In tema di sostenibilità e di ambiente, si sa, la
retorica ha ampio spazio. Dopo decenni di negazionismo palese e oggi
strisciante la questione climatica è assurta all’onor delle cronache e se ne
parla spesso sui giornali e in televisione. Ultimamente poi, per chi sottovoce
continua ad esser dubbioso sul fatto che la nostra specie possa davvero
provocare mutamenti globali, si è incaricato messer Covid-19 di spiegare come
stanno le cose: la pianura padana (e la città di Torino), immersa in una coltre
di polveri e di gas non precisamente salutari, a seguito di una dozzina di
settimane di blocco ha visto migliorare macroscopicamente la qualità della sua
aria; a scala globale il tasso di immissione di CO2 in
atmosfera si è ridotto, a oggi, di circa un quarto (vedremo a fine anno); il
giorno in cui l’umanità arriva ad aver consumato tutte le risorse rinnovabili
disponibili quell’anno sul pianeta (overshoot day), che era arrivato a
collocarsi tra fine luglio e inizio agosto, è ora risalito al 22 agosto; e così
via.
Su questo sfondo politica e istituzioni non potevano
continuare a ignorare il problema e così “l’ambiente” è entrato nei programmi e
nei proclami (non proprio di tutti, ma quasi). Anche le organizzazioni
imprenditoriali hanno sposato l’ambiente, principalmente perché hanno
verificato che il marchio “green” si vende bene. Lungi dal modificare alcunché
nell’approccio di sempre alla produzione e al consumo i messaggi promozionali
sono zeppi di “sostenibilità”, cura dell’ambiente e quant’altro.
La realtà è che (è il caso di ricordarlo) dal punto di
vista climatico l’umanità è alla vigilia di un possibile tracollo causato
dall’impatto sui complessi equilibri dell’ecosfera terrestre. Non è un modo di
dire; è una ragionevole (dal punto di vista scientifico) previsione così come
quella riguardo alla probabile comparsa di pandemie che circolava, sempre negli
ambienti scientifici, già da qualche anno. Possono sempre accadere eventi
inattesi, ma di una infinità di fatti che in passato sarebbero stati attribuiti
al “caso” o al “destino” (se non a qualche divinità irata o capricciosa) oggi
si conoscono cause e origine. Insomma, un buon numero di disastri oggi potrebbe
essere prevenuto o quantomeno attenuato negli effetti promuovendo un
sufficiente livello di resilienza. Il problema è che, per incrementare la
resilienza e prevenire i disastri, non bastano salvifiche (e magiche, quanto
impossibili) novità tecnologiche: occorre mettere mano al modo stesso in cui i
rapporti economico-sociali tra di noi sono organizzati. E qui vengono le
complicazioni.
Il virus ha di botto comportato un drastico ridimensionamento
degli spostamenti aerei, il che è positivo visto che il mezzo aereo è il più
impattante sulla composizione dell’atmosfera: ma ci sono migliaia di
lavoratori, che, nel brusco cambiamento, rischiano di perdere i titoli per
accedere a ciò che tutti gli altri producono. Ci sono in giro troppe
automobili: la qualità dell’aria in ambito urbano e in tutta la pianura padana
è come minimo scadente; le nostre città sono intasate di traffico e
ipercongestionate. Ma migliaia e migliaia di lavoratori devono il loro potere
d’acquisto alla produzione di autovetture. Migliaia di famiglie, anche in
Italia, hanno un reddito legato alla produzione di armi che servono per
uccidere e distruggere: se smettiamo di produrle, come dovremmo, quelle
famiglie perdono il diritto di accedere ai beni prodotti da tutti gli altri. E
così via. Insomma, occorre cambiare la struttura di un sistema complesso ma
qualsiasi cosa si tocchi ha ripercussioni sull’intero sistema. Detto in altri
termini non bastano singoli provvedimenti ma ci vuole una politica,
cioè un progetto complessivo di medio/lungo termine.
E qui torniamo alle istituzioni e alla “politica”,
quella degli addetti ai lavori, che si trova in mezzo. In mezzo a spinte e
controspinte contraddittorie, che si traducono in scelte in certa misura
schizofreniche fatte guardando ad orizzonti a corto o cortissimo termine.
Se prendiamo la scala europea, troviamo intenzioni
dichiarate e provvedimenti proposti molto interessanti: il “Green Deal” e una
“Climate Law”, oltre a una serie di direttive indirizzate agli Stati membri e
intese a promuovere una politica energetica basata sulle fonti rinnovabili e il
sostegno alle comunità dell’energia. Tutto ciò è positivo, ma bisogna
assicurarsi che tutte le scelte che competono all’Unione Europea,
nonché quelle degli Stati membri, siano coerenti. Al momento il Green Deal è
una dichiarazione di intenti che individua un elenco di azioni da intraprendere
al fine di conseguire una serie di obiettivi ambiziosi e importanti che, tutti
insieme, dovrebbero portare entro il 2050 alla “neutralità climatica”, cioè
ad azzerare le immissioni nette di gas serra in atmosfera da
parte dell’Unione. L’azzeramento sarebbe il risultato di una combinazione di
abbattimento di emissioni e di attivazione di processi di rimozione della CO2 dall’atmosfera,
che compensi le emissioni residue. Il Green Deal poi indica una quantità di
altri obiettivi volti alla sostenibilità ambientale da ogni punto di vista.
Nella tabella di marcia delle azioni del Green Deal è
prevista la presentazione di una legge europea sul clima. Legge che è stata
effettivamente presentata ed è ora al vaglio degli organismi dell’Unione nel
complesso iter che dovrebbe portare alla sua approvazione. Se si legge il testo
si vede che, anche in questo caso, la legge fissa una quantità di obiettivi
volti alla mitigazione del mutamento climatico globale. Oggi l’Europa si è
impegnata, a seguito degli accordi di Parigi del 2015, a ridurre, entro il
2030, le proprie emissioni di gas serra (generalmente ci si esprime in termini
di CO2 equivalente) del 40% rispetto al livello del 1990. La
legge sul clima porta quel limite al 50% o 55% sempre entro il 2030, il che è
coerente con l’urgenza del problema. Il testo però in generale non dice come l’obiettivo
dovrebbe essere conseguito: il come è competenza dei singoli Stati che sono
però comunque tenuti ad agire. Verosimilmente questo approccio è quello
consentito dagli ordinamenti europei, che non intervengono direttamente, ma
tutt’al più sanciscono o sanzionano il raggiungimento degli obiettivi. Vi è
però una leva molto importante attraverso la quale l’Unione può intervenire nei
confronti degli Stati membri: quella dei finanziamenti.
L’Europa, nel suo bilancio, stanzia dei fondi a
sostegno degli obiettivi che ritiene debbano essere perseguiti. Per accedere a
tali fondi bisogna dimostrare che il progetto presentato abbia determinati
requisiti e che la sua realizzazione segua determinate regole. Ora, venendo
alla questione climatica, c’è un requisito fondamentale da cui non si può
prescindere: l’opera, l’intervento, l’attività proposta alla fine deve produrre
una riduzione delle emissioni di CO2, certamente
non un aumento; e la valutazione della credibilità del risultato preannunciato
deve essere fatta a priori. In pratica è necessario effettuare preventivamente
sul progetto una analisi del ciclo di vita (LCA: Life Cicle Assessment)
e, in specifico, dell’impronta del carbonio e l’analisi deve riguardare, quando
si tratta di un’opera, sia la fase di realizzazione che, poi, quella di
funzionamento. Naturalmente tale analisi preventiva non può
essere fatta da chi propone l’opera, ma deve essere effettuata da un soggetto
terzo qualificato (centri di ricerca pubblici) e deve essere pubblica e
discutibile in contraddittorio, sempre in forma pubblica. L’idea è semplice: se
l’esito dell’analisi dice che alla fine le emissioni di gas serra si
ridurranno, allora si passa a considerare altri parametri, come quelli della
convenienza economica (costi/benefici tradizionale); se risulta che le
emissioni non si ridurranno, il finanziamento non viene
concesso. Anche nel primo caso naturalmente l’ente finanziatore non potrà
esimersi dal monitorare che le cose siano poi fatte come preventivato e che il
risultato sia effettivamente conseguito.
Lo scorso 3 giugno un gruppetto di parlamentari
europei[1] ha
depositato una proposta di emendamento alla legge sul clima ispirato a quanto
sopra. Il testo dell’emendamento è meno netto della formulazione che ho
illustrato, ma si va nella direzione giusta. Vedremo ora come si regolerà il
Parlamento europeo.
E l’Italia? Anche qui da un lato le intenzioni
espresse a livello governativo sono positive, anche se non ci sono obiettivi e
scadenze (potrebbero valere quelli europei) e si richiama ampiamente la
sostenibilità e l’economia circolare; dall’altro la ricetta presentata per la
“ripresa” ricalca gli schemi tradizionali. In particolare sembra sempre essere
ben presente la “magia del cemento”: aprire cantieri comunque e dovunque, poco
importa per cosa. Il fatto è che il cemento ha due caratteristiche: a) la
sua vita utile è limitata; b) anche solo per produrlo porta a
una emissione di CO2 in misura pari o leggermente superiore al
peso del cemento prodotto. Non insisto qui sulla schizofrenia tra la
sostenibilità e la logica della crescita. Posso limitarmi a osservare che
sarebbe opportuno introdurre qualche “misuratore di coerenza” tra opere e
obiettivi. Nel nostro ordinamento sono già previste le valutazioni d’impatto
ambientale con aggettivazione varia. Sono, a rigore, onnicomprensive, ma quanto
risultino alla fine dirimenti in sede decisionale non è ben definito.
Recentemente è stato anche proposto di inserire in Costituzione ambiente e
sostenibilità. Ottima cosa, ma restiamo nell’ambito dell’affermazione di
principi; il quotidiano poi va in tutt’altra direzione.
Ci sarebbe, anche qui, bisogno di una norma generale
chiara e specifica per quanto riguarda le emissioni di gas climalteranti, che
preveda un’analisi indipendente di qualsiasi opera o
intervento il cui esito risultasse vincolante. Ci sarà qualcuno che si farà
carico di proporla?
[1] I parlamentari sono: Eleonora Evi, Ignazio Corrao, Daniela
Rondinelli, Piernicola Pedicini, Rosa D’Amato, Mario Furore (Movimento 5
Stelle); Marie Toussaint, Tilly Metz (Verdi europei); Manuel Bompard, Leila
Chaibi, Anne-Sophie Pelletier (Sinistra Unitaria Europea).
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