COVID-19 E (CO)FATTORI AMBIENTALI,
SOCIALI E ALLEVAMENTI INTENSIVI - Gian Luca Garetti
(Riceviamo e rilanciamo da Gian Luca Garetti, Vice
Presidente di Medicina Democratica – sezione di Firenze – per gentile
concessione di
https://www.perunaltracitta.org/2020/04/13/chi-e-cosa-aiuta-il-coronavirus/)
Cofattori
del Sars-cov-2
Questa pandemia è come un terribile romanzo giallo,
ambientato nel Capitalocene, in cui il colpevole è il coronavirus sars-cov-2,
l’arma del delitto sono le mutazioni maligne delle famose proteine spike, che
permettono al virus di agganciarsi alle cellule umane, di penetrarvi e poi di
replicarsi e diffondersi. Le vittime sono i più anziani, quelli più in basso da
un punto di vista socioeconomico, gli operatori sanitari. C’è poi una cupola di
personaggi secondari, i cosiddetti cofattori, che in vario modo contribuiscono
al delitto, cioè al diffondersi ed all’esacerbarsi della malattia. In questo
articolo ci occuperemo in particolare delle interconnessioni, dei collegamenti
trasversali che ci sono fra l’inquinamento atmosferico, la fame di proteine
animali e questa pandemia.
Il cofattore inquinamento atmosferico
Precedentemente abbiamo commentato alcuni studi scientifici che parlano dell’inquinamento atmosferico come cofattore di Covid-19, sia a livello di diffusione https://www.perunaltracitta.org/2020/03/18/piu-particolato-piu-covid-19/ che di aggravamento della pandemia https://www.perunaltracitta.org/2020/03/16/non-andra-tutto-bene/ Qui ne esamineremo altri due, pubblicati di recente nella letteratura scientifica, che mettono in evidenza come il Pm2,5 renda più vulnerabili e esacerbi gli effetti di Covid-19.
Il primo studio , https://projects.iq.harvard.edu/covid-pm condotto dall’italiana Francesca Dominici, insieme ad altri ricercatori della Harvard TH Chan School of Public Health di Boston, ha collegato l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico, cioè le zone in cui c’è stato negli anni un elevato livello di particolato, con la mortalità per Covid-19. Sono state prese in esame 3000 contee statunitensi, fino al 4 aprile, coprendo il 98% della popolazione.
E’ risultato che all’aumento di solo 1μg / m3 di PM2,5 è associato un aumento del 15% nel tasso di mortalità di Covid-19 (una evidenza statisticamente significativa).
Secondo questo studio l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico rende molto più vulnerabili al verificarsi degli esiti più gravi del Covid-19. Rafforzando quanto era stato affermato in uno studio riferito al coronavirus del 2003 https://ehjournal.biomedcentral.com/articles/10.1186/1476-069X-2-15 ,cioè che i malati di SARS che abitavano nelle regioni con qualità dell’aria peggiore presentavano un rischio di morte dell’84% più alto.
L’elevato livello di inquinamento cofattore dell’alto livello di mortalità nell’Italia del nord.
‘L’inquinamento atmosferico può essere considerato un co-fattore di mortalità SARS-CoV-2 nel Nord Italia?’ È il titolo del secondo studio https://doi.org/10.1016/j.envpol.2020.114465 condotto da un gruppo di ricercatori italiani dell’Università di Siena e della Aarhus University (Danimarca) che così termina: ‘Concludiamo che l’elevato livello di inquinamento nell’Italia settentrionale dovrebbe essere considerato un ulteriore cofattore dell’alto livello di mortalità registrato in quella zona’. L’inquinamento atmosferico, comprometterebbe la prima linea di difesa dell’organismo costituita dalle cellule epiteliali che rivestono le mucose e dal muco secreto dalle cellule caliciformi (goblet cells), delle vie aeree superiori. Così che all’arrivo delle particelle virali SARS-CoV-2 sulle superfici delle mucose respiratorie, la proteina spike avrebbe facilitato l’attracco, la fusione, l’ingresso e poi la replicazione della particella virale all’interno delle cellula. Alla morte cellulare, seguirebbe la liberazione di milioni di nuove particelle virali e la diffusione del virus nell’organismo.
Altri cofattori favorenti il surplus di letalità nel Nord Italia, sono:
a) la privatizzazione ed il progressivo indebolimento del Sistema sanitario nazionale, minato dall’aziendalizzazione e da decenni di politiche liberiste; b) la mancanza di una strategia seria di protezione degli operatori sanitari (sono già morti più di 100 medici e non è finita) e degli ospedali; c) la mancanza di corretta informazione (mascherine si, mascherino no) e di ricerca attiva dei casi (tamponi si, tamponi no); d) il tardivo lockdown del governo e) il diverso modo di riportare il numero di decessi e infezioni tra i vari paesi; f) la vecchiaia della popolazione italiana.
Un effetto positivo: l’aria è più pulita perchè calano gli ossidi di azoto
Le prime osservazioni dell’Agenzia europea per l’ambiente (AEA) e delle varie ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente) concordano sul fatto che l’impatto della assenza di auto, sulla qualità dell’aria, è stato caratterizzato da un calo delle concentrazioni di biossido di azoto (NO2), ascrivibile al traffico veicolare, in particolare ai motori diesel.
Picchi di particolato transfrontaliero e di particolato secondario
L’effetto del particolato (PM) è più difficile da decifrare data la complessità della sua origine. In questo periodo si sono avute in tutta Italia impennate di particolato, riconducibili alla avvezione di polvere del deserto del Caucaso, o del Nord Africa. Mentre in Lombardia, nella Pianura padana in genere, è stata predominante la componente secondaria del particolato, costituita da nitrato e solfato di ammonio, proveniente dallo spandimento sul terreno dei liquami zootecnici degli allevamenti di bovini e di maiali. In Lombardia ce ne sono più di 4 milioni, di maiali. In Cina, che è il più grande produttore di maiali del pianeta, se ne stimano circa 440 milioni.
Suinifici cinesi devastanti cofattori di Covid-19
La provincia cinese dell’Hubei, è una vera e propria fabbrica di epidemie. In questo marzo 2020, vi si è verificato anche il primo focolaio dell’anno di peste suina africana (PSA), denominata in inglese (ASF) african swine fever. E’ una malattia virale, letale, non trasmissibile agli esseri umani, che colpisce suini e cinghiali, che si possono contagiare per contatto o attraverso l’ingestione di carni infette. Non esistendo vaccini né cure, per frenare il contagio non resta che uccidere tutti i casi conclamati e sospetti e sorvegliare le frontiere. La malattia ha gravi conseguenze socio-economiche, che possono essere state decisive nello spianare la strada a Covid-19, vedi poi.
“Big Farms Make Big Flu” (le mega-fattorie producono macro-influenze).
E’ il titolo di un noto libro del biologo Robert G. Wallace, pubblicato nel 2016. Un libro importante perché traccia la connessione tra i modelli della produzione capitalista di bestiame e l’eziologia di quelle epidemie zoonotiche, come SARS e MERS, esplose negli ultimi decenni, che sono state trasmesse dagli animali agli esseri umani, cioè che hanno fatto il ‘salto di specie’, come è successo anche per il Covid-19.
Nel Gabon si proteggono i gorilla dall’uomo
Dopo che nel 1995 l’epidemia di Ebola decimò la popolazione dei gorilla di oltre il 90%, il governo del Gabon ha deciso di proteggere i gorilla dal contagio dell’uomo, vietando l’ingresso dei turisti nei parchi e mettendo in quarantena il personale che vi lavora. Ha inoltre deciso di vietare la vendita e il consumo di pipistrelli e pangolini. Lì vivono molti cinesi. In Gabon al momento ci sono solo 21 casi di Covid-19.
Metà dei maiali allevati nel mondo sono cinesi
La Cina concentra nel suo territorio il maggior numero di “landless systems” (sistemi senza terra), fabbriche di morte, macro sfruttamento di allevamenti in cui si stipano migliaia di animali, che possono diventare laboratori viventi di mutazioni virali poi suscettibili di provocare nuove malattie e epidemie. L’allevamento industriale erodendo sempre più l’habitat delle specie selvatiche, oltre a metterne a rischio la biodiversità, ha favorito le possibilità di contatto tra la fauna selvatica (pipistrelli, cinghiali etc) e il bestiame, maiali in particolare. Ricordiamo per esempio, la Sindrome della Diarrea Acuta Suina (SADS-CoV), del 2016, sempre in Cina, che fu provocata da un nuovo coronavirus, trasmesso dai pipistrelli.
Gli animali allevati nel mondo sono più di tre volte degli esseri umani
L’allevamento degli animali ha proporzioni gigantesche, stimate in 3,5 volatili e 0,5 mammiferi da carne rossa (come vitelli e maiali) allevati ogni anno per individuo. Per il day after: bisogna cambiare, da subito, l’attuale ciclo della produzione alimentare, verso una svolta zoe-egalitaria, che ci impegni a relazioni più etiche ed eque con gli animali (vedi Rosi Braidotti, Il postumano, DeriveApprodi,Roma 2014).
Per proteggere l’ecosistema mondo è indispensabile indirizzare la nostra dieta verso le proteine vegetali, la cui produzione non uccide nessuno, non fa correre rischi pandemici, non contribuisce al disboscamento di aree ecologicamente importanti come la foresta amazzonica, non inquina le falde acquifere e l’atmosfera, non produce antibiotico-resistenza, né malattie cronico-degenerative, non ha un consumo d’acqua spropositato, non aggrava il cambiamento climatico:
‘Le emissioni di CO2, per grammo di proteine sono almeno 20 volte minori per i legumi, rispetto alla carne ed il consumo di acqua nella loro produzione è 5-6 volte minore’ ( vedi P. Vineis et al, Prevenire, Einaudi, Torino 2020)
Il 2019 l’anno del maiale, della PSA e del Covid-19
Nel 2018 partì dalla Cina un’ epidemia di peste suina africana (PSA), per la responsabilità della industria dell’allevamento, che devastò le fattorie cinesi e si propagò nel mondo. Il 5 febbraio 2019 si è celebrato, secondo il calendario cinese, l’inizio dell’anno lunare dedicato al maiale, segno zodiacale tradizionalmente associato a ricchezza, prosperità ed abbondanza. Incurante di ciò la peste suina africana ha sterminato i maiali cinesi, costringendo la Cina all’importazione di carne di maiale (dagli Stati Uniti, dall’Europa e dall’Italia etc.) facendo lievitare i prezzi del mercato interno, nonostante le scorte di Stato.
La Via del maiale
La Cina ha fame di carne di maiale. E’ il primo allevatore ed il primo consumatore di maiali al mondo. Nel settembre del 2019, l’incremento del prezzo della carne suina è arrivato a + 69,3%. Proprio i prezzi alle stelle, potrebbero essere stato uno dei motivi che hanno spinto la prima vittima ufficiale da Covid19, il sessantunenne di Wuhan, morto il 9 gennaio, a frequentare il mercato della città di Wuhan, nella provincia dello Hubei, dove venivano venduti pipistrelli e pangolini. I formichieri squamosi, una specie protetta la cui vendita è illegale, molto probabilmente sono stati l’ospite intermedio, fra il pipistrello e l’uomo, che ha favorito il salto di specie.
Un altro cofattore: il negazionismo cinese
Considerato che in Cina solo il 23 gennaio è stato imposto il lockdown totale, un recente studio condotto da ricercatori dell’Università di Southampton, in Gran Bretagna, ha stimato che se la Cina avesse agito con una settimana di anticipo rispetto alla data del 23 gennaio, avrebbe ridotto il contagio globale del 66%.
Per il day after
Covid-19 non resterà un episodio isolato, se non ci libereremo dal capitalismo che stritola tutte le specie viventi negli ingranaggi dell’economia globale, se non casseremo il modello di allevamento capitalista industriale che scanna e trasforma milioni di animali in macchine fornitrici di materia prima, con impatti ambientali giganteschi sul pianeta, se non chiuderemo per sempre i ‘wet market’, barbari mercati senza regole dove animali vivi di specie selvatiche, ma anche cani e gatti, vengono macellati sul posto e acquistati per fame o per superstizione, promuovendo lo spillover zoonotico, il salto dall’animale all’uomo di nuovi agenti patogeni. In Cina sono maestri del ‘contact tracing’ che ne facciano uso per chiudere almeno questi mercati dell’orrore e delle pandemie.
Covid-19 può essere un’opportunità per progettare nuovi schemi sociali, forme di pensiero alternativi a quelli dominanti ed un modo diverso di pensare a noi stessi.
Il COVID-19 ci avvisa che più grandi sono gli
allevamenti più letali sono i virus
Nonostante le
circostanze attorno alla comparsa del COVID-19 non siano ancora del tutto
chiare, sappiamo di per certo che la causa dell’attuale pandemia è da far
risalire alla relazione che l’uomo ha con altre specie animali. Il COVID-19 è una
malattia zoonotica ‒ cioè trasmessa dagli animali all’uomo
attraverso un salto di specie detto spillover. Altre malattie di questo tipo
sono la SARS, Ebola, Zika, Mers, le infezioni da Escherichia coli,
Campylobacter e Salmonella, oltre all’influenza aviaria e a quella suina che
proliferano negli allevamenti intensivi.
Come abbiamo scritto a marzo, lo
scenario più probabile indica che il serbatoio del patogeno sia una specie di
pipistrello presente in Cina e che il COVID-19 sia arrivato all’uomo attraverso
un ospite intermedio. Quindi, a differenza dell’influenza aviaria o di quella
suina, ma similmente alla SARS, il COVID-19 non proviene da un animale in
allevamento. Nonostante ciò, è proprio lo
sfruttamento di animali in allevamenti intensivi ad avere favorito le
condizioni alla base perché il virus si spostasse dal pipistrello all’uomo.
Inoltre la puntata del 13 aprile di Report, a
cui hanno contribuito anche i nostri investigatori, ha chiarito come lo
smaltimento dei liquami animali ‒ e l’inquinamento atmosferico possano giocare
un ruolo chiave nella diffusione del virus.
Secondo l’Arpa, in Lombardia, l’85% delle emissioni di ammoniaca è causata
dagli allevamenti, nello specifico dai loro liquami, e l’ammoniaca è uno dei
principali fattori della formazione di PM10.
Gli allevamenti intensivi hanno cambiato il mercato della carne cinese
Se andiamo a
considerare le cause per cui sia avvenuto lo spillover da una specie all’altra,
un tassello che ci aiuta a completare, seppure parzialmente, il quadro è la
trasformazione del modello di produzione di carne avvenuta in Cina a partire
dagli anni ‘90, che ha colpito i piccoli allevamenti familiari e sconvolto le
aree rurali.
Come racconta Stefano Liberti nel
capitolo dedicato alla produzione di carne suina ne I signori del cibo, nella Cina di
un tempo le famiglie mangiavano carne due volte l’anno, mentre oggi il maiale
«è marchio di status ‒ mangiare carne rappresenta il segno più tangibile
dell’ascesa sociale, dell’uscita dalla miseria e dalla sussistenza». Questo ha
portato ad un’esplosione del consumo di carne: nel 1970 un cittadino cinese ne consumava in media 8 chilogrammi
all’anno, mentre oggi ne mangia cinque volte tanto.
Una delle incarnazioni più
paradigmatiche di questa trasformazione dell’industria alimentare cinese sono i CAFO (Concentrated Animal Feeding
Operations), vale a dire allevamenti su scala industriale che hanno
l’obiettivo di produrre la maggiore quantità di carne nel più breve tempo
possibile per sfamare un mercato in enorme crescita. La presenza di enormi
allevamenti industriali ha spinto fuori dal mercato i piccoli allevamenti
familiari che non hanno potuto reggere la competizione. Inoltre, dal punto di
vista geografico, gli allevamenti industriali hanno iniziato ad occupare sempre
più terra spingendo i piccoli allevatori verso zone incoltivabili, vicino
alle foreste. Motivo che ha portato molti di questi allevatori a ripiegare
verso altre attività economiche.
I wet market sono la risposta sbagliata a un’industria sbagliata
In molti hanno
quindi iniziato a cacciare animali selvatici da vendere nei “wet market”. In
alcuni casi perché considerati prelibati, in altri per motivi terapeutici – gli
organi di certi animali sono secondo la medicina cinese efficaci per la cura di
alcuni malanni.
Con l’aumentare
della presenza dell’uomo in ecosistemi dove pipistrelli e altri animali
selvatici potevano in passato vivere indisturbati, è aumentato enormemente
anche il rischio del salto della specie del virus da un animale all’essere
umano. La diffusione del COVID-19 ne
è una prova e ci dà la misura di quanto l’uomo sia parte di un ecosistema che
non bada a confini di specie, né a quelli geografici ‒ nonostante i nomi che
l’uomo dà ai patogeni, questi non sono davvero “cinesi”, “spagnoli” o di
qualsiasi altra nazionalità si cerchi di attribuire loro.
Il bene degli animali è anche
il bene per gli essere umani
Che cosa
possiamo imparare da questo? Una lezione importante è che per ridurre i rischi
della salute umana è sempre più necessario occuparsi anche di quella animale. Come raccontano Jonathan Safran Foer, autore
tra gli altri di Se niente importa. Perché
mangiamo gli animali?, e Aaron S. Gross sul The
Guardian, in questo momento:
«Siamo
preoccupati della produzione di mascherine per il viso, ma sembriamo
indifferenti alle fattorie che producono pandemie. Il mondo sta bruciando e noi
ci armiamo di estintori mentre la benzina bagna la miccia che abbiamo ai
piedi».
Che cosa vuol
dire concretamente prenderci cura della salute animale? Un primo passo potrebbe
essere limitare l’interazione umana con animali selvatici. Ma questo non basta,
date le condizioni degli allevamenti in Italia o
nel resto d’Europa, nessuno può assicurarci che la prossima epidemia non
esploda a pochi chilometri da casa nostra. Qualcuno ricorderà che la BSE (Encefalopatia Spongiforme
Bovina), l’epidemia prodotta dalla Salmonella DT104 o quella
dall’Escherichia coli 0157 sono patologie nate proprio in allevamenti europei.
Nel libro Big farms make big flu pubblicato
nel 2016, Rob Wallace spiega
che negli allevamenti in cui vivono ammassati centinaia, migliaia di polli e
tacchini selezionati geneticamente, per motivi puramente commerciali, un virus
può agire indisturbato senza di fatto incontrare varianti genetiche che ne
possano impedire la diffusione, con il rischio che venga poi trasmesso agli
esseri umani.
Oltretutto, come spiega ancora Wallace, possiamo
considerarci in qualche modo fortunati perché il COVID-19 è di gran lunga meno
letale di altri virus, come l’H7N9 il cui tasso di letalità è di oltre il 30%,
oppure l’H5N1, ancora più pericoloso. Negli Stati Uniti il grado di letalità
del COVID-19 è stato finora di meno del 2% con oltre 48 mila decessi, ma se ci
fosse stata una pandemia di H5N1, secondo il CDC (Centers for Disease Control and Prevention) il tasso
di letalità sarebbe arrivato al 60%.
Il fatto che non
ci sia stata però non ci può far abbassare la guardia: se l’H5N1 non ha
raggiunto le proporzioni di una pandemia non vuol dire che sia sparito. Al
contrario, nessuno può garantire che il virus non sia a un passo dalla mutazione genetica che
potrebbe permettergli di aumentare ulteriormente il suo tasso di letalità.
E se le
conseguenze di una pandemia come il COVID-19 con un tasso dell’1,14% per l’Italia è
di fronte agli occhi di tutti, possiamo invece immaginare che cosa potrebbe
voler dire se il mondo fosse colpito da una pandemia che uccide il 60% delle
persone che contraggono il virus? Non vale la pena riflettere su
cosa possiamo sacrificare adesso, per evitare una catastrofe domani?
Considerati
questi rischi e tutte le morti attribuibili ogni anno al consumo di carne,
viene da chiedersi che cosa spinga ancora i governi di tutto il mondo a offrire
ingenti sussidi agli allevamenti. Soltanto nell’Unione Europea, tramite la PAC (Politica Agricola Comune),
il settore zootecnico recepisce tra i 28 e i 32 miliardi di euro ogni
anno, sia direttamente che indirettamente tramite la produzione di mangimi.
Questa somma rappresenta circa il 20% del bilancio totale dell’UE, fondi che potrebbero essere spesi per
promuovere un’agricoltura sostenibile, amica degli animali e rispettosa per
l’ambiente, oltre che per rimediare ai feroci tagli alla sanità
pubblica avvenuti nell’ultimo decennio.
«Il virus è la malattia del
pianeta stressato» - Gianni Tamino
(Intervista di Francesco Bilotta)
Intorno alla
pandemia causata dal nuovo coronavirus si sta sviluppando un intenso dibattito
sugli aspetti sanitari. Anche nel campo delle scienze sociali, per l’impatto
che il virus sta avendo sulle nostre abitudini e stili di vita, si stanno
producendo riflessioni ed analisi.
Si è
sviluppato solo parzialmente, invece, il dibattito sul rapporto che intercorre
tra la condizione ambientale e l’insorgenza di una epidemia. Per contribuire a
colmare questo vuoto ci siamo messi in contatto con il professor Gianni Tamino
(docente di Biologia generale all’Università di Padova, dove attualmente svolge
attività di ricerca nel campo dei rischi legati alle applicazioni biomolecolari),
impegnato da molti anni a indagare il rapporto tra ambiente e salute.
Quale
relazione esiste tra questa pandemia e le profonde trasformazioni che il
pianeta sta subendo? Lei ha più volte fatto riferimento alla capacità di carico
e al deficit ecologico che sta caratterizzando il pianeta.
Sulla base
della capacità di carico si può misurare la capacità rigenerativa del pianeta.
Nel caso della popolazione umana si parla di «impronta ecologica». L’Overshoot
Day indica il giorno in cui il consumo delle risorse supera la produzione che
la Terra mette a disposizione per quell’anno. Per il 2019, il giorno è stato il
29 luglio. Significa che in sette mesi abbiamo esaurito tutte le risorse che il
pianeta rigenera in un anno. Bisogna risalire agli anni ’80 per trovare un
equilibrio tra risorse consumate e risorse rigenerate dalla Terra. Si è
determinato un deficit ecologico che comporta esaurimento delle risorse
biologiche e, nello stesso tempo, produzione di rifiuti, effetto serra,
alterazione della biodiversità, con squilibri che sono alla base
dell’insorgenza di molte malattie. Quanto più si superano i limiti della
disponibilità del territorio e si altera l’ambiente, tanto maggiore sarà la
frequenza con cui si manifestano carestie, guerre, epidemie. Il rapporto del
1972 su I limiti dello sviluppo anticipava molte delle questioni attuali.
Le risorse
naturali vengono consumate a un ritmo sempre più accelerato e cresce la
produzione agricola, ma non si riescono a soddisfare le esigenze alimentari
della popolazione. Il cibo prodotto sarebbe sufficiente per tutti, ma malattie
e malnutrizione sono presenti in diverse aree del pianeta.
La Fao
calcola che la produzione attuale di cibo sarebbe in grado di sfamare fino a
nove miliardi di persone, ben al di sopra dell’attuale popolazione. Sta di
fatto che un miliardo di persone soffre la fame a causa di forme di produzione
non sostenibili e una iniqua distribuzione. La riduzione delle terre
coltivabili, la perdita di fertilità dei suoli, l’estensione delle monocolture,
l’inquinamento ambientale, sono alcuni dei fattori che incidono sulla
disponibilità di cibo. Il 70% della superficie agricola è destinata alla
produzione di mangimi per animali. La biomassa del miliardo e mezzo di bovini
che viene allevato è molto di più della biomassa umana. Inoltre, lo spreco
alimentare, pari al 30% di tutta la produzione che si verifica nel corso di
tutto il processo produttivo e distributivo, aggrava la situazione.
I
cambiamenti climatici e l’alterazione degli habitat creano le condizioni
favorevoli all’insorgenza di malattie cronico degenerative e di epidemie. Quale
è il legame tra un ambiente degradato e la diffusione di una epidemia?
Le enormi
quantità di energia di origine fossile che abbiamo impiegato a partire dalla
Rivoluzione Industriale hanno prodotto una situazione che rischia di diventare
irreversibile. I cambiamenti climatici e l’inquinamento del pianeta
rappresentano una seria minaccia per il mantenimento degli ecosistemi e della
biodiversità. L’inquinamento ambientale sta producendo gravi conseguenze sulla
salute umana ed è responsabile della morte prematura di almeno 10 milioni di
persone ogni anno nel mondo. L’incremento di malattie cronico degenerative sta
determinando un indebolimento di ampie fasce della popolazione, che risulta
meno idonea a difendersi dalle malattie infettive e dalle nuove epidemie.
Il contatto
sempre più ravvicinato con gli animali selvatici e i loro patogeni rendono più
facile il salto di specie, ma anche gli allevamenti intensivi rappresentano una
condizione potenzialmente pericolosa per la diffusione di epidemie.
Il salto di
specie di un virus da un animale all’uomo è sempre un evento preoccupante, sia
che si tratti del pipistrello (per il nuovo coronavirus) o dei polli e suini
(per l’influenza aviaria e suina), perché la popolazione è priva di difese
immunitarie specifiche e il virus non trova ostacoli. Per questo è necessario
contenere la diffusione riducendo i contatti tra le persone. In questi mesi
stiamo affrontando una pandemia virale, ma il futuro potrebbe riservarci
pandemie causati da batteri resistenti ad ogni trattamento farmacologico. Negli
allevamenti intensivi, a causa dell’elevata concentrazione di animali e del
massiccio impiego di antibiotici, si creano le condizioni favorevoli allo sviluppo
di ceppi batterici resistenti. Se una salmonella o un ceppo di Escherichia coli
sviluppassero resistenza agli antibiotici, si determinerebbe una situazione
drammatica perché non saremmo in grado di controllare il contagio.
Un rapporto
dell’OCSE del 2018 afferma che nei prossimi 10 anni avremo più di 600 milioni
di persone residenti in aree segnate da conflitti, in condizioni di povertà ed
esposte a epidemie.
Si tratta
dell’80% della popolazione più povera del mondo che si trova all’interno di
stati fragili e che vive una condizione di emergenza a causa dei cambiamenti
climatici. Le popolazioni fragili e indebolite di questi paesi sono «terreno
fertile» per la diffusione di epidemie. La precaria condizione sanitaria non
consente di affrontare le epidemie che dovessero insorgere e che le inevitabili
migrazioni trasformerebbero in pandemie.
Recentemente
ha affermato che questa pandemia può essere un «utile avvertimento» per
evitarne di nuove e più gravi.
Il Covid-19
è una reazione allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta. Questa
pandemia non ha una letalità elevata, anche se è alta la contagiosità. Nella
Pianura Padana, soprattutto in Lombardia, sta colpendo una popolazione anziana
e indebolita da patologie pregresse. E l’inquinamento dell’ambiente svolge un
ruolo fondamentale nell’insorgenza di queste patologie. Riusciamo a tenere in
vita più a lungo le persone, ma non siamo in grado di garantire una vita sana.
A fronte di una età media più elevata, la nostra «aspettativa di vita sana» si
è ridotta. Per arginare le future epidemie dobbiamo modificare il nostro
rapporto con l’ambiente, ma anche potenziare le strutture sanitarie pubbliche
che vengono smantellate in tutti i paesi.
Limitiamo nuove pandemie: basta fondi pubblici agli
allevamenti intensivi - Greenpeace
“Migliorare la salute dell’uomo
e degli animali, insieme a quella delle piante e dell’ambiente,
è l’unico modo per mantenere e preservare la sostenibilità del Pianeta” ci
ha detto la professoressa Ilaria Capua, direttrice
del One Health Center of Excellence dell’Università della
Florida, quando l’abbiamo contattata per la sua vasta esperienza a tema.
Per la professoressa Capua, come per Greenpeace, la salute umana
è indissolubilmente legata alla salute degli animali e
della natura. Avremo un Pianeta e una vita sani solo se cambiamo
drasticamente il modo in cui trattiamo gli altri esseri viventi, animali negli allevamenti intensivi compresi.
Un dato su tutti: oltre il 70% della superficie agricola della
Terra è destinato alla produzione di carne e prodotti di origine animale,
considerando i pascoli, le coltivazioni per la mangimistica e
gli allevamenti. L’allevamento degli animali e l’agricoltura industriale
sono il principale motore della distruzione globale delle foreste e
i ricercatori stimano che il 31% delle epidemie di malattie emergenti
siano legate al cambiamento nell’uso del suolo – tra queste
HIV, Ebola e Zika – collegati all’invasione umana nelle foreste pluviali
tropicali.
Si stima che il 73% di
tutte le malattie infettive emergenti provenga da
animali e che gli animali allevati trasmettano
agli esseri umani un grande numero di virus, come i coronavirus e
i virus dell’influenza. Questo sembra particolarmente vero per
gli allevamenti intensivi di pollame e suini, nei quali gli animali sono
tenuti a stretto contatto e in numero molto elevato, oltre che movimentati su
grandi distanze, possano far aumentare la trasmissione di malattie.
Salviamo i piccoli agricoltori
Se continuiamo a spingere gli animali selvatici a
contatto con le persone e a concentrare gli animali in allevamenti sempre
più grandi, il Covid–19 non sarà purtroppo
l’ultima emergenza che dovremo subire. L’Ue e i governi
nazionali devono salvare gli agricoltori su piccola scala
colpiti da questa crisi e smettere di sostenere il sistema degli allevamenti intensivi.
Per ridurre il rischio di future pandemie, l’Unione europea e i governi
nazionali devono bloccare il sostegno all’allevamento intensivo
nei pacchetti di salvataggio o con altri sussidi pubblici, salvando
invece l’agricoltura su piccola scala.
A livello nazionale ed europeo i lobbisti del settore agricolo hanno
già chiesto sostegno per il settore delle carni e dei latticini, mentre il
settore zootecnico europeo, nell’ambito dell’attuale Politica Agricola Comune (PAC)
riceve già, direttamente e indirettamente attraverso la produzione di mangimi,
tra i 28 e i 32 miliardi di euro all’anno in sussidi pubblici dell’Ue, il
18-20% del bilancio totale dell’Ue. La stragrande maggioranza di questi
pagamenti sostiene le aziende intensive più grandi, che forniscono oltre il 72 per cento dei prodotti di
origine animale nell’Ue,
mentre le aziende più piccole continuano a scomparire. Quasi un terzo
degli allevamenti dell’Ue ha chiuso tra il 2005 e il 2013.
Solo l’Italia, tra il 2004 e il 2016, ha visto un calo del 38% perdendo oltre
320 mila aziende.
Per avere un Pianeta più sano e mantenere un equilibrio sulla Terra
dobbiamo invertire questa rotta.
da
qui
Allevamenti intensivi, polveri sottili e Covid-19 - Elisa Murgese
Siamo a
quasi due mesi di isolamento obbligatorio e l’Italia resta uno dei Paesi più
colpiti dal nuovo Coronavirus, mentre i decreti legge nazionali
cercano di contenere ferite che, a tratti, sembrano restare locali. Perché
mentre l’Italia intera si chiede cosa sarà concesso nella fase 2 del lockdown,
nel nord del Paese è solo una la domanda che circola: cosa ha portato la
Pianura Padana a perdere contro il Covid-19? Come è possibile che il
7% dei decessi mondiali si siano verificati in Lombardia?
La Pianura Padana è la grande sconfitta: lombardi sono la metà
dei decessi del Belpaese, se si aggiunge l’Emilia-Romagna si nota
come nelle due regioni del nord Italia è avvenuto il 64% delle morti causate
dal Coronavirus in Italia.
La pandemia
non ha i tempi della scienza, corre troppo veloce per permettere di dare
risposte certe. Tuttavia, la comunità scientifica ha iniziato ad interrogarsi,
e a mettere alcuni indizi nero su bianco. “L’elevato livello di inquinamento
in nord Italia dovrebbe essere considerato un co-fattore addizionale
dell’alto tasso di mortalità di questa zona”, si legge su uno studio pubblicato su
ScienceDirect a fine marzo. Un mese dopo, una ricerca dell’Università di Harvard ribadisce
come “un piccolo aumento dell’esposizione a lungo termine al PM2,5”
potrebbe portare “a un grande aumento del tasso di mortalità da
Covid-19”. In poche parole entrambi gli studi, in fase di review dalla
comunità scientifica, segnalano come le polveri sottili potrebbero peggiorare
l’infiammazione causata dal virus. Come a dire che, avendo respirato per
una vita intera aria inquinata, lombardi ed emiliani
sono partiti svantaggiati.
Agli studi
internazionali, sono seguiti quelli nostrani. “Si può ipotizzare un ruolo
del PM nel rendere più severo lo stato di infiammazione dei pazienti Covid-19”,
conferma all’Unità Investigativa di Greenpeace Italia Annamaria Colacci di
Arpae Emilia-Romagna. “Nel Bacino Padano l’esposizione prolungata al particolato determina
che la salute della popolazione può essere più a rischio che in
altre aree”, continua Riccardo De Lauretis di ISPRA.
Più famose
per essere Regioni trainanti dal punto di vista economico che territori
delicati dal punto di vista ambientale, Lombardia ed Emilia-Romagna sono
aree che possono sopportare uno specifico limite di inquinamento
dell’aria oltre il quale la situazione può diventare pericolosa per
chi vi abita. Infatti, essendo un territorio chiuso su tre lati da
montagne, “la Pianura Padana ha una conformazione che non permette agli
inquinanti atmosferici di disperdersi, come invece accade in altre aree
d’Italia”, precisa Guido Lanzani di Arpa Lombardia. Risultato: il livello
di smog di Lombardia ed Emilia-Romagna è
tra i peggiori in Europa e certamente il peggiore in Italia in
termini di particolato. E mentre la comunità scientifica si
interroga se l’aria inquinata possa essere un co-fattore della gravità dei casi
in Covid-19 in nord Italia, la nostra Unità Investigativa
denuncia quali sono i settori che in Italia fanno innalzare l’inquinamento
da polveri sottili.
Per fermare
il livello di smog, non basterà più bloccare il traffico e definire
precisi limiti industriali, dopo avere visto i risultati della nostra analisi
fatta in collaborazione con Ispra: per la prima volta, mostriamo
una media di quali settori, dal 1990 al 2018, abbiano maggiormente contribuito
alla formazione del particolato PM2,5.
Secondo lo
studio, nel 2018 riscaldamento e allevamenti sono i settori
più inquinanti (responsabili in totale del 54% del PM2,5 in Italia), seguiti da
trasporti stradali (14%) e industria (10%). Analizzando
la serie storica del PM2,5 dal 1990 al 2018,
abbiamo inoltre notato come la percentuale del contributo degli allevamenti non
sia mai diminuita, anzi ha continuato a crescere, passando dal 7% al 17%. Nello
stesso arco di tempo il settore dei trasporti stradali (veicoli
leggeri e trasporto merci), pur continuando a giocare un ruolo significativo
nelle emissioni di gas serra (responsabile del 23% dei gas
climalteranti) e di NOx (43% del totale), ha ridotto le
emissioni di PM2,5 dal 20% al 14%.
Anche
l’industria ha un trend in diminuzione, “avendo dei limiti inquinanti ben
identificati e specifiche tecnologie da adottare per abbattere le emissioni –
continua De Lauretis di Ispra – Al contrario, è più difficile
controllare gli allevamenti: parliamo di decine di migliaia di
attività zootecniche e di un ambito in cui ci sono pochissimi controlli in
merito allo spargimento dei liquami”. E invece, per ridurre le emissioni di ammoniaca e
quindi le concentrazioni di particolato “il settore
allevamenti potrebbe fare molto” chiude ISPRA. E sembra che il settore
allevamenti possa fare molto anche in Lombardia ed Emilia, le aree più
inquinate da particolato in Italia.
Perchè
Lombardia ed Emilia non respirano?
Se a livello
nazionale l’allevamento è al secondo posto tra le cause
di smog, in Lombardia è ancora più rilevante. Infatti, stando a uno
studio di Arpa Lombardia, l’ammoniaca che fuoriesce
dagli allevamenti, “concorre mediamente a un terzo del PM della
Lombardia, ma durante gli episodi acuti tale contributo aumenta superando il
50% del totale”, precisa Guido Lanzani di Arpa Lombardia. Cruciale, quindi,
il ruolo degli allevamenti, responsabili di circa l’85% delle emissioni
di ammoniaca in Lombardia.
Anche Arpae
Emilia-Romagna, lo scorso anno ha diffuso un innovativo studio dove segnalava
come l’allevamento intensivo fosse la
seconda causa di emissioni di PM10 equivalente (primario e
secondario) della regione.
La catena è
chiara: maggiori sono gli spandimenti di reflui zootecnici e
maggiore sono le emissioni di ammoniaca; l’aumento di ammoniaca porta a incrementare il
livello di particolato e quindi lo smog nell’aria. “I Comuni –
precisa ISPRA – dovrebbero stabilire qual è il numero massimo di allevamenti
e capi allevati che è possibile avere sul loro territorio, perché
altrimenti i danni si ripercuotono sui cittadini”.
Allevamenti,
soldi Ue continuano a foraggiare questo sistema
Anche se gli allevamenti intensivi si
confermano la seconda causa di polveri sottili, una
gran quantità di soldi pubblici continua a foraggiare questo sistema, a
cominciare dai sussidi della Politica Agricola Comune (PAC). Stiamo parlando
di cifre tra il 18% e il 20% del
budget annuale complessivo dell’Ue. Si deve cambiare rotta: un
cambiamento che deve avvenire anche nell’ambito della riforma della PAC,
per frenare i pesanti impatti che il settore zootecnico ha
sulla natura, sul clima e sulla salute pubblica.
Leggi il media briefing completo e consulta la tabella del PM2,5 primario e secondario (Mg %) dal 1990 al 2018.
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