martedì 9 giugno 2020

Conte e il fantasma del ponte - Marco Revelli



C’era da scommetterci. È bastato che si sentisse il profumo dei soldi, solo il profumo per ora – che dall’Europa si profilasse un bel pacco di miliardi – perché il solito fantasma ritornasse ad aggirarsi nel sottobosco della nostra politica: il fantasma del ponte. Il sogno di tutti gli scialacquatori del pubblico denaro e l’incubo di tutti i cittadini ben informati. Il Ponte sullo stretto, s’intende, quel gigantesco maelstrom che finora ha divorato, rimanendo sempre nel suo stato fantasmatico, visibile solo come rendering, un miliardo di euro. Gemello, in questo, di quell’altra Grande Opera Criminale che è il TAV Torino-Lione.
Inopinatamente, presenza surreale in un’Italia segnata dai lutti del Covid-19 e angosciata dalle ombre del proprio futuro economico, quello spettro è rientrato nel dolente scenario politico nostrano per la porta principale, da palazzo Chigi addirittura, in un’esternazione del Presidente del Consiglio Conte. Per la verità si è trattato appena di un sussurro. Giusto un impercettibile movimento dell’aria come quelli che annunciano i fantasmi allo stato embrionale: quattro parole appena, “Lo valuterò senza pregiudizi”, in risposta a una domanda diretta. Ma tanto è bastato a Repubblica – che non sogna altro che vederlo morto quel governo – per lasciarsi andare a un trionfante “Benvenuto tra gli innamorati!” e sparare a tutta pagina il titolone Anche Conte sedotto dal ponte sullo stretto.
Sul Fatto – solo sul sito del Fatto – abbiamo potuto leggere e ascoltare l’intera frase pronunciata in quella sede dal Presidente del Consiglio, che suona in realtà così: “Non voglio declamare opere immaginifiche. Non a caso ho parlato di una rete infrastrutturale-viaria che è inaccettabile. C’è tanto da fare (i collegamenti sulla costa Ionica della Basilicata, il binario unico tra Roma-Pescara-Lecce, l’Alta Velocità a Venezia, per non parlare della Sicilia) e quando avremo la possibilità di programmare e realizzare i progetti che ho citato) mi sederò a un tavolo e senza pregiudizi valuterò anche il ponte sullo Stretto“. Difficile leggervi un colpo di fulmine da innamorato. Ma tant’è. Il guaio era fatto, con lo sdoganamento del mostro che ha potuto così fare ritorno impunemente tra le pieghe dell’Agenda politica.

Possiamo anche immaginare le ragioni tattiche che hanno dettato quella “diplomatica” ammissione. La necessità di alleggerire la pressione renziana dall’interno della coalizione, col Bullo di Rignano sempre pronto a cercarsi col lanternino le peggiori cause su cui condurre la propria personale guerriglia. L’illusione di placare la furia del mastino di Baskerville che da neo-presidente confindustriale, non pago dei disastri prodotti nella sua regione con i diktat sulle riaperture, aveva da poco lanciato il suo anatema contro un governo che “ha fatto peggio del virus”, sperando di accaparrarsi tutto il tesoretto in arrivo da Bruxelles con una nuova coalizione di “amici”. Forse anche un ballon d’essai lanciato a Berlusconi, come possibile ruotino di scorta di una maggioranza risicata… Tutto possibile: questo è oggi la politica… Resta tuttavia il fatto che Giuseppe Conte ha fatto male, malissimo, a lasciare aperto anche solo uno spiraglio. Quello spiraglio. Che finisce per avvicinare pericolosamente l’”avvocato del popolo” ai tanti avvocati dei “nemici del popolo”, che da anni, decenni, brigano con carte bollate, manovre sotterranee, campagne di stampa, manovre parlamentari sotterranee, occultamento di conti e bilanci, per tenere in vita quel cadavere che ormai da 35 anni ci ammorba.
La cosa era incominciata nell’altro secolo, nel 1981 (!), con la nascita della “Società Stretto di Messina” di cui la Corte dei Conti ha sancito lo scioglimento avviandone la procedura di liquidazione e, nel contempo, calcolandone i costi sostenuti: una cifra enorme, costituita da un costante esborso di 10 milioni di euro all’anno per sole spese amministrative e gestionali (gettoni di presenza, personale di segreteria, emolumenti di rappresentanza), oltre all’interminabile lista di spese per studi di fattibilità, consulenze milionarie, progettazione, monitoraggio del nulla, analisi geognostiche (una lista che chi ha seguito la vergognosa vicenda del TAV in Val di Susa conosce bene). Nel ventennio che va dal 1981 al 2001, dice la Corte, sono stati spesi 74milioni e 443mila euro “per studi di fattibilità, ricerca e progetto di massima”. Nel biennio successivo (2002-2003) altri 91milioni e 246mila euro se ne sono andati ancora per “il progetto preliminare e gli atti di convenzione”. In un solo biennio (2004-2006) sono stati buttati ben 147 milioni “per la gara di appalto, il piano finanziario, i sistemi informativi e gestionali”. Poi l’attività è stata sospesa per due anni, tra il 2007 e il 2008, ma i costi paradossalmente sono saliti a un ritmo ancora maggiore: 160 milioni e 662mila euro!!! L’anno successivo si è messo mano alle “attività per gli accordi con i contraenti”, all’aggiornamento delle convenzioni e si è avviato il piano finanziario terminate l’anno successivo, con una spesa di 172milioni e 637mila euro. In ultimo – in fine velocior – tra il 2010 e il 2013, sono stati gettati, tra Scilla e Cariddi, oltre 312 milioni per “la stesura del progetto definitivo, il monitoraggio ambientale, l’aggiornamento del piano finanziario e la stipula dell’atto aggiuntivo”. Tutte cose INUTILI, perché nello stesso anno, nel 2013, si è proceduto d’ufficio allo scioglimento della società, che non è stato, neppure quello, privo di oneri, anzi è costato 5 milioni e mezzo di euro finiti nelle tasche dei soliti avvocati dei “nemici del popolo”. La somma finale a tutto il 2017 ammontava a 958 milioni e 292mila euro…

Per questo, di quel Ponte sul nulla non bisognerebbe proprio più parlare. Decenza vorrebbe che non venisse neppur più nominato. Anche perché – bisognerebbe dirlo al premier – porta sgarro. Una breve occhiata alla storia ci dice che chiunque l’abbia evocato o rievocato, è finito male (politicamente parlando, s’intende). L’aveva varato Bettino Craxi, al culmine della sua potenza, nel 1985 quando nella sala delle Repubbliche marinare di Palazzo Chigi, siglò “in forma solenne la convenzione per la realizzazione dell’opera, davanti a numerosi ministri e alla nomenklatura siciliana” dichiarando: “Entro il 1994 il ponte sarà ultimato”. Poco dopo incominciò il suo declino. Nel 2001 sarà Berlusconi, con un “Pronti, via!” gridato dagli scogli davanti al mare, a sponsorizzare l’opera inserendola tra le prime opere della famigerata legge-obiettivo e assicurando che nel 2012 sarebbe entrata in funzione (è uscito da ogni funzione pubblica prima lui). Ci aveva riprovato nel 2016 Matteo Renzi, su assist dell’allora suo ministro dell’interno Alfano, con un impegnativo “Se siete pronti noi ci siamo”. Prima il ministro, poi il premier non ci sono più stati (nelle stanze dei bottoni).
Scherzi a parte. Ci sono molte buone ragioni per cancellare dal nostro orizzonte un’opera che, esattamente come il TAV in Val di Susa, è costosa (il suo costo era già valutato dieci anni fa intorno agli 8-9 miliardi di euro, quasi un punto di Pil), inutile (gli studi più accreditati dicono che il traffico prevedibile non supererebbe l’11% della portata), dannosa (come denuncia il WWF “va ad incidere su un’area ampiamente vincolata per gli straordinari valori paesaggistici e severamente tutelata dall’Unione Europea”). La sua riesumazione, anche solo in via ipotetica, come possibile voce di una possibile agenda politica, sarebbe un pessimo segnale su quanto ci aspetta nella fase che segue la tragedia del Covid-19. Una dichiarazione tombale che “cambiare non si può”.

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