Intervista di Adrià Rodríguez allo storico, geografo e professore di sociologia,
Jason Moore: il capitalocene è l’era in cui trionfa la natura a basso costo
(forza lavoro compresa) e tutto è svalutato. Guerra e collasso ecologico
pongono fine a questa economia e a questo sistema sociale, così che il
capitalismo sopravvive soltanto in forma zombi.
Parlare con
Jason W. Moore (Oregon, 1971) significa parlare di Capitalocene, concetto da
lui proposto per «ridicolizzare il pensiero autoritario che risale a Malthus
alla fine del XVIII secolo», quando la sovrappopolazione era considerata la
fonte della disuguaglianza. Per lo storico, geografo e professore di
sociologia, il cambiamento climatico è responsabilità della classe capitalista
e di quelle 150 imprese transnazionali responsabili di oltre il 70% delle
emissioni globali di carbonio e gas serra dal 1850. La crisi climatica,
conclude, è una questione lavorativa, una guerra di classi.
In questa
intervista, Moore sviluppa anche l’idea di «natura a basso costo» e dei
«tentativi, dall’alto, di svalutare la vita umana». Analizza inoltre il
genocidio a Gaza – «singolare, ma non eccezionale» – e fornisce strumenti
chiave per organizzare movimenti antisistemici in grado di rispondere a un
capitalismo in crisi.
Vorrei
iniziare chiedendole del concetto da lei sviluppato di «natura a basso costo».
In che modo questo concetto è rilevante oggi per affrontare la crisi ecologica?
Il
capitalismo è un sistema di natura a basso costo. La natura a basso costo
include non solo i suoli e i ruscelli, i campi e le foreste, ma anche la forza
lavoro umana. La storia del capitalismo, da Colombo nel 1492 fino ai nostri
giorni, è la storia di una lotta per la natura a basso costo. La natura a basso
costo include ciò che chiamo i quattro elementi a basso costo, o i quattro “a
basso prezzo”: lavoro a basso costo, cibo a basso costo, energia a basso costo
e materie prime a basso costo. Affinché il capitalismo possa superare le sue
crisi, deve ridurre il prezzo della forza lavoro, del cibo, dell’energia e
delle materie prime, aumentandone al contempo il volume. La natura a basso
costo non riguarda solo come i capitalisti abbassano il prezzo di questi
quattro elementi, ma è anche un processo di svalutazione nel senso del termine
inglese “cheapening”, relativo a privare di dignità e rispetto. Questo è ciò
che tutti i grandi imperi hanno fatto: svalutare la vita e il lavoro della
grande maggioranza.
Cosa implica
includere la forza lavoro come parte della natura a basso costo?
Nonostante
oggi si dica che l’umanità sia la causa del cambiamento climatico, la realtà è
che per gran parte della storia del capitalismo quasi tutta l’umanità è stata
collocata nel regno della natura. Parafrasando la grande economista politica
Maria Mies, il capitalismo si nutre del lavoro non retribuito delle donne,
della natura e delle colonie. Le fonti della natura a basso costo risiedono
nella trama della vita, ma i meccanismi per produrla ed estrarla implicano
dominio e oppressione. Pertanto, quando parliamo di natura a basso costo, non
ci riferiamo solo alla natura biofisica e biologica, ma anche ai tentativi,
dall’alto, di svalutare la vita umana e l’intera trama della vita.
Recentemente
ha scritto sulla fine di questa natura a basso costo, sul termine del processo storico
per cui il capitalismo non paga i suoi conti. L’economista Daniela Gabor
analizza come i poteri pubblici riducano il rischio dei privati investendo
somme sempre maggiori per spostare la crisi ecologica. Fino a che punto
possiamo dire che il denaro a basso costo sia una strategia per evitare la fine
della natura a basso costo?
Il
capitalismo non risolve mai le sue crisi. Le sposta soltanto. Dalla fine degli
anni ’80 fino a forse tre anni fa, l’era neoliberale è stata segnata da una
politica monetaria espansiva di denaro a basso costo. Lo abbiamo visto in
Giappone, in Europa o negli Stati Uniti. Oggi, questo sembra essere finito. E
questo ci dice qualcosa di importante in risposta alla sua domanda: il
capitalismo non risolve mai le sue crisi. Le sposta semplicemente da un posto
all’altro. Ma può spostarle solo muovendosi verso nuove frontiere di denaro a
basso costo, lavoro a basso costo, cibo a basso costo, energia a basso costo,
materie prime a basso costo e rifiuti a basso costo. Tutte queste frontiere
oggi sono state recintate. La fonte della vitalità del capitalismo era
spostarsi verso nuove frontiere e poi organizzare nuove e vaste rivoluzioni
industriali. Oggi questo è finito, definitivamente.
Oggi
assistiamo anche alla fine del cibo a basso costo. Dal 2008, i prezzi
alimentari sono schizzati in tutto il mondo, principalmente perché il capitale
è fuggito dalla crisi dei mutui subprime alla Borsa di Chicago per speculare su
materie prime e alimenti. I poteri pubblici stanno investendo somme enormi per
contenere i prezzi del cibo, perché sanno che è una delle cause del malessere
sociale. Questo sta accelerando la concentrazione di potere nelle grandi
aziende agroindustriali e aggravando la crisi ecologica, che a sua volta fa
aumentare il prezzo del cibo. Come rompere questa spirale?
Analizziamo
il rapporto del capitalismo con l’agricoltura. Se risaliamo al XVI secolo,
vediamo che il modello di rivoluzione agricola lanciato dal capitalismo ha
avuto successo. Ciò che ha fatto è stato produrre sempre più cibo con sempre
meno forza lavoro. Questo ha liberato manodopera per lavorare in fabbriche e
cantieri navali, trasferirsi nelle città e favorire lo sviluppo economico
moderno. Tutte le grandi epoche d’oro, da quella inglese e olandese nei secoli
XVI e XVII fino al secolo americano, si sono basate su una rivoluzione agricola
che riusciva a produrre sempre più cibo affinché il suo prezzo calasse, facendo
diminuire anche il prezzo della forza lavoro. Il rapporto tra alimentazione e
forza lavoro è strettissimo, poiché il prezzo del cibo condiziona quello della
manodopera. Quell’epoca è finita. Lo sappiamo dal progressivo rallentamento
della produttività agricola in tutto il mondo, specialmente nelle aree che
furono il cuore della rivoluzione verde, come gli Stati Uniti o l’India.
L’alimentazione è una delle principali questioni politiche del presente, una
questione di ordine sociale e di instabilità politica. Due delle maggiori
rivoluzioni della storia mondiale moderna, quella francese e quella russa,
furono provocate da problemi alimentari. Il cambiamento climatico oggi rende
impossibile una nuova rivoluzione agricola capitalista nei termini che ho
descritto.
Vorrei
approfondire il concetto di capitalocene e cosa propone da un punto di vista
analitico.
L’antropocene
significa, letteralmente, l’era dell’uomo. Viene presentato come un fatto
evidente, come una nuova era geologica. In realtà, è un argomento politico
nascosto sotto l’illusione della buona scienza. Non c’è nulla di originale nel
concetto di antropocene. Non è altro che un cambio di nome dell’olocene. Il
concetto di capitalocene è una provocazione. È un tentativo di deridere e
ridicolizzare il pensiero autoritario che risale a Malthus alla fine del XVIII
secolo. Malthus pensava che la sovrappopolazione fosse la fonte della
disuguaglianza, il che era molto comodo per lui e i suoi amici ricchi, perché
così non dovevano assumersi alcuna responsabilità per il marcato aumento della
disuguaglianza in Inghilterra alla fine del XVIII secolo. Secondo la sua logica,
la disuguaglianza non era colpa dei capitalisti, dello sfruttamento o delle
recinzioni, ma della natura e della legge naturale, del fatto che, secondo
loro, i poveri avevano troppi figli. Altre versioni di questo argomento
sarebbero apparse in seguito. Alla fine del XIX secolo, un altro periodo di
profonda rivolta sociale, fu il darwinismo sociale e la rivoluzione eugenetica.
Nel 1968,
nel momento delle rivolte del Terzo Mondo e dell’Occidente imperialista,
abbiamo un ambientalismo dominante, quello che Martínez-Alier chiama
l’ambientalismo dei ricchi. Ogni volta che la classe dominante si sente
minacciata, torna all’idea della natura e della legge naturale perché è più
facile giustificare ideologicamente guerra, violenza e disuguaglianza
attraverso un conflitto eterno tra uomo e natura, che spiegarlo come una guerra
di classi tra la grande maggioranza, contadini e lavoratori, e la classe
capitalistica.
E da un
punto di vista politico? In che modo direbbe che il Capitalocene è fondamentale
per le forme attuali di organizzazione e per i movimenti antisistemici odierni?
Il
capitalocene afferma che le origini della crisi climatica risalgono all’epoca
di Colombo. Lo sterminio delle popolazioni del Nuovo Mondo per schiavizzarle
contribuì al severo cambiamento climatico del XVII secolo. Il capitalocene è
anche un modo per dire che il cambiamento climatico è responsabilità della
classe capitalistica, dell’1% della popolazione o, oggi, dello 0,1%. E che i
responsabili del cambiamento climatico hanno nomi e indirizzi. Basti pensare
alle 150 imprese transnazionali responsabili di oltre il 70% delle emissioni
globali di carbonio e gas serra dal 1850. Come per la tratta degli schiavi,
sappiamo chi è responsabile della crisi climatica. È un crimine contro
l’umanità, un ecocidio. E i responsabili devono risponderne. Hanno nomi e
indirizzi, sappiamo chi ha commesso il crimine, possiamo agire. Pertanto, il
capitalocene è un modo per sottolineare che i problemi della vita planetaria e
della crisi climatica possono essere attribuiti alle classi capitaliste
dell’Occidente imperialista.
Prima ha
citato l’opera di Maria Mies e la sua analisi di come il capitalismo si
appropri del lavoro delle colonie, delle donne e della natura. Nel suo pensiero
ha sviluppato un’idea simile, la distinzione tra appropriazione e sfruttamento,
proposta anche da Nancy Fraser. Questa distinzione è fondamentale per costruire
alleanze tra il movimento ecologista e altre lotte, come quelle sindacali o per
la casa. In che modo ritiene che questa distinzione possa essere politicamente
utile?
Non ci sono
lotte ecologiche separate dalla questione lavorativa. Questo è il primo
argomento che i socialisti devono sostenere: che la crisi climatica è una
questione lavorativa, come dice Matthew Huber, una guerra di classi. Il
razzismo, il sessismo e l’imperialismo esistono con un solo scopo: aumentare il
tasso di profitto e ampliare le possibilità di accumulazione della superclasse
planetaria. Ciò che ha fatto Maria Mies, la grande sociologa femminista e
marxista tedesca, è stato attirare la nostra attenzione sulle dinamiche
dell’oppressione e del lavoro non retribuito nella formazione delle classi
lavoratrici. Il proletariato, la classe operaia, non è definito solo dal
rapporto di lavoro salariato. Tutte le famiglie della classe lavoratrice
dipendono da grandi quantità di lavoro non retribuito. Si tratta di una
strategia di natura a basso costo che riduce il prezzo della forza lavoro. Il
tempo di lavoro socialmente necessario è determinato da processi politici di
dominio che estraggono il lavoro non retribuito socialmente necessario dalle
donne, dalla natura e dalle colonie.
Il
capitalismo non è, in senso stretto, un sistema economico. Contiene un sistema
economico, ma è un sistema sociale che organizza la trama della vita e che va
ben oltre il controllo di qualsiasi civiltà, dei cicli solari, dell’orbita
terrestre, delle eruzioni vulcaniche.
La crisi
capitalista ed ecologica si dispiega attraverso ciò che Neil Smith descrisse
come sviluppo ineguale. Questo sviluppo ineguale è causa e conseguenza della
competizione interna del capitale. A che punto siamo 40 anni dopo che Neil Smith scrisse il
suo libro?
La dinamica
competitiva, che è al cuore del capitalismo, è finita. In tutti i principali
settori economici del mondo dominano quattro, forse cinque aziende. Non importa
se guardiamo agli appaltatori militari, alle grandi aziende farmaceutiche, ai
media, alla produzione automobilistica o alle grandi aziende tecnologiche: ci
sono quattro o cinque aziende per settore. Questo è ciò che gli studiosi hanno
chiamato capitalismo monopolistico, ma ciò che vediamo oggi supera la loro
immaginazione più sfrenata. Allora, che tipo di capitalismo è questo? È un
capitalismo zombi. Sotto il capitalismo zombi, le basi della vitalità sono
scomparse, ma il corpo rimane. Il capitalismo è morto dentro, ma rimane per
nutrirsi del cervello dei vivi. Così lo ha descritto Nancy Fraser in Il
capitalismo cannibale.
Quale ruolo
hanno i poteri pubblici nel sostenere le contraddizioni insite nel capitalismo
zombi?
Gli Stati
Uniti hanno partecipato a circa 170 interventi militari dal 1999. Man mano che
la crisi climatica si intensifica, lo stesso fa la macchina da guerra che viene
da Washington. Gli ambientalisti devono prendere questo aspetto molto sul
serio. La capitalizzazione di borsa delle 50 aziende più grandi del pianeta
equivale al 30% di tutta l’attività economica globale. Questo è un livello di
centralizzazione estrema ed è legato alla relazione strettamente interconnessa
tra capitale e Stati. Negli Stati Uniti, nella relazione tra Goldman Sachs,
Wall Street e la Casa Bianca, o tra Silicon Valley e la Casa Bianca, o tra gli
appaltatori militari e la Casa Bianca, vediamo sempre le stesse persone. Questo
solleva questioni fondamentali sulla democrazia, persino sulla democrazia
limitata che ci è stata concessa sotto il capitalismo. In tutto il mondo
assistiamo a una crisi della democrazia liberale che ha le sue radici nella
fine della natura a basso costo. Non può essere superata, non lo sarà. Ciò che
avrà successo è una qualche forma di accumulazione con la politica al comando,
che peraltro è la condizione normale della civiltà prima del capitalismo.
Sta parlando
dell’era della guerra e del suo rapporto con il collasso ecologico. In che modo
il genocidio a Gaza è legato all’ecocidio?
Gaza è
singolare, ma non eccezionale. La storia del capitalismo è una storia di
genocidi ricorrenti. La logica di base dell’imperialismo è quella di un
progetto civilizzatore – ovviamente lo dico con sarcasmo – che stabilisce due
zone. Una zona in cui vige una regolarità simile a quella di una legge nei
centri imperialisti, e zone di sacrificio in tutti gli altri luoghi. E chi
abita le zone di sacrificio? I selvaggi – è così che pensano gli imperialisti,
è così che parlano. Prima erano selvaggi, poi sono diventati sottosviluppati. È
così che gli imperi si vedono, come civilizzatori. E chi stanno civilizzando? I
selvaggi, gli esseri umani che non sono del tutto umani, che non sono pronti
per i mercati, per la democrazia, per la civiltà. Dobbiamo insegnare loro,
dicono, e se non possono essere istruiti, vanno cancellati dalla faccia della
Terra. Tutto questo è, alla lettera, la retorica del governo israeliano per
giustificare i suoi crimini a Gaza. I tedeschi della Seconda Guerra Mondiale
usavano la stessa retorica. I britannici in India avevano la stessa retorica.
Possiamo
fare innumerevoli esempi, che si tratti dell’impero americano, di quello
britannico o di quello olandese prima di loro. Questa è anche la storia dei
genocidi indigeni che si sono succeduti nei secoli XIX e XX in Nord America.
Questa dinamica che ho appena descritto è anche la dinamica di come si produce
la natura a basso costo, quando gli esseri umani diventano parte della natura e
vengono trattati come oggetti sacrificabili, come qualcosa che può essere
dominato in nome del profitto.
Nel corso
del suo lavoro, ha sviluppato il concetto di ecologia-mondo, cercando di
descrivere come, nelle diverse ere del capitalismo, il lavoro, l’energia,
l’alimentazione e la natura si combinino in modi differenti. Quali forme di
resistenza immagina o ritiene necessarie in questa fase dell’ecologia-mondo?
Abbiamo
bisogno di tutte le forme di resistenza, ma soprattutto, non basta resistere.
Storicamente, l’espansione e la crescita del capitale nel corso dei secoli
hanno permesso un modesto processo di riforme graduali, soprattutto
nell’Occidente imperiale. Ad alcune parti della popolazione mondiale si poteva
offrire qualche carota in più, per usare una metafora. Quando non ci sono carote,
restano solo i bastoni. Oggi non ci sono più carote. E una cosa che sappiamo
storicamente; c’è un libro importante di Walter Scheidel, The Great
Leveler, che affronta questo punto, è che nessuna redistribuzione della
ricchezza e del potere dai ricchi ai poveri è mai avvenuta senza violenza. Non
perché la gente sia violenta, ma perché le classi dominanti vogliono conservare
ricchezza e potere con ogni mezzo necessario.
Il contesto
della fine della natura a basso costo solleva nuove e spinose questioni politiche
per i movimenti sociali degli inizi del XXI secolo. Dobbiamo sviluppare una
strategia politica che vada oltre la fallimentare politica dell’orizzontalismo,
affinché il potere politico estenda la democrazia in questo momento di crisi.
Intervista pubblicata
sul sito della rivista online “CTXT“, che ringraziamo per la gentile
concessione. Traduzione in italiano di Alessia Arecco per DINAMOpress
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