseguiti, vengono interiorizzati e sdoganati come accettabili. E’
ovviamente una dinamica che coinvolge solo parte della popolazione, a fronte
dei molti che condannano, e ai cittadini (e soprattutto
cittadine!) sensibili, di grandissima determinazione che lottano strenuamente
contro questo stato di cose, pagando prezzi elevatissimi in termini di
sofferenza psichica, e non solo. Ma, in una società civile, la strada non può
essere quella di contare solo sull’eventuale appello all’empatia personale
per contrastare un assetto che, nei fatti anche se non nella
teorizzazione, sopporta e giustifica il male fatto a molti. E il
male fatto agli animali è un problema enorme: la Sicilia, oggi sotto accusa per
i fatti di Priollo, non ne detiene certo l’esclusiva, che anzi, a macchia di
leopardo, investe tutte le parti d’Italia, ognuna con la propria specificità e
con altre regioni (in primis Calabria, Sardegna, Puglia, Campania e non solo),
dove il problema è enorme; ma è innegabile che la vastità del fenomeno la mette
spesso sul banco degli imputati.
E’ in questa ottica che urge approvare
leggi che sanzionino in modo adeguato i maltrattamenti a danno degli animali:
finchè le pene resteranno blande, torturare un animale sarà interiorizzato se
non come lecito, comunque tollerabile, da derubricare nel nostro
codice morale a crimine bagatellaro, perché di fatto tale è
considerato nelle leggi: leggi indispensabili per
stabilire delle norme che diventino col tempo anche morali. Contestualmente
alla punizione, è basilare occuparsi della prevenzione, che ha
inizio dalla sensibilizzazione della popolazione, a partire dalle
fasce più giovani, al rispetto per le altre forme senzienti, dalla
costruzione progressiva di una cultura in cui qualunque tipo di efferatezza
nei confronti di un essere debole venga ripudiata, in cui la diffusa assenza di
sentimenti di empatia verso la sofferenza corrisponda ad un allarme sociale, in
cui la sensibilizzazione verso tutte le vite senzienti sia prioritaria in ogni
progetto educativo. Discorso non facile, certo, soprattutto in una terra in cui
i diritti umani sono spesso calpestati dalle organizzazioni criminali; ma non
si può cedere alla tentazione del benaltrismo, che, nell’affermazione che c’è
ben altro di cui occuparsi e preoccuparsi, finisce per trovare giustificazione
all’immobilismo: se le violenze, le ingiustizie, le crudeltà, contro chiunque
espresse, sono considerate inevitabili o normali, il risultato non
può che essere l’assuefazione, matrice di passività e indifferenza; la
reazione è doverosa e non può limitarsi a rabbia,
stigmatizzazione, furore reattivo.
Il cane Matteo giustizia non
l’avrà mai: non esiste giustizia per lui, morto di una morte atroce senza
nemmeno capire il perché, come succede ad ogni diseredato sulla faccia della
terra, che strappa ogni giorno di vita con le unghie e coi denti perché la vita
è l’unica cosa che possiede, per quanto umiliata e offesa. Il monumento in Park
Lane, a Londra, dedicato ai milioni di animali coinvolti nella follia tutta
umana della prima guerra mondiale, i monumenti a Roma e nei pressi di Catanzaro
al cane Angelo randagio di Calabria torturato fino a morire da
quattro ragazzotti sfaccendati, sono omaggi tutt’oggi
rarissimi alle vittime animali della nostra violenza: non restituiscono loro
neppure un alito di vita: sono però un monito a guardare dentro di
noi per prendere atto dell’abisso di crudeltà di cui siamo capaci, e che nei
confronti dei più miserabili, che sono più di tutti gli altri i nonumani, esprime
il peggio di sé. Il recente sfregio alla statua di Angelo, a Roma,
ci avverte che non è proprio il caso di peccare di ottimismo.
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