venerdì 12 giugno 2020

migrare verso Marte


Le coltivazioni sul pianeta rosso avranno i profumi della Sardegna - Miriam Carraretto
I primi astronauti che metteranno piede su Marte mangeranno, in un certo senso, italiano. Il brevetto per il cibo sul Pianeta Rosso parla sardo.
DASS, il Distretto Aerospaziale della Sardegna, ha acquisito anni fa un brevetto in grado di garantire il sostentamento di missioni umane su Marte. A inizio 2020 è arrivato l’ok anche da parte dell’India, dopo che già Cina, Europa, Giappone, Russia e Stati Uniti avevano detto sì.
I ricercatori dell’Università di Cagliari e del Centro di Ricerche Sviluppo e Studi Superiori in Sardegna, ora soci del DASS, guidati dal professor Giacomo Cao, sono riusciti a inventare un processo capace di generare cibo sfruttando le risorse presenti sul Pianeta Rosso: il suolo, prima di tutto, ma anche i relativi componenti, come pure l’anidride carbonica, di cui l’atmosfera marziana è quasi completamente costituita, per ottenere ossigeno, fertilizzanti, propellenti e biomassa edibile.
«La tecnologia che abbiamo brevettato prevede numerosi stadi tra loro notevolmente interconnessi, che potremmo suddividere in due sezioni» spiega Cao: «Una contraddistinta da processi chimico-fisici, dalla quale si possono ottenere ad esempio fertilizzanti, e l’altra che contempla operazioni unitarie a carattere biologico, da cui si produce biomassa edibile, anche con l’impiego di microalghe».
Uno dei mantra della NASA è lo sviluppo di nuove tecnologie per l’esplorazione dello spazio che sfruttino le risorse disponibili in situ, tali da consentire un abbattimento dei costi e l’allungamento dei tempi di missione.
Cao e i suoi colleghi hanno ideato una cupola geodetica capace di mantenere le condizioni necessarie a consentire la coltivazione e la presenza di umani al suo interno, con un’atmosfera respirabile e una temperatura di minimo 10 gradi, garantita dall’energia raccolta da pannelli solari, un’escavatrice, macchinari per mantenere stabile il calore e l’umidità, e tubature per convogliare l’acqua estratta dal suolo. «La cupola servirà anche a proteggere attrezzature e astronauti dalle radiazioni solari».
Ma cosa potremo coltivare su Marte? «Specie alimentari di vario genere: sicuramente alghe, ma anche altri vegetali. Per l’arrivo dell’uomo si parla del 2030, ma fosse anche il 2040 poco cambierebbe. Con poco meno di 500mila euro ottenuti dalla Agenzia Spaziale Italiana nel 2009 siamo riusciti a realizzare due brevetti internazionali e due brevetti italiani, un grande orgoglio per noi».
A chi lo interroga dubbioso sul senso di tutti questi progetti spaziali, Cao ricorda che esistono molte applicazioni sulla Terra di tecnologie nate per l’esplorazione dello spazio: dalle tute ignifughe alle pellicole degli occhiali per sciare fino alle celle a combustibile.
Cao è anche responsabile scientifico del progetto Small Mission to Mars, che coinvolge DAC (Distretto aerospaziale della Campania), il Centro Italiano Ricerche Aerospaziali, Avio e altri, che consentirà all’Italia di essere annoverata tra i pochissimi Paesi al mondo in grado di raggiungere Marte sperimentando l’utilizzo di tecnologie nazionali proprietarie.
Su Marte entro il 2027, se tutto andrà bene, con una sonda di elevata tecnologia interamente progettata e realizzata in Italia, che verrà portata sul pianeta grazie al Vega, il lanciatore sviluppato in ambito Esa. «I nostri punti di forza sono affidabilità e economicità. Prevediamo di svilupparlo in sette anni, con un investimento di 250 milioni di euro, oltre ai 50 milioni del Vega».
A dimostrazione che il settore aerospaziale rappresenta un volano strategico, e neanche così costoso, per lo sviluppo e l’occupazione nel Belpaese.

«Stamperemo cibo spaziale» - Miriam Carraretto

Fino ad oggi gli astronauti hanno mangiato cibi conservati, ma la prospettiva di Marte cambia tutto, perché solo per raggiungere il Pianeta Rosso e tornare sulla Terra sarà necessario un viaggio di circa due anni. Thales Alenia Space, leader mondiale in campo aerospaziale, sta già lavorando alle coltivazioni senza suolo attraverso una serra sperimentale in Antartide, Eden ISS. Un esperimento i cui risultati stanno facendo scuola in tutto il mondo.
Liliana Ravagnolo è la responsabile ALTEC, costola di Thales Alenia, delle operazioni di missione e del training degli astronauti e si sta occupando della preparazione degli operatori di terra del Rover Operations Control Center (ROCC), la centrale operativa che da ALTEC a Torino seguirà la missione ExoMars 2020. Fra le prime donne al mondo a conseguire la certificazione da parte della NASA per l’addestramento degli astronauti, Ravagnolo è una grande esperta di space food.
Dottoressa Ravagnolo, cosa significa oggi parlare di cibo spaziale?
La preparazione del cibo spaziale deve rispondere a parecchi requisiti che sono determinati dalle principali agenzie spaziali di riferimento per il cibo, la NASA, con il NASA Food Lab, e l’agenzia spaziale russa, con l’IBMP-Institute for Biomedical Problems. I requisiti sono pensati per un utilizzo ottimale del cibo in ambiente spaziale ma possono essere traslati per un utilizzo a terra in situazioni estreme, come le razioni di emergenza per militari, squadre di soccorso o di pronto intervento in caso di terremoti o eventi particolari, spedizioni di esplorazione in luoghi impervi come il deserto o l’Antartide. I menù sono studiati per garantire il giusto apporto nutrizionale e calorico. In particolare, non viene consentito l’uso di sale aggiunto, per limitare le conseguenze già indotte dall’ambiente di microgravità sulla circolazione del sangue. Inoltre, si utilizzano particolari procedure di conservazione del cibo che ne consentano la consumazione fino a 24 mesi dalla data di produzione in ambiente non refrigerato: la deidratazione e la termostabilizzazione.
Come vi state preparando alla missione su Marte e quale sarà l’apporto italiano?
ALTEC partecipa al programma ExoMars 2022, il primo rover europeo che verrà inviato sul suolo marziano alla ricerca di tracce di vita. In ALTEC abbiamo il ROCC (Rover Operations Control Center), da dove gli esperti comanderanno il rover una volta arrivato su Marte. Al momento sono attivi solo progetti di esplorazione robotica del pianeta, mentre per quelli relativi all’esplorazione umana dovremo aspettare ancora un po’. Le competenze sviluppate nel seguire il programma ExoMars saranno però sicuramente utili in futuro anche per la gestione di una missione umana. Dovremo far fronte ai ritardi nella comunicazione dovuti alla distanza fra i due pianeti, ci abitueremo a pianificare le attività e a dare supporto agli astronauti da remoto non solo nel senso dello spazio ma anche del tempo. Stiamo studiando per esempio dei sistemi di supporto alle operazioni e all’addestramento basati sulla realtà virtuale e aumentata.
Thales Alenia sta studiando anche la coltivazione senza suolo in Antartide…
Questi studi sono dedicati alla seconda fase dell’esplorazione umana dello spazio, quella della produzione del cibo in loco, una volta che le basi spaziali saranno consolidate. Si stanno studiando delle serre idroponiche che potranno produrre verdura e frutta in quantità. Al momento sulla Stazione c’è Veggie, un dimostratore americano molto piccolo. Lo scopo non è sostituire l’attuale dieta degli astronauti, ma provare a produrre del cibo commestibile in condizioni di microgravità.
In attesa di avere serre spaziali per la produzione di cibo in loco, state progettando macchine a stampaggio 3D in grado di produrre cibo direttamente nello spazio.
Luca Parmitano ad esempio ha cotto biscotti in orbita… A che punto siete con questo progetto?
Queste macchine consentono di impostare delle ricette: ogni cartuccia contiene un singolo ingrediente. Si seleziona la ricetta e si procede al suo stampaggio in strati successivi. In missioni di esplorazione umana verso la Luna e Marte, che prevedono la costruzione di basi permanenti, i principali problemi da risolvere relativamente al cibo saranno la fornitura del cibo nel periodo iniziale, e la produzione di cibo in loco, che richiederà del tempo per arrivare a regime. Per coprire questo lasso di tempo, abbiamo studiato varie possibilità, fra cui l’utilizzo di stampanti 3D per il cibo. Il vantaggio è l’utilizzo di ingredienti di base liofilizzati a cui verrà aggiunta l’acqua solo in fase di stampaggio. Questo garantisce la durata del cibo per cinque anni. Per realizzare i piatti, chef e nutrizionisti stanno studiando alcune ricette che si basino su un numero limitato di ingredienti base e che, stampati in serie, realizzino il piatto.
Quali sono i maggiori problemi e ostacoli con cui vi troverete a fare i conti?
Rimangono ancora parecchi nodi da sciogliere per garantire una sicura esplorazione umana dello spazio e degli altri pianeti. Prima di tutto dovranno essere sviluppate nuove tecnologie e nuovi vettori che siano in grado di trasportare gli astronauti in modo sicuro ed efficiente. La NASA sta sperimentando una serie di nuovi vettori, tra cui il Falcon Heavy di SpaceX, la società di Elon Musk. In parallelo sta procedendo nella realizzazione dello Space Launch System (SLS), un sistema di lancio orbitale pesante unito alla capsula Orion, che dovrebbe essere utilizzata per i viaggi interplanetari. Ma c’è anche la questione della protezione dalle radiazioni, la capacità di costruire in loco habitat funzionali e protettivi rispetto all’ambiente esterno, e lo sviluppo di nuove tute che siano adatte all’esplorazione planetaria.

Arriva l’orto marziano, a km zero e made in Italy - Miriam Carraretto

In principio furono purea di patate, carne e crema al cioccolato, tutti rigorosamente in tubetti da spremere in bocca. Il primo pasto consumato in orbita fu in quel lontano 12 aprile 1961, quando Jurij Gagarin spiccò il volo. Otto ore appena in cui il primo uomo ad andare nello spazio dimostrò al mondo intero l’infondatezza della convinzione che mangiare in assenza di gravità portasse al soffocamento.
Poi per gli astronauti arrivò il cibo liofilizzato, ma quei dadi super concentrati erano davvero disgustosi. Nella storia delle esplorazioni spaziali si racconta sempre di John Young, che nella missione Gemini 3 si portò dietro di nascosto un panino. Rischiò di compromettere, con le briciole, tutta la strumentazione di bordo: fortunatamente, fu beccato prima di masticarlo. Dopo ancora, fu la volta dell’acqua calda, che permise per la prima volta di reidratare gli alimenti, migliorandone nettamente il gusto.
DOMANI, IN ORBITA SI POTRÀ mangiare cibo vero e proprio, a chilometro zero. E persino made in Italy. Sembra fantascienza, eppure è quasi realtà. Il cibo prodotto nello spazio è una frontiera vicinissima e affascinante. Uno dei grandi obiettivi della ricerca spaziale oggi è produrre cibo direttamente in situ, in modo che sia sempre disponibile per gli astronauti e abbattere così costi e tempi di viaggi per i rifornimenti che diversamente sarebbero infiniti. Serre e orti spaziali, agritech estremo, espressioni di una sintesi perfetta tra futuristica innovazione tecnologica e agricoltura di base.
GRAZIE AGLI STUDI DELL’UNIVERSITÀ DI WAGENINGEN, Olanda, esistono già almeno nove specie di piante coltivate in serra con simulanti di regolite, cioè analoghi preparati per riprodurre le caratteristiche del terreno di Marte e della Luna, che danno vita ad altrettante verdure: crescione, rucola, pomodori, ravanelli, segale, quinoa, erba cipollina, piselli e porri. Per ora, gli esperti hanno fallito solo con gli spinaci. Intanto, gli astronauti dell’ISS, la Stazione spaziale internazionale, hanno già assaggiato l’insalata cresciuta in assenza di gravità («buonissima», secondo il nostro Paolo Nespoli).
La creazione di un ecosistema agricolo chiuso e sostenibile è una meta possibile. Coltivare nello spazio è essenziale in primis per assicurare rifornimenti agli astronauti, considerando che per arrivare su Marte ci vanno almeno nove mesi. Ma questi progetti visionari, i loro sviluppi, potrebbero essere un giorno importanti anche per la Terra.
È di matrice italiana lo studio attualmente in corso che ha portato già ad avere piccole serre di vegetali in orbita, senza terra né acqua, e che sta lavorando per rendere il sistema operativo per una produzione sufficiente ad alimentare in autonomia le basi spaziali. Dagli ulivi alle insalate, dalle patate ai pomodori, stiamo assistendo, anche in Italia, a una vera e propria corsa alla sperimentazione per l’agricoltura su Marte, e nello spazio in generale, per le future colonie umane.
ADATTARE LE COLTIVAZIONI A CONDIZIONI estreme extraterrestri richiede però una lunga serie di sperimentazioni e ricerche. Una delle più importanti e pionieristiche è la missione Amadee 18 realizzata nel deserto dell’Oman. A fornire cibo fresco ci ha pensato proprio l’Italia, con un orto ipertecnologico realizzato da Enea, Asi-Agenzia Spaziale Italiana e Università degli Studi di Milano, nell’ambito del progetto HortExtreme. L’orto marziano consiste in un sistema a contenimento di quattro metri quadri dove vengono coltivate quattro specie di micro verdure – amaranto, cavolo cappuccio, senape e ravanello – appositamente selezionate perché completano il loro ciclo vitale in circa 15 giorni e garantiscono un corretto apporto nutrizionale ai membri dell’equipaggio: un’alimentazione di alta qualità, grazie a un sistema di coltivazione fuori suolo con riciclo dell’acqua (il cosiddetto sistema idroponico) e senza l’uso di pesticidi e agrofarmaci.
LA RICERCA AGRICOLA SPAZIALE PUNTA anche a studiare gli equipaggiamenti che potranno essere impiegati in future missioni su Marte, come rifugi resistenti fino a -80 gradi e a venti oltre i 100 chilometri orari, e serre gonfiabili dotate di una rete di sensori per monitorare tutti i parametri indispensabili alla vita umana e vegetale.
TRA I MODULI AGRICOLI EXTRATERRESTRI in fase di sperimentazione c’è anche la serra costruita tra i ghiacci dell’Antartide, nella base di ricerca tedesca Neumayer Station III, finanziata dall’Unione europea, mentre sulla Stazione spaziale orbitante si stanno utilizzando moduli chiusi per coltivare in assenza di gravità varietà di frumento nano, ortaggi e spezie.
Walter Cugno, vicepresidente di Thales Alenia Space, centro torinese di eccellenza mondiale in campo aerospaziale, ha annunciato che i risultati della loro serra pilota in Antartide sono molto promettenti. Visto che nello spazio ci sarà bisogno anche di carboidrati e proteine, si lavora anche al frumento tenero e duro, al riso, alla soia e alla patata.
«REBUS» INVECE È UN PROGETTO PER REALIZZARE sistemi biorigenerativi, coordinato e finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), al quale partecipano, tra gli altri, Enea, Cnr, Thales Alenia e le Università di Tor Vergata, Pavia e Federico II di Napoli, quest’ultima nel ruolo di capofila. Il sistema biogenerativo è basato sull’integrazione di diversi organismi come piante, funghi, batteri e cianobatteri, in modo da massimizzare l’uso delle risorse disponibili in situ e minimizzare contemporaneamente l’impiego di quelle esogene, riciclando la materia organica prodotta.
I SUOLI PLANETARI, HA SPIEGATO LA RESPONSABILE del progetto Stefania De Pascale, verranno utilizzati come substrato di coltivazione e i rifiuti della missione – residui di coltivazione, feci e urine – come fertilizzanti o biostimolanti, per produrre vegetali freschi, che potrebbero persino essere usati per contrastare malattie degenerative indotte da fattori spaziali, come le radiazioni.

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