mercoledì 17 giugno 2020

La pandemia rilancia sas biddas e il comunitarismo - Luca Sedda



Da tempo gli scienziati ci avevano avvertito che alcune caratteristiche di questo onnivoro sviluppo – la globalizzazione piuttosto che l’estrema concentrazione dell’umanità nei centri urbani – avrebbero favorito le pandemie, la devastazione della natura e altri processi pericolosi per lo stare al mondo.
Questi erano temi politici caldi anche nei primi anni 2000. C’era il Movimento dei Movimenti, c’erano i NoGlobal, c’erano i Social Forum e risuonava uno slogan che oggi torna ad avere un senso gigantesco: Un Altro Mondo è Possibile. Uno slogan che viene da lontano, un eterno ritorno dell’uguale.
Quell’umanità in fermento fu repressa, con violenza da un lato e meccanismi di condizionamento dall’altro. Così spararono sui manifestanti e immisero nel sistema una piazza virtuale facilmente controllabile. Il mondo si prese paura e ci si tuffò con entrambi i piedi. L’illusione di un allargamento delle liberta di espressione (a distanza di sicurezza dalle manganellate), della condivisione dei mezzi di comunicazione e dei contenuti non portò agli esiti sperati.
La rivoluzione rimase tecnologica e virtuale e sfociò, per essere caustici, in aperitivi in video chiamata in quarantena.
Nei primi 2000, dicevo, quei movimenti agitavano anche i paesi e a Gavoi si muoveva il Collettivu Barbagia Reverde che del riscatto delle piccole comunità rurali, della valorizzazione delle culture, della partecipazione dal basso alternativa alla mediazione dei partiti, della scelta politica e esistenziale comunitarista faceva la propria bandiera.
Bandiera che oggi, fra le innovazioni politiche di un ventennio, continua ad alzarsi attraverso il movimento Comunidade che, tra l’altro, amministra (assieme ai cittadini) dal 2015 il paese.
La cultura sarda-nuragica – ricordava Eliseo Spiga in un convegno gavoese – era profondamente anti-urbana. Noi sardi non fondammo città (lo fecero poi i tanti colonizzatori sopraggiunti) ma una fitta rete di villaggi interconnessi che, beghe di campanile neutralizzabili a parte, sapevano muoversi all’unisono verso il mondo.
Oggi sentiamo tornare il vento dei paesi.
La problematicità dell’insediamento urbano, delle megalopoli, è esplosa nel modo peggiore.
La pandemia, la quarantena delle persone rinchiuse nei palazzi o impegnate in lunghe file mascherate fuori dai centri commerciali ci hanno mostrato scenari che dai paesi abbiamo visto sfumati (benché spaventosi) e ai quali abbiamo riflettuto, mentre andavamo a passo lento verso l’orto piuttosto che a badare a piccole fattorie familiari, a fare la spesa a sa butega o mentre sfogliavamo un libro nel nostro cortile abadiande a Gennargentu. Un’altra quarantena, infatti, è possibile.
Anche i dati del contagio ci hanno voluto restituire, una volta tanto, un senso di maggiore sicurezza e salubrità.
“Il rapporto tra città e campagna: ecco qualcosa che la pandemia avrà il potere di mutare radicalmente”. E rispetto alla politica questo rapporto tornerà ad essere di conflitto dialettico.
Sta a noi de sas biddas, al nostro esempio, evidenziare le contraddizioni della città come centro del potere, come centro dell’economia. Sta a noi favorirne la crisi per il bene stesso della città e dei paesi.
Da questo rapporto dialettico passa la lotta contro lo spopolamento.
Quanta consapevolezza ci restituirà, dunque, il vissuto, con i suoi effetti sociali ed economici, di questa pandemia? Cosa ci dice dell’ortodossia liberista mondiale nel momento in cui il mondo liberista si aggrappa allo Stato per avere indennizzi e sovvenzioni?
Intravvediamo uno spazio per un umanismo solidale ed egualitario e per un comunitarismo universalistico che dettino il ritmo al processo educativo della politica e che ci portino ad affrancarci dalla monocultura del profitto.
La pandemia potrebbe averci insegnato a diventare partecipanti migliori alla realtà.
Certo le prime immagini della riapertura, con i consumatori in fila per raggiungere un MacDonald’s, non fanno ben sperare. Ma decondizionamento, decolonizzazione, emancipazione sono processi infiniti.
Sta a noi de sas biddas decidere di usufruire delle botteghe di vicinato, degli operatori economici dei paesi, favorendo il contatto diretto e personale, la vitalità, la restanza o la nuova cittadinanza in quei paesi stessi. Sta a noi favorire percorsi di disintossicazione dalla spersonalizzazione dei centri commerciali, non luoghi per eccellenza.
Quindi la costruzione ricominci dai pilastri. È necessario invertire la rotta di questo sviluppo che non è progresso umano: retrocedere rispetto alle megalopoli, al consumo del suolo, alla distruzione della biodiversità e della diversità culturale.
Serve immaginare un mondo nuovo. E non è vero che è tutto da costruire: una nuova forma di convivenza è già da tempo progetto. Un progetto de sas biddas che spesso è stato sconfitto con la reazione muscolare dei partitocrati e dei poltronisti di città che ai paesi tagliano la rappresentanza.
Ma è un progetto che resiste e che (in Sardegna e in altri mondi) ha vulcani attivi nei piccoli comuni e in quelle amministrazioni affrancate dalle segreterie partitiche, ma non dai valori profondi della politica.
La proposta avanzata da Anci Sardegna nel febbraio scorso “La primavera dei Paesi” Legge Quadro per il progresso, la tutela, la valorizzazione dei paesi e delle comunità, delle aree interne e rurali. Azioni di salvaguardia del pastoralismo e del sistema agropastorale della Sardegna, va a lavorare su questi pilastri. È un’ottima traccia su cui confrontarsi e, mentre affrontiamo la pandemia, acquista ancora maggior senso e urgenza di essere approfondita.
Quel progetto de sas biddas, quindi, non ha bisogno di archeologi, per essere riscoperto, ma di cittadini sardi attivi che riescano ad abbandonare la propria identità individuale per sposare identità collettive.
Quale strada intraprendere? Ributtarci nella mischia del lavoro (per chi ne ha ancora uno) e del consumismo, con la foga dell’astinenza, o fermarci e guardare verso nuove alternative reali?
Mentre i soloni dei convegni sullo spopolamento delle zone interne sono inesorabilmente residenti a Cagliari, a Sassari, a Milano o in seconde-terze-quarte case marittime, noi eretici del comunitarismo un nuovo mondo lo stiamo costruendo, con scelte esistenziali e politiche, con il nostro essere, stare e resistere in Barbagia.
Il comunitarista nel suo luogo d’identità collettiva vive, acquista, fa associazionismo, incontra, fa politica, combatte, sorride… e viaggia oltre per tornare migliore.
Non si tratta di coltivare la retorica del sentimentalismo comunitario, né di un ritorno ad una inesistente età dell’oro, ma di scegliere, con la vita di paese, la pratica di un progetto di rinascita personale e sociale, una rivoluzione permanente verso una comunità libera e aperta all’incontro con gli altri e alla costruzione di sempre più ampi spazi di solidarietà, di legami. Tutto questo è già nell’8 settembre ‘81 di Maria Lai.
Per tornare pratici, il lavoro agile di questi tempi, su traballu dae domo, dà una mano a molti a rivivere, rivedere e rivitalizzare il paese. Per le piccole comunità potrebbe essere una delle vie produttive, in risposta all’aggressione dello spopolamento.
Se riscatto deve essere per il mondo rurale, se progresso deve essere per queste comunità, deve nascere da una confederazione dei villaggi (che ha semi già ampiamente diffusi: le Unioni dei Comuni, i Gal, i consorzi, i distretti…). Una comunità di comunità, perché, per dirla con Roberta Leone: cos’altro è la comunità se non una con-divisione, tra diversi, in un medesimo progetto?
E allora potremmo addentrarci davvero, in piena sicurezza sanitaria, nell’alternativa-paese, per la vita, per il lavoro, per la produzione compatibile con le realtà naturali e culturali e, perché no, anche per le vacanze. Perché anche un’altra vacanza è possibile.
Le spanciate in mare sardo di Sala e conterranei dovrebbero aspettare.
Anche il turismo inizialmente lo dovremo agire noi: un turismo di prossimità.
Albino Russo, capo Ufficio Studi di Coop immagina che “la paura del contagio e la stretta economica, che seguirà al Coronavirus, potrebbero portare i viaggiatori a prediligere luoghi poco frequentati, tranquillità e contatto con la natura. Potrebbe essere un toccasana economico per le aree rurali dimenticate dalla globalizzazione. Più soldi investiti in negozi alimentari e artigianato locale. E proprio in quei luoghi si cercherà di recuperare quella socialità perduta, con cene tra amici o piccoli ritrovi nei bar di paese…”.
I nostri paesi sono e possono offrire tutto questo.
È una questione di consapevolezza alla quale dobbiamo restituire forma.
Solo una profonda etica rivoluzionaria può portare a ri-forme (di senso).

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