In Puglia, tra i comuni di Nardò e Porto Cesareo, perfettamente tracciato nel bel mezzo di un’estesa macchia verde, si sviluppa un anello di asfalto e cemento lungo quasi tredici chilometri: si tratta del ring del Nardò Technical Centre (NTC), la pista di collaudo dal 2012 proprietà della Porsche Engineering, assieme a circa un terzo dell’area interna alla circonferenza, quella più a sud. Dentro al cerchio, su una superficie pari a 7 milioni di m², si snodano 20 circuiti minori e diversi impianti di prova, dove vengono testate non solo autovetture del gruppo tedesco ma anche prototipi di altri brand di lusso, come McLaren, Aston Martin, Ferrari, Audi e Mercedes. L’indotto generato dal NTC si estende ben oltre i confini della pista: esercizi commerciali, attività di ristorazione e strutture ricettive della costa beneficiano delle trasferte di ingegneri, piloti e meccanici anche in bassa stagione, garantendo alla Regione Puglia un introito che si attesterebbe attorno ai 10 milioni di euro l’anno.
Fin qui tutto bene, o, almeno, così pare. Secondo
Antonio Gratis, dal 2018 il direttore generale del NTC, originario di Ugento (Lecce), ci
troveremmo di fronte a un caso di “unione ideale tra sviluppo e tradizione”, un
matrimonio all’apparenza felice tra “il mondo tecnologico di Porsche” e “quello
rurale della campagna salentina”, che sarebbe proseguito senza grandi clamori
fino a quando, nel corso del 2023, non è cominciata a trapelare la notizia
relativa al piano d’ampliamento del centro, confermata dall’avviso, nell’agosto
dello stesso anno, dell’imminente esproprio “per pubblica utilità” ai danni dei
134 proprietari dei 351 ettari di terreno interessati dal progetto: ancora una
volta, il Capitale colpisce d’estate, quando l’Italia è assopita e la
distensione massima.
Era già successo ai 421 operai e lavoratori delle ditte in appalto dell’ex GKN
Driveline di Campi Bisenzio nella piana fiorentina, che a luglio 2021,
a pochi giorni dallo sblocco dei licenziamenti, ricevettero una mail che li
lasciava da un giorno all’altro di fatto senza lavoro. Iniziava così
l’assemblea permanente più lunga nella storia delle lotte operaie, che ha
portato il Collettivo di fabbrica a presidiare ininterrottamente lo
stabilimento per impedirne la delocalizzazione e la definitiva dismissione,
richiedendo, al loro posto, un intervento pubblico per reindustrializzarla e
trasformarla in un polo delle energie rinnovabili e della mobilità sostenibile.
Anche nel caso di Nardò, la risposta non tarda ad arrivare. In poco tempo
si costituisce il Comitato custodi del Bosco d’Arneo, composto di cittadini,
attivisti e solidali, che si oppongono alla costruzione delle 9 piste
aggiuntive, oltre alla modernizzazione di quelle esistenti, e soprattutto
all’abbattimento di 200 ettari (l’equivalente di 300 campi da calcio) di
vegetazione; un’operazione quanto mai necessaria, a detta di Porsche, per
adattare il NTC alle esigenze delle nuove frontiere dell’automotive, tra
cui la guida autonoma e connessa, per un investimento complessivo di circa 450
milioni di euro (l’area in questione era stata strategicamente dotata di rete
5G giusto qualche tempo prima).
Ancora una volta, il Capitale colpisce d’estate, quando l’Italia è assopita
e la distensione massima.
Peccato che il cosiddetto Bosco d’Arneo compaia tra i siti protetti di
importanza comunitaria secondo la rete Natura 2000 e la Direttiva Habitat
dell’Unione Europea relativa alla conservazione degli habitat naturali e
semi-naturali e della flora e della fauna selvatiche. Anche la valutazione ambientale
svolta dalla Regione Puglia ha riconosciuto come “negativi” e “significativi”
gli eventuali impatti sul bosco di lecci di quasi 40 ettari e su una piccola
porzione di prateria mediterranea, definendo dunque l’intervento di Porsche
altamente invasivo nei confronti della struttura paesaggistica locale.
È successo, però, che il vincolo è stato aggirato, facendo leva sul
presunto valore di interesse pubblico del piano, sia per la salute dell’uomo,
sia per la sicurezza pubblica: il primo punto era motivabile grazie alla
realizzazione di un centro medico con elisoccorso all’interno del circuito,
integrato al sistema sanitario pugliese, nonostante gli ospedali della zona –
in primis il Vito Fazzi di Lecce e il Centro grandi ustionati di Brindisi –
siano sprovvisti di eliporti, e i costi di equipaggio, del personale medico,
degli elicotteri stessi e della loro manutenzione peserebbero sulle tasche
della regione, che ad oggi non riesce ad assicurare il servizio neanche laddove
esistono le infrastrutture necessarie; il secondo punto prevedeva invece
l’impegno di Porsche nel mettere a disposizione della collettività il servizio
antincendio, lo stesso che avrebbe tra l’altro consentito al bosco di crescere
così rigoglioso, dal momento che, sostiene
Gratis, “le nostre termocamere individuano anche la più piccola fiamma”.
Con una mossa inaspettata, il paradosso è finalmente compiuto: è Porsche il
vero custode del Bosco. E continuerebbe a esserlo anche qualora portasse
effettivamente a termine la deforestazione, a patto che sappia compensare la
perdita, anzi “sovracompensarla”, come se la natura fosse il frutto di un’equazione.
A questo scopo, il colosso tedesco – la cui sede, come nota
Marc Beise, si trova in Svevia, un distretto in cui non a caso i Verdi sono al potere
da una decina d’anni – ha acquistato terreni dentro e fuori al cerchio, per un
totale di 600 ettari, destinati a ospitare 1,2 milioni di giovani alberelli
bisognosi di cure e acqua in un Salento sempre più desertificato e dalle falde
pericolosamente salinizzate.
La manovra si rivela quantomeno ad alto tasso di rischio, un rischio che,
forse, la Puglia ora come ora non può permettersi di correre, dopo anni di
inveterate “monoculture della mente”, per citare Vandana Shiva, che hanno drammaticamente impoverito il suolo
del profondo tacco dello stivale, rendendolo facile preda di speculazione e
privatizzazione selvaggia, e meno reattivo nel fronteggiare minacce quali
l’epidemia da xylella fastidiosa che ne ha contribuito a
distruggere la biodiversità. Una rete virtuosa, fatta di realtà che da tempo
investono con convinzione nella possibilità di riscattare un paesaggio
fortemente traumatizzato, cerca di invertire la rotta: tra queste, Casa delle
Agriculture a Castiglione d’Otranto, nel versante Adriatico,
promuove un’idea di “restanza” attraverso
l’azione sinergica di un’agricoltura rigenerata e di un’arte pubblica che
rafforza i vincoli di comunità e tenta di arginare l’esodo di risorse naturali
e umane dalla regione.
Il paradosso è finalmente compiuto: è Porsche il vero custode del Bosco.
O la Free Home University, dove impegno pedagogico
e artistico convergono nella prefigurazione di nuovi modi di condividere e
creare conoscenza, sperimentando modelli di vita in comune e forme di
ricerca-azione nel territorio assieme alle comunità di pratica e di lotta. Per
la recente mostra Learning
Intentions/Learning in Tensions allestita in occasione dei
10 anni di attività nella ex chiesa di San Francesco della Scarpa a Lecce, i
curatori Alessandra Pomarico e Nikolay Oleynikov, hanno commissionato a Oliver
Ressler, artista, regista e attivista austriaco, riconosciuto per il suo
trentennale impegno di documentazione dei movimenti sociali di resistenza al
capitalismo globale e al cambiamento climatico, il film We Are the
Forest Enclosed by the Wall, incentrato proprio sulla battaglia dei Custodi
d’Arneo per difendere il Bosco dal piano ecocida del gruppo Porsche.
Sostenuto dalla fondazione svizzera Tinguely, il film sarà presentato a
settembre alla comunità locale e poi a quella internazionale nel circuito dei
festival di cinema e in quello dell’arte contemporanea. Ad aprire il percorso
espositivo della mostra, in una sorta di vero avamposto con tanto di volantini
divulgativi e raccolta firme, l’installazione del collettivo di artisti e
attivisti Ultra-red, chiamati a condurre un’investigazione sonora per
analizzare la congiuntura politco-economica in atto in questo così come in
altri territori, e le strategie di risposta per la salvaguardia della foresta.
Un audio diffonde stralci di interviste ai custodi, mentre alle pareti,
assieme alle mappe indicanti il livello di inquinamento acustico generato dal
NTC, compaiono tracce del processo di facilitazione partecipata, registrazioni
grafiche delle assemblee e le risposte dei visitatori invitati a un esercizio
di riflessione sulla crisi aperta dal progetto di ampliamento. A essere
esposte, anche le stampe offerte da diversi artisti a supporto della campagna
(tra gli altri Ruan Grupa, Crater Invertido, Glucklya, Chto Delat, Enrie Larsen
e Sherry Millner), portate in strada come stendardi e bandiere durante le
manifestazioni e i picchetti.
Storicamente, la contrapposizione tra arte e attivismo può dirsi
riconducibile a motivazioni di carattere ideologico, funzionali innanzitutto a
negare sia l’agibilità politica che la prima ambirebbe a dischiudere, sia il
ruolo dell’artista come agente di cambiamento; le cosiddette pratiche
“artivistiche” contemporanee – di cui Casa delle Agriculture, Free Home
University, Oliver Ressler e Ultra-red sono a tutti gli effetti rappresentativi
– mettono in discussione le fondamenta di tale polarizzazione, dimostrando come
il medium artistico, inteso come un campo di forze generativo e non mero
simulacro, in un momento in cui predomina l’urgenza, assuma
una rilevanza catalizzatrice nell’ottica di una sempre maggiore emancipazione
sociale.
Il medium artistico, in un momento in cui predomina
l’urgenza, assume una rilevanza catalizzatrice nell’ottica di una
sempre maggiore emancipazione sociale.
Alla base della comprensione del collasso climatico in corso e delle possibili
modalità di fronteggiarlo, risiede la questione di un immaginario ormai
cristallizzato che blocca la possibilità di un’inversione di rotta. Per
decostruire i paradigmi vigenti e immaginarne di nuovi o diversi, servono
strategie capaci di incorporare una differente nozione di natura, non più vista
come altro da noi o “risorsa” sempre a disposizione, e di promuovere politiche
terrestri che strutturino, a partire da presupposti altri e
valori quali l’interdipendenza e interconnessione le nostre coscienze
ecologiche.
All’arte, con la sua potenza anticipatrice ed evocatrice, attraverso
l’abilità ricombinatoria di agire sull’immaginario, spetta dunque il compito di
smuovere l’irremovibile e configurarlo diversamente, mostrando come “sia
possibile invertire ciò che era ritenuto inevitabile, per quanto
inimmaginabile” (da una conversazione privata tra Oliver Ressler e TJ Demos,
traduzione dell’autrice).
Del resto, sacche di resistenza e di creazione di alternative esistono e si
organizzano da tempo anche all’interno dell’anello: a meno di due chilometri
dal NTC, l’agricampeggio Le Fattizze, da tre generazioni di proprietà della
famiglia Rolli, sorge su un antico podere nel cuore della Terra d’Arneo,
coniugando l’agricoltura biologica all’ecoturismo in quello che assomiglia a un
campo di prova per il futuro del pianeta; o ancora, il neonato bosco 209
custodito da Viola Berlanda, fotoreporter di Torino che a febbraio 2021, nel vivo
delle due pandemie disastrose che hanno colpito ulivi ed esseri umani, ha
lasciato la sua vita a Parigi per prendersi cura di 300 baby alberi
appartenenti a 80 specie antiche e ormai dimenticate, per tentare di
ristabilire la biodiversità del luogo. Queste e altre esperienze partecipano di
quel fermento incessante e laborioso che, scegliendo di non abbandonare la
regione, promuove strategie sempre nuove per rivitalizzare il territorio e
garantire un’eredità verde alle prossime generazioni: una sorta di contraltare
di ciò che avviene a pochi passi da lì, dall’altra parte del muro.
Da quando è arrivata Porsche, all’inizio degli anni Dieci, la pista è stata
progressivamente avvolta da un velo di mistero: protetta e nascosta dalla cinta
muraria e dalla vegetazione fitta, un po’ come accade nel film La zona
d’interesse (2023) di Jonathan Glazer, l’attività
dei circuiti di prova, coperta com’è dal segreto aziendale, è diventata deducibile
unicamente dai suoni – la legge del più forte parla il linguaggio del ronzio
costante dei motori. Si tratta di luoghi inaccessibili alla collettività e alla
comunità scientifica, tanto da impedire ai più di conoscere con esattezza le
specificità del patrimonio floristico e faunistico al loro interno,
quantificarlo o precisarne i rischi causati da un eventuale disboscamento.
La legge del più forte parla il linguaggio del ronzio costante dei motori.
La pista è inaccessibile alla collettività e alla comunità scientifica.
Con l’ingresso in scena del progetto di ampliamento del NTC, la battaglia tra
il gruppo automobilistico e il Comitato dei custodi si è giocata, in poche
parole, sul piano dell’assenza: cosa significa proteggere un bosco che non si vede
ma che indirettamente si percepisce? Come cambiano le modalità di protesta
nell’epoca della finanziarizzazione della natura, dove le forze all’opera sono
più che mai decentrate, smaterializzate e svincolate dal terreno (del) reale, e
dove le distanze tra i “luoghi esecutivi” (Stoccarda, quartier generale di
Porsche), che decidono delle sorti e degli usi di un territorio, e quelli in
cui tali disposizioni vengono applicate (Terra d’Arneo) si dilatano, passando
per un fitto reticolo di rimandi e differimenti in cui a perdersi, alla fine, è
proprio il referente nella sua sostanziale prossimità (il
bosco)? A rispondere è Alessandra Pomarico, co-founder di Free Home University
e parte del Comitato custodi del Bosco d’Arneo:
“L’impenetrabilità del bosco è una condizione di partenza interessante, che ha
portato al centro di questa lotta tante tensioni. Intanto ha evitato il rischio
di una visione ‘nimby’ (not in my backyard), invitandoci a riconsiderare il
valore dei beni comuni (commons), e disattivando il paradigma antropocentrico
di molti movimenti ambientalisti occidentali che continuano a considerare la
natura come risorsa. Non ci siamo mobilitati per difendere un bosco
‘utilizzabile’, fruibile, o godibile in una prospettiva umana, per la nostra
idea di bellezza, di paesaggio, per il bisogno o desiderio di ‘riconnetterci
con la natura’; la questione è diventata inevitabilmente ecosistemica, di
interrelazione e interdipendenza tra comunità umane e più-che-umane, ci ha
connesso a lotte translocali e ha permesso una temporalità più estesa, che
guarda al passato e al presente, e soprattutto alle future generazioni.
Naturalmente la distruzione di questa, così come di altre foreste, significa
accelerare il rischio di estinzione della specie umana. Qui vivevamo anche
un’altra tensione: paradossalmente il fatto che il bosco fosse inaccessibile ha
significato anche la sua protezione dagli incendi – che da noi sono sempre di
origine dolosa – oltre che da altre speculazioni, ma il fatto che sia in mano a
una multinazionale dell’industria automobilistica, come questa vicenda ha
dimostrato, non ci salva da rischi di eradicazione malgrado i vincoli europei”.
“Abbiamo dovuto immaginarcelo questo bosco” prosegue Pomarico, “ipotizzare
sulla vita che lo popola, studiare le relazioni tecniche, raccolto le
testimonianze degli abitanti della zona per capire cosa ci fosse dietro il
muro, quali uccelli nidificano, l’esistenza dei lupi. Alcuni di noi hanno fatto
riprese e fotografie coi droni, e abbiamo dovuto persino utilizzare un elicottero
mantenendoci nella ‘no fly zone’, che difende il segreto industriale, per
consentire a Oliver Ressler delle riperse dall’alto. È interessante come una
relazione affettiva, e direi di solidarietà, si possa instaurare per qualcosa
che non si conosce, e che forse non si conoscerà mai, ma la cui esistenza è
fondamentale in una prospettiva di giustizia ecologica e di difesa del vivente.
Questa lotta ci ha permesso di parlare di diritti della natura, della
possibilità di dare personalità giuridica al mare, ai fiumi, agli alberi,
all’aria, di costituenti della Terra”.
Gli attivisti salentini, dopo una campagna di informazione e mobilitazione,
scendendo in piazza e spingendosi fino alla capitale del Land del
Baden-Württemberg per prendere parte all’annual general meeting di
Porsche e contestarne il piano – oltre a rinominare simbolicamente la
Porsche-Platz in Bosco d’Arneo-Platz durante una cerimonia accompagnata dalla
piantumazione di un leccio, grazie al sostegno degli alleati tedeschi del
gruppo ambientalista Robin Wood – hanno prestato i loro corpi affinché
fungessero da cassa di risonanza di una vicenda che, confinata a quei 12,5
chilometri del ring, sarebbe altrimenti rimasta senza voce, e per
realizzare il sogno di poterlo finalmente attraversare, quel bosco, e di
vederlo tornare a essere, dopo cinquant’anni, di nuovo pubblico in quanto
riconosciuto a tutti gli effetti bene comune.
Come cambiano le modalità di protesta nell’epoca della finanziarizzazione
della natura, dove le forze all’opera sono più che mai decentrate,
smaterializzate e svincolate dal terreno (del) reale?
È infatti negli anni Settanta che la foresta viene privatizzata: qui FIAT
costruisce per prima la pista, inaugurandola nel 1975 sotto la denominazione
SASN (Società Autopiste Sperimentali Nardò). Nel periodo tra il 1970 e
il 1973, l’azienda automobilistica italiana realizza un programma di
investimenti nel Mezzogiorno per circa 250 miliardi di lire, che avrebbero
portato alla creazione di 18.000 posti di lavoro diretti e, auspicabilmente, ad
altrettanti collaterali. Tra i siti individuati per la costruzione degli
stabilimenti oltre a Termini Imerese, Termoli, Vasto, Bari, Lecce, Sulmona e
Cassino figura anche Nardò, interessata dalla realizzazione di un circuito di
collaudo, da terminarsi a metà del 1974. Nel video Fiat nel Sud Italia, disponibile
nel canale Youtube dell’Archivio nazionale Cinema Impresa, la sezione del
servizio dedicata a quest’ultima è l’unica a non fornire dati precisi, come è
invece il caso di tutte le altre città coinvolte dal progetto di sviluppo.
Ancora una volta, l’anello sembra essere un luogo impenetrabile.
Sull’onda degli incentivi governativi per “risolvere” il problema della
grave disoccupazione e sottoccupazione del Meridione e decongestionare Torino e
le aree limitrofe del Nord industrializzato da poco reduce dall’“autunno
caldo”, FIAT, similmente ad altri colossi del secondario, delocalizza
l’attività produttiva là dove le tensioni sociali erano meno rumorose, la
densità abitativa tutt’altro che elevata, i lavoratori, vittime del ricatto
occupazionale, meno sindacalizzati. Insomma, spostarsi a sud si rivelava, per
molti aspetti, una scelta quasi obbligata.
La società di Agnelli rileva dunque il sito di Nardò, mantenendo pressoché
intatta la conformazione del ring, frutto dei lavori preliminari
realizzati negli anni Sessanta per accogliere un acceleratore di particelle (il
concorso internazionale fu poi vinto da Ginevra, Svizzera). La piana tra Nardò
e il tarantino era stata giudicata adatta a ospitare il protosincrotrone in
quanto geologicamente stabile; l’operazione si inseriva nel quadro più ampio di
rilancio dell’economia del Sud Italia, vedendo negli stessi anni la costruzione
del centro siderurgico di Taranto, il petrolchimico di Brindisi o il
cementificio Colacem di Galatina. La storia recente della Terra d’Arneo, che
affonda le proprie radici nelle rivolte
contadine “in bicicletta” degli anni Cinquanta contro lo
sfruttamento dei grandi latifondisti per ottenere la redistribuzione delle
terre, è una tessitura complessa di sogni e delusioni, progetti industriali e
sforzi di conservazione.
Dalla Cassa del Mezzogiorno alla riforma agraria, dall’ipotesi di un
Salento “nucleare” alle velleità della FIAT, fino ad arrivare alla “pacifica
convivenza” con Porsche, è visibile in controluce un filo rosso che collega
tutti questi passaggi: la lotta dei Custodi del Bosco non è una lotta
circoscritta a un’unica vertenza, ma a una logica coloniale ed estrattivista
perdurante, che da decenni insiste sul Sud mettendone a repentaglio ecosistemi
fragili, identità e stili di vita.
La lotta dei Custodi del Bosco non è una lotta circoscritta a un’unica
vertenza, ma a una logica coloniale ed estrattivista perdurante, che da decenni
insiste sul Sud mettendone a repentaglio ecosistemi fragili, identità e stili
di vita.
Il ricatto salute o lavoro, su cui il marchio tedesco ha fatto a più riprese
leva per ottenere il via libera al progetto di ampliamento, si è tradotto in
un aut aut dichiarato: “O il piano, o il ritiro di tutti gli
investimenti dall’area”. A fronte delle critiche infondate che attribuiscono a
una presunta resistenza ideologica al progresso la causa principale
dell’immobilismo pugliese, dati alla mano la regione ospita sul proprio
territorio l’acciaieria più grande d’Europa – campione di
inquinamento industriale e di CO2 –; è tra quelle in cui si
concentra la maggiore produzione di energia eolica; costituisce il corridoio
nazionale di gas naturale dall’Azerbaigian; assiste da tempo a un aumento
progressivo di consumo di suolo; è la prima al Sud per crescita del prodotto
interno lordo. Non proprio lo scenario che ci si aspetterebbe da
un’aprioristica sequenza di “no”.
Osservando un po’ più da vicino il caso del NTC emerge, inoltre, quanto
esiguo sia da sempre il numero di dipendenti salentini occupati, e come,
spesso, le loro proteste siano state in qualche modo silenziate: precari
storici in perenne attesa di una stabilizzazione che non è mai arrivata,
assunzioni interinali, incidenti in pista per supposte violazioni delle norme
in materia di tutela della salute e della sicurezza sul posto di lavoro. Ma
allora in nome di cosa il Bosco d’Arneo, rimpiazzabile da un milione di
alberelli che rischiano di non attecchire, sarebbe sacrificabile? Di una Puglia
ancora “più famosa nel mondo” come dice il suo presidente Emiliano, pronta a
essere inscenata proprio come è successo durante il G7 di Borgo Egnazia? Di una
fantomatica destagionalizzazione del flusso turistico? O di un interesse
pubblico fittizio che in realtà cela unicamente quello di una multinazionale?
La vicenda del Bosco d’Arneo ha mostrato con chiarezza non solo l’assenza
di un dialogo costruttivo tra le parti, ma anche la difficoltà di stabilire una
narrazione condivisa. Il Comitato per la difesa del bosco, spesso tacciato di
abbracciare un ambientalismo ingenuo, ha faticato a reperire dati scientifici e
oggettivi a supporto delle proprie istanze, complice l’inaccessibilità
dell’area. Dall’altro lato, Porsche ha optato per una comunicazione opaca, che
ha alimentato sospetti e diffidenze, lasciando emergere solo frammenti parziali
delle proprie intenzioni. In questo scarto di trasparenza e verificabilità, la
battaglia si è giocata anche sul terreno scivoloso tra ciò che era possibile
dimostrare e ciò che si poteva soltanto supporre.
Il biologo Rocco Labadessa, incaricato della valutazione di incidenza
ambientale per conto dell’azienda tedesca, è stato tra i pochi a esplorare
direttamente la zona contesa. La sua analisi ha rivelato anzitutto l’assenza di
un bosco secolare: al suo posto, campi agricoli abbandonati dagli anni
Settanta, progressivamente riconquistati dalla vegetazione spontanea.
Paradossalmente, la recinzione dell’area da parte di Porsche avrebbe protetto
questo ecosistema nascente da incendi e pascoli, favorendo la crescita della
vegetazione arborea e impedendo la conservazione delle praterie mediterranee,
tra gli habitat tutelati dalla rete Natura 2000.
In nome di cosa il Bosco d’Arneo, rimpiazzabile da un milione di alberelli
che rischiano di non attecchire, sarebbe sacrificabile?
La situazione attuale mostra infatti un ecosistema più integro all’interno del
perimetro aziendale rispetto alle zone circostanti, dove l’agricoltura intensiva
ha compromesso la biodiversità. Curiosamente, i pochi lembi di prateria
superstiti si trovano lungo le piste dismesse, aree disturbate dall’attività
industriale, ma che hanno permesso la sopravvivenza di specie tipiche degli
spazi aperti. Questa dinamica, comune nel Mediterraneo, mette in discussione
l’efficacia delle direttive europee nel riconoscere e tutelare habitat mobili e
in continua evoluzione. Anche la definizione stessa di “bosco” risulta ambigua:
nella maggior parte dell’area si tratta di un uliveto inselvatichito, con poche
fasce a vegetazione ad alto fusto. Eppure, è proprio qui che gli ulivi sono
rimasti indenni dalla xylella, forse grazie alla ricchezza
biologica dell’ambiente, in netto contrasto con la monocoltura esterna che ha
favorito la diffusione dell’infezione.
Nel quadro dell’ampliamento del Nardò Technical Center, la questione della
compensazione ecologica si fa centrale. Per autorizzare opere che comportano
perdita di habitat, la legge prevede interventi di ripristino, spesso con
incremento quantitativo: misure di greenwashing, ma che – almeno in
potenza – un attore come Porsche potrebbe realizzare con maggiore efficacia
rispetto a molte istituzioni pubbliche (soprattutto italiane). Tuttavia, la
complessità tecnica e climatica di queste operazioni resta altissima. Numerose
iniziative legate al PNRR, anche in Puglia, ne sono un esempio: costose, poco
trasparenti, spesso senza un reale monitoraggio degli esiti. In regioni come il
Salento, segnate da desertificazione e carenza idrica, i modelli forestali
tradizionali non sono più replicabili. Serve un cambio di paradigma: non più
piantare alberi per far vedere il bosco, ma progettare restauri ecologici su
scala lunga, curando le condizioni che rendono possibile l’attecchimento, la
resilienza, l’equilibrio. Senza ombra, senza acqua, senza biodiversità
iniziale, un bosco non si improvvisa. Quello che si rischia, altrimenti, è un
simulacro verde: un paesaggio agricolo travestito da ecosistema. Non si tratta,
in definitiva, di sostituirsi alla natura, che ha tempi e processi propri – e
che senza dubbio saprà sopravviverci – ma di facilitare dinamiche di ripristino
ecologico.
Il caso della resistenza dei Custodi si lega a numerose altre storie di
ecologia politica insurrezionale nel continente, che si oppongono al
capitalismo verde e alle misure semplicisticamente presentate come alternative
sostenibili: dalle “occupazioni forestali” ad Hambach e a Lützerath in Germania
contro le miniere di lignite gestite dalla compagnia energetica RWE, dove
ambientalisti, attivisti, anarchici e abitanti locali hanno sperimentato forme
di autogestione antispecista guardando a esperienze longeve come la più nota
ZAD-Zone-To-Defend, che per quarant’anni ha resisto alla costruzione di un
nuovo aeroporto fuori Nantes, alla lotta contro la “gigafactory” di Tesla nella
cittadina di Grünheide, a soli cinque chilometri a sud-est di Berlino.
In tutti gli esempi menzionati, ambiente, automotive e
abitare si intrecciano indissolubilmente in una trama che compone di volta in
volta tessuti differenti, appellandosi a strumenti legislativi ordinari e non,
ma sempre a ricordarci che giustizia climatica e giustizia sociale vanno di
pari passo: è questa l’unica formula per una transizione possibile. Uomo e
natura si affiancano in una rinnovata cultura attivista che rompe con le
categorizzazioni politiche, storicamente strutturata attorno a una logica
dualistica e strumentale. Continuare a relegare ai margini della sfera politica
i soggetti più-che-umani appare oggi impensabile: nel Capitalocene, come scrive
Léna Balaud, le relazioni sociali e i rapporti di potere sono percepibili fino
alle profondità delle torbiere e dei ghiacciai (e anche dei boschi a cui non si
può accedere, ma che si possono immaginare): non c’è più spazio per ritirarsi;
è giunta l’ora di ripensare la composizione di classe nell’ottica di interspecific resistances.
Giustizia climatica e giustizia sociale vanno di pari passo: è questa
l’unica formula per una transizione possibile.
A marzo, la notizia
tanto attesa: il “Bosco” dell’Arneo è salvo, ma a salvarlo, non è stata la
Regione Puglia. A un anno esatto dalla comunicazione della sospensione
dell’accordo di programma con il NTC, a seguito dei richiami da parte della
Commissione europea dopo il ricorso presentato al Tar dal Comitato custodi,
Italia Nostra e Gruppo di intervento giuridico, grazie al quale è stato
mobilitato il commissario per l’ambiente Virginijus Sinkevičius, Porsche
annuncia l’abbandono del piano in una nota in cui motiva la decisione alla luce
delle attuali “prospettive sociali, ambientali ed economiche” e delle
“circostanze dell’industria automotive mondiale”.
Merito della resistenza dei Custodi? E della lungimiranza dimostrata
dall’aver coinvolto autorevoli associazioni per la tutela della natura
tedesche? Dell’adozione di tattiche artivistiche? O, piuttosto, delle mutate
condizioni del mercato automobilistico internazionale? Si è forse appresa la
lezione che il dibattito pubblico è inaggirabile e che su questioni di
interesse collettivo non può vigere il vincolo della segretezza? Ora che
Porsche dichiara che “le attività di testing continueranno a essere svolte nel
sito, contribuendo allo sviluppo di tecnologie innovative per la mobilità”, la
tanto temuta “alternativa zero” si regge tranquillamente in piedi: a oggi non
c’è traccia né di disinvestimento né di dismissione alcuna.
Resta forse da chiedersi che cosa abbia davvero vinto: non il bosco in
quanto tale – ancora in gran parte sconosciuto, eppure centrale – ma una forma
di opposizione che ha saputo saldare attivismo, pratiche artistiche e tensione
conoscitiva, tentando di colmare con strumenti propri il vuoto lasciato da un
sapere negato. Una mobilitazione che ha tracciato una via: quella di
rivendicare trasparenza, partecipazione dal basso e giustizia sociale ed
ecologica nei processi che decidono il destino dei territori. In un’epoca in
cui la verità è sempre più una costruzione negoziata, la posta in gioco non è
solo ambientale ma anche epistemologica: non si tratta solo di difendere i
boschi, ma di riconoscere chi ha il potere di nominarli, visibilizzarli,
rappresentarli, e quindi intervenirvi.
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