È sempre più
necessario un contrasto netto alla violenza ma in tutte le sue forme,
intrecciate le une alle altre in una consequenzialità spesso indiretta, eppure
ricostruibile, se solo lo si voglia. Di sicuro, all’interno di un discorso
sulla violenza – la sua genesi, le sue manifestazioni, i modi per contrastarla
– non è più possibile prescindere da considerazioni che riguardino la pratica
crudele della caccia
“Il diritto di uccidere un cervo o una
mucca è l’unica cosa sulla quale l’intera umanità sia
fraternamente concorde, anche nel corso delle guerre più
sanguinose”1
La critica alla caccia non si limita oggi a particolari modi o tempi, ma è
globale nel senso che ne mette in discussione la stessa essenza, la sua
liceità, tanto che alcune associazioni hanno promosso una raccolta
firme, grazie a cui verrà portata in senato una Proposta di Legge per la sua
abolizione. Abolizione, non limitazione nel tempo e nello spazio, nel
rilascio di autorizzazioni o nel numero delle specie cacciabili. Abolizione,
perché nulla di ciò che questa attività comporta può essere considerato
accettabile. Proprio come nulla di accettabile può essere rintracciato nelle
guerre, quelle alle quali ci eravamo illusi, nel mondo occidentale, di avere
posto fine: le avevamo in realtà solo spostate un po’ più in là, in tutti
quei paesi da cui è stato semplice fare filtrare solo rare informazioni,
facilmente stipabili nel grande magazzino del rimosso. Per poi risvegliarci un
giorno dal torpore e prendere atto che i governi, il nostro e gli altri, non
avevano mai interrotto una smisurata produzione di armi. Perché, oggi si
sentenzia, si vis pacem para bellum: ignorando la replica
all’antico enunciato, secondo cui, invece, se vuoi la pace è la pace che devi
preparare. Elementare Watson.
E se la pace la vuoi preparare, è necessario un contrasto netto e
preciso alla violenza in tutte le sue forme, intrecciate le une alle altre in
una consequenzialità spesso indiretta, ma ricostruibile, se solo lo si voglia.
È lo psicologo Stephen Pinker ad affermare che, se la si vuole combattere,
bisogna prima di tutto riconoscerla, al di là delle mistificazioni a cui è
sottoposta, e poi avversarla in tutte le sue manifestazioni “dalle sculacciate
educative date ai bambini alle dichiarazioni di guerra tra le nazioni”2 . Innegabile che la necessità dell’abolizione
della caccia, che è regno assoluto di crudeltà e disumanità, occupi un posto d’onore
nella ricerca, visionaria o meno che sia, di un mondo pacificato.
La caccia: la migliore educazione alle pratiche di guerra3
Per altro esiste un particolare puntuale parallelismo colto in ogni epoca
tra caccia e guerra: ”La guerra è la continuazione della caccia”,
diceva Lev Tolstoj, e la caccia è sempre stata considerata una
raffigurazione ritualizzata della guerra, un suo sostituto ugualmente
sanguinario, ma molto più rassicurante vista la mancata controffensiva del
nemico immaginario.
Se in tempi molto lontani la sua crudezza poteva trovare giustificazione
nella lotta per la sopravvivenza umana, oggi neppure i suoi cultori si
sognerebbero mai di sostenerlo; se comportava coraggio, audacia, forza fisica,
oggi comporta se mai esercizio di pusillanimità, data la smisurata sproporzione
di forze in campo e la non belligeranza degli animali che, nemici
inconsapevoli di esserlo, hanno nella fuga l’unica disperata possibilità di
salvezza. E, per gli occidentali, si risolve tutta in attività di svago e
ricerca di piacere, alternativa ad una partita a tennis o a calcetto, per
intenderci.
Le vittime di tanto accanimento sono a volte uccellini di pochi centimetri
di lunghezza e pochi grammi di peso, letteralmente disintegrati dai pallini, ma
anche quelli che piace considerare feroci non hanno scampo davanti alle armi in
dotazione del moderno cacciatore, novello Rambo, che si avvia alla guerra
unilateralmente dichiarata con fucile in spalla e portamunizioni in vista,
invaso da grande fascinazione anche per tuta, cinturoni stretti,
stivali o scarponi, per attraversare terreni un po’ umidi manco
fossero le paludi del Vietnam. Così bardato, trasforma la propria identità in un’altra
fittizia, definita dall’abbigliamento e dai temibili accessori, grazie a cui
anche un fisico più adatto alla tranquillità di uno sportello postale, così
travestito, può ambire ad una sua rivincita macha, pronta allo
sterminio, al servizio di virile quanto farlocco autocompiacimento.
Spara, spara, spara qui…
È indiscutibile che il vero motore della caccia si scalda e rimbomba là
dove albergano forme di aggressività e violenza, tanto virulente da
lasciare sul terreno vere e proprie carneficine, frutto di un crescendo di
esaltazione e delirio fuori controllo, che, nei territori di caccia, porta a
non saturare mai la pulsione a uccidere. Pulsione di cui non ci si vergogna, ma
che è anzi fonte di vanto, a giudicare da tante foto di fine battuta che, sui social,
immortalano stuoli di vittime stese intorno al sedicente eroe tronfio e
soddisfatto.
Sanno bene i legislatori che questa passione è talmente travolgente da non
poter essere controllata da chi la sperimenta e da richiedere di conseguenza un
controllo esterno, quello delle leggi appunto, le quali, per quanto permissive,
non possono astenersi dal porre freni a quello che altrimenti sarebbe uno
sterminio ancora più smisurato di quelli attualmente tollerati. Lo fanno,
stabilendo limiti ai giorni e agli orari consentiti, nonché al numero di
individui e alle specie da bersagliare. Limiti, come si evince dalla lettura
dei siti venatori, vissuti con insofferenza, con rabbiosa inquietudine, perché il
divieto di sparare, come succede in amari tempi di caccia chiusa, provoca
malessere, una sorta di crisi di astinenza, tenuta a bada dalla certezza
che l’attesa impaziente avrà presto fine: il momento in cui, finalmente, la
caccia si riaprirà si avvicina giorno dopo giorno, ponendo fine all’inquieto
count down: “Mi manca l’inebriante profumo, quell’aroma di polvere da sparo
torrefatta che si sprigiona dalle canne della doppietta quando la si apre, e
nell’aria volano ancora le piume del fagiano”4.
Il numero dei cacciatori, in caduta libera in Italia tanto che oggi
rappresenta circa lo 0,7% della popolazione, vede una netta prevalenza di
persone anziane, tra i 65 e i 78 anni, che preoccupa non poco le
associazioni, incapaci di capire, anche se non dovrebbe essere così difficile
riuscirci, le ragioni di un tale disamore da parte delle nuove generazioni,
quelle colpevolmente impregnate di ecologismo, di animalismo, a volte
addirittura di antispecismo. Al momento, cercano di contrastare
l’assottigliarsi delle loro fila, dilatando l’attivismo degli irriducibili,
anche quelli un po’ ammaccati dalle ingiurie della vita. Tra loro, i più ricchi
suppliscono alle inefficienze senili andando in terre lontane, dove sarà sempre
possibile, dai rassicuranti sedili di un elicottero, affidare il compito ambito
a un giovane del luogo, dalla mira precisa, che colpirà in subappalto l’animale
in fuga, elefante, tigre o leone che sia. L’attempato ma non domato cacciatore,
scambiando con un po’ di malafede il potere del denaro con quello
dell’efficienza personale, mira precisa e braccio fermo, trarrà ancora grandi
soddisfazioni, proprio come se lo avesse colpito lui, nel vederlo accasciarsi e
poi morire, emozioni tanto più travolgenti quanto più la vittima sarà raro o
addirittura in estinzione: è un vezzo da classe sociale particolarmente elevata
uccidere qualcuno (loro sembrano pensare qualcosa) di unico o pregiato.
Non è, questo approccio critico all’essenza stessa della caccia, frutto di
un’analisi artefatta, di una interpretazione prevenuta: è anzi totalmente in
sintonia con il pensiero dei cacciatori stessi, quale emerge persino negli
stralci di conoscenza di sé che loro stessi offrono, nei loro siti5 quando si confrontano con entusiasmo, cuore in
mano, su tutto ciò che l’attività che li affratella smuove in loro: eccoli allora a
celebrare la “magia della caccia”, a pregustare “una palpitante avventura”, a
esaltare la “passione”, a crogiolarsi nell’”euforia”, ad abbandonarsi
all’ebbrezza”: stati d’animo emotivamente alterati, che anticipano il
piacere di trovarsi davanti al sangue degli animali colpiti, alle urla di
quelli solo feriti, alla fuga impazzita di quelli che ancora sperano. Se non
altro si deve dar loro atto di ottime competenze introspettive, nell’auto
riconoscimento di emozioni e stati d’animo, già preannunciati da titoli di
articoli quali Il sapore della caccia che sono tutto un
pregustare, un sentire sensorialmente il gusto stuzzicante della morte cruenta,
che infliggeranno alle povere bestie.
Premono il grilletto. E la natura scompare6
Per altro è un grande scrittore, Lev Tolstoj, cultore della caccia prima di
diventarne acerrimo nemico, a ricordare, in una sorta di racconto catartico, di
avere tante volte sperimentato quelle che lui stesso definiva la delizia e la
voluttà davanti alle bestie agonizzanti, la soddisfazione nell’essere stato
artefice di tanto dolore 7.
C’è di che rimanere basiti davanti a ciò che può albergare nella psiche
umana: e allora, alla ricerca dell’origine di quel vuoto etico che è il brodo
di cultura della passione venatoria, bisogna addentrarsi ancora di più
nelle emozioni e nei pensieri dei suoi cultori; si viene allora a contatto
con elementi che dovrebbero essere fonte di grande preoccupazione: perché nei
loro comportamenti prepotenti e brutali la fa da padrona quella assenza di
empatia che esonda in psicopatia nel piacere dichiarato di essere
artefici della sofferenza e della morte di esseri senzienti. Soprattutto appare
virulenta una forma grave di sadismo, nell’accezione
psicologicamente corretta del termine, che lo definisce quale “tratto del
carattere proprio di chi si compiace della crudeltà”8, tratto a volte innato, spesso collegato a
risposte culturalmente apprese; sadismo che si crogiola nel piacere generato
dal provocare dolore o dal senso di potenza personale che deriva dalla capacità
di sopraffare l’altro. Nulla di nuovo sotto il sole, visto che già lo
psichiatra Karl Manninger (1893-1990) affermava che il sadismo potesse assumere
una forma socialmente accettabile nella caccia, rappresentante delle energie
distruttive e crudeli dell’uomo verso le creature più indifese9.
Mentre altri studiosi si spingono ad ipotizzare una particolare forma di
questa componente del carattere, strettamente connessa alla sessualità10. Dice la psicologa Margaret Brooke-Williams: “Si
tratta di una riscoperta della virilità e del senso di potenza maschile sopito
dalla vita urbana. Questo sentimento di potenza offre temporaneo sollievo al
disagio psicologico dei cacciatori”. Teoria suffragata dallo psicologo sociale
Rob Alpha secondo cui nella pulsione sessuale e nella compulsione a cacciare e
uccidere vengono attivate le stesse aree cerebrali. Per altro lo stesso Sigmund
Freud si riferiva a volte al sadismo per indicare la fusione di sessualità e
violenza.
È possibile trovare ispirazione per altri approfondimenti in resoconti
quali un’illuminante intervista su l’Adige.it (02.09.2012) a un’esponente femminile
del mondo venatorio, tale contessa Maria Luisa Pompeati, della
stirpe dei von Ferrari Kellerhof: sulla scia dei suoi colleghi maschi,
definisce la caccia un atto d’amore, una passione intensissima che l’ha
accompagnata nella crescita. Riferisce della sensazione meravigliosa del
momento dell’uccisione, in cui l’animale diventa tuo per sempre. Perché, dice,
la caccia è il momento culminante di una passione intensissima che la lega
all’animale, che lei vuole possedere: dopo averlo centrato, corre da lui,
prende la sua testa tra le mani, l’accarezza e lo bacia. Mangiarlo è, in
seguito, l’ultimo atto del possesso. È lecito ipotizzare che alcuni gesti quali
l’accarezzare e il baciare la vittima appartengano piuttosto a particolari
vezzi della femminilità della contessa e non siano particolarmente diffusi tra
i cultori della caccia, ma di certo vi risuona l’eco delle convinzioni di Rob
Alpha. A parte ciò, tutto il resto è normale cronaca emotiva di una battuta di
caccia.
Dalla parte delle vittime
In tutto questo, non emergono pensieri per gli animali, che
pagheranno il prezzo di quelle battute di caccia, che definire arte (per
venatoria che sia) è quanto meno un azzardo linguistico. Sono loro i
grandi assenti, gli invitati di pietra alla grande kermesse venatoria, al
delirio dell’uccidi più che puoi: assenti sono il cervo senza scampo che
chiede grazia con le sue lacrime, nelle parole di Montaigne; la cerva che
assiste il maschio ferito, con la testa levata al cielo e l’espressione piena
di cordoglio, in quelle di Tolstoj; quelli che sentiamo ansimare nei filmati
dai luoghi della carneficina: volpi stanate da buche profonde, rifugio vano da
cani che le estraggono strappando loro la pelle, e aprono la strada al
cacciatore di turno, appostato nei dintorni, armato del suo fucile e della sua
viltà.
È un guardiacaccia, Giancarlo Ferron 11, che racconta di caprioli in fuga, inseguiti per
giorni, che corrono con la schiuma alla bocca, senza più fiato, tremanti
e sfiniti con la bocca spalancata per la fame d’aria; racconta di cacciatori
che hanno due o tre mute di cani, per sostituire quella sfiancata
nell’inseguimento di un capriolo, che lui però di sostituti non ne ha;
ancora racconta di animali che si suicidano buttandosi dalle rocce, pur
di sottrarsi allo sbranamento annunciato dai latrati che si fanno più vicini.
Che nessun animale possa sottrarsi alla furia omicida dei cacciatori,
elefanti o uccellini di pochi grammi lo dice bene un bambino nel colorito
spirito napoletano quando constata che “sparerebbero pure alla colomba dello
Spirito santo”12 compendiando così l’incontenibile impulso ad
andare ad ammazzare esseri di ogni genere e taglia, giovani o vecchi, che
volino o corrano: purchÉ respirino.
La caccia. Un vero suicidio morale13
Descrizioni tormentate sono anche quelle di Lev Tolstoj, quando, da
cacciatore da molto tempo pentito, ricorda con tormento lo spasimo pieno di
terrore delle sue vittime in agonia, la sopraffazione del più forte sul più
debole, l’assalto di molti a uno solo, del forte contro il debole, della
sottrazione dei piccoli alle madri e viceversa: un universo di azioni tanto
orribili da indurlo a definire la caccia un vero suicidio morale.
Parlando di conseguenze nefaste dell’attività venatoria si può continuare
con i morti e feriti di ogni stagione, di cui mantiene un accurato
conteggio l’Associazione Vittime della Caccia14 vittime che sfilano a passi felpati nei
trafiletti dei giornali, così da poco disturbare governi e partiti, sempre in
tutt’altre faccende affaccendati e magari un po’ imbarazzati. Perché si tratta
non di malasorte, ma delle inevitabili conseguenze di un’attività che comporta
l’uso continuo di armi, per moltissimi giorni all’anno, e svariate ore quotidiane,
in uno stato d’animo in continua tensione. Quando imperizia, imprudenza,
mancato controllo emotivo, deliri di onnipotenza, possono contare sul possesso
di un fucile caricato a pallettoni, che l’esito possa essere mortifero non può
certo meravigliare.
L’uomo e il cane: un’amicizia unilaterale
E che dire delle altre vittime oscurate, i cani, trasformati in aiutanti
killer mediante un addestramento vigoroso, notoriamente trattati come oggetti
d’uso, tenuti normalmente in gabbie da cui escono solo per andare a servire il
loro padrone, maltrattati, crudelmente puniti? Le cronache raccontano
dell’abbandono e della soppressione dei “soggetti” non idonei e di quelli da
annoverare tra le vittime accidentali di colpi sparati a casaccio.
A completamento, è una novella cacciatrice, Catia, a fornire nella sua
intervista15 on line un grazioso particolare, quello tanto
diffuso da meritare un termine ad hoc, la frustata, vale a dire una
fucilata che abitualmente i cacciatori sparano nel sedere di cani disobbedienti
o lenti nell’apprendimento (“la famosa frustata” dice), metodo di
addestramento da cui lei però si vanta di smarcarsi.
I bambini ci guardano16
Caccia che allunga le sue ombre lunghe anche in un campo colpevolmente
trascurato, quello delle ricadute su bambini e ragazzi, che certo
per legge a caccia non ci possono andare, almeno in Italia dove l’età minima è
di 18 anni, ma che, sempre dalla lettura delle chat dei cacciatori,
risulta che non raramente “accompagnino”, perché questo è permesso, i
grandi, senza sparare, fin da età davvero improbabili: nove, dieci, undici
anni, con qualche eccezione, udite udite, per bambini (accidentalmente anche
bambine) di quattro anni. Grandi che non stanno più nella pelle per insegnare
alla discendenza il mestiere e, impazienti, vogliono nell’attesa condividere le
dilaganti emozioni. Potrebbe sembrare roba da marziani, ma non è necessario
espatriare su un altro pianeta, perché è sufficiente oltrepassare la Manica:
là, tutta la famiglia reale, generazione dopo generazione, ha
goduto di un tirocinio precocissimo a quello che ritengono sport of the
kings. Ahimè, non solo dei re. Il problema è che neppure il velocissimo
srotolamento dei tempi, con tutti i cambiamenti che si succedono alla velocità
della luce, pare intaccare la loro idolatria per la tradizione, per mortifera
che sia: l’ultima vittima è l’ancora innocente (?) principe George, che risulta
avere partecipato alla caccia al gallo cedrone a sette anni (con papà) e pare
si appresti ad uccidere il suo primo cervo ora che ne ha compiuti dodici.
Che dire? Quasi meglio tornare alle cose di casa nostra: e provare a
riflettere che figli o nipoti di cacciatori crescono alla presenza costante di
una, ma più spesso più armi, presenza che, nella sua normalità, non provoca
inquietudine, ma assuefazione: tutto normale, un po’ come il portaombrelli o le
piante da arredamento. Normale sarà anche l’attenzione di cui le vedranno
oggetto da parte del cacciatore di famiglia, che le maneggerà con cura (almeno
si spera), quali oggetti di culto, preziosi ferri del mestiere, capaci di
trasformare in realtà il sogno sognato del prossimo trofeo. E normali, nella
loro ripetitività, saranno i comportamenti, i rituali di accompagnamento:
levatacce antesignane, rientri appagati se con accettabile numero di vittime, o
malcelati malumori per uno scarso bottino. E si conosceranno gli stati d’animo:
l’ansia dell’attesa, i racconti grondanti eccitazione per l’avvistamento
dell’animale da colpire, il non dargli tregua fissandolo nell’occhio del mirino
o inseguendolo insieme ai cani godendo del suo terror panico. E finalmente
colpirlo.
Ora, banale ricordare che i bambini imparano ciò che viene loro
insegnato, che il giusto e lo sbagliato, il bene e il male sono concetti
che prendono forma in funzione delle convinzioni e dell’accezione che i grandi
di riferimento danno alle situazioni. E i primi anni di vita sono fondamentali
per creare le proprie rappresentazioni del mondo e dei valori della vita,
frutto del modellamento educativo, basilare nella strutturazione del carattere
e della personalità. Anche l’empatia, vale a dire la capacità di identificarsi
con le emozioni e gli stati d’animo dell’altro e di sentirli riverberare su di
sé, condizionando il proprio comportamento, dipenderà in grande parte dalla
possibilità di apprenderla se presente come modello a cui affidarsi. Se tale
modello è strutturato sulla crudeltà verso creature deboli, sul piacere nel
provocare loro dolore e morte, il piano educativo produrrà speculari
contraccolpi psicologici nei più giovani.
In estrema sintesi, non esiste dubbio che la violenza contro gli animali
vada nella direzione dell’introiezione di modelli aggressivi e prevaricatori,
basati sul diritto della forza. Vale la pena ricordare che, dal 2005 la
Violenza Assistita, quella quindi non subita in prima persona, ma come
testimone di quella agita su altri o percepita o anche solo sentita raccontare
è ufficialmente entrata nel novero delle violenze sfavorevoli infantili,
sfavorevoli rispetto a un sano ed armonico sviluppo della personalità. E quella
agita sugli animali è a tutti gli effetti inserita tra le forme prese in
considerazione: al di là delle teorizzazioni, emerge in modo drammatico dai
racconti di adulti che mai hanno potuto dimenticare lo strazio vissuto da
piccoli assistendo allo scempio su un animale, spesso ad opera dello stesso padre.
Non basta tutta una vita per dimenticare, ma neppure per sfoltire un dolore
che, nel momento del racconto, esplode con tutta la virulenza di un dramma
appena accaduto.
La caccia come tarlo sociale
Insomma: ce ne è davvero abbastanza per riflettere seriamente sulla caccia
come tarlo sociale e agire di conseguenza: perché la sua struttura portante è,
in estrema sintesi, il piacere di praticare violenza contro individui inermi.
“Quando capiremo, a fatti e non a parole, che le scelte esercitate contro
gli animali sono anche scelte contro di noi?”17.
Viviamo in tempi cupissimi, dove anche noi, abitanti di un
mondo occidentale che in molti pensavamo in costante crescita verso
l’estensione dei diritti, ci siamo ritrovati davanti al baratro di un’umanità
disumanizzata. Siamo qui a chiederci come tutto quello che sta succedendo stia
davvero succedendo: troppo per essere anche solo pensato, perché il pensiero
stesso si ribella al farsi contaminare dal regno dell’odio, dal dilagare
dell’indecenza e di una crudeltà che nessuna specie vivente potrebbe mai
ideare. Nessuna tranne la nostra, che è la più devastante, crudele e
pericolosa. Che mai, nemmeno in nessun periodo di pace, ha smesso di sentirsi
in diritto di praticare alla luce del sole le più orrende forme di supplizio
sugli altri animali e, in modo variamente occulto, sugli altri esseri umani.
Oggi il mondo tutto sembra allargarsi a normalizzare ogni forma di indecente
prepotenza, contro chiunque, senza neppure più vergognarsene; il mondo
venatorio, in contemporanea, pretende un po’ di spazio in più: molti più
uccellini da accecare per richiamare i loro conspecifici davanti al cacciatore
lì pronto ad impallinarne quanti potrà; licenza di sparare agli uccelli
migratori, esausti per viaggi interminabili; ribaltamento di sentenze del TAR
per consentire il massacro anche nei valichi di montagna. E poi orsi, lupi,
nutrie: tutti trasformati in bersagli, con la benedizione delle autorità, in
una moderna riedizione di quel Far West dove era la colt ad accogliere ogni
estraneo sgradito.
Ci si aspetterebbe che i cacciatori, numericamente in dissesto, le loro
straricche lobbies, quei politici afasici e indifferenti a un volere popolare
dichiaratamente contrario, prendessero consapevolezza dell’insostenibilità
morale dell’attività venatoria.
A tutti noi il compito di riconoscere le mistificazioni in atto,
implicitamente sostenute in modi diversi: per esempio con la vendita stessa delle
armi accanto agli sci o ai costumi da bagno nei negozi sportivi,
giusto per sdoganare l’idea che farsi una nuotata o massacrare un cinghiale è
solo una questione di gusti individuali. Mistificazioni sorrette anche
attraverso richieste dei cacciatori per entrare nelle scuole nella
veste di testimonial della natura e, udite udite, difensori degli animali.
Che vanno ad uccidere perché li amano. Doveroso interrogarsi sulla
confusione cognitiva generata nei più giovani nel momento in cui viene loro
proposta l’equazione amore-uccisione, che oggi più che mai è il mantra
giustificativo di tanti femminicidi.
“Stiamo causando la distruzione. Dei nostri compagni animali… Ricercando
null’altro che il nostro benessere E il nostro divertimento”18.
Insomma, all’interno di un discorso sulla violenza, la sua genesi, le sue
manifestazioni, i modi per contrastarla, non è più possibile prescindere da
considerazioni che riguardino la pratica della caccia. Se si ritiene
fondamentale che l’educazione abbia come obiettivo primario l’insegnamento del
rispetto per l’altro, la presa in carico dei diritti di ognuno, la convinzione
che il senso di giustizia sia fondamentale nella gestione di relazioni
positive, è davvero impensabile proteggere, difendere, connotare positivamente
comportamenti sadici, violenti e crudeli a danno di esseri indifesi.
Non è superfluo ricordare la posizione di Albert Scheiwtzer,
Nobel per la pace 1953, che sosteneva che la compassione, sulla quale si devono
basare tutte le filosofie morali, può raggiungere la massima estensione e
profondità solo se riguarda tutti gli esseri viventi e non solo gli esseri
umani.
Gandhi, uno dei massimi esponenti del pacifismo, non pensò in nessun momento che
la grandiosità degli obiettivi che andava perseguendo lo autorizzasse a mettere
in secondo piano il dovere del rispetto per gli altri animali, da praticare
costantemente anche attraverso scelte alimentari, avanzatissime per i suoi
tempi.
Aldo Capitini, filosofo della non violenza, sosteneva che se si fosse imparato a non
uccidere gli animali, a maggior ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione di
uomini: e lo diceva all’alba della seconda guerra mondiale, facendo tutto ciò che
era in suo potere per provare a scongiurare il delirio di violenza che di lì a
poco si sarebbe comunque scatenato.
Insomma e per concludere: l’attività venatoria è indiscutibilmente
territorio di crudeltà. Riconoscere questa elementare verità, è passo doveroso.
Che dovrebbe condurre alla strada che Freud, nel carteggio del 1932 con
Einstein, indicava per agire contro la guerra, con parole che si attagliano
perfettamente anche alla caccia. Le forze che esistono, dice Freud, che vanno
costruite e riconosciute, sono le relazioni d’amore e i legami emotivi che si
stabiliscono grazie anche a meccanismi di identificazione con l’altro. È
necessario indignarsi contro la guerra (e contro la caccia, aggiungo) perché
ogni uomo, ogni essere senziente ha diritto alla vita, perché la guerra (come
la caccia) “annienta vite piene di promesse, pone i singoli individui in
posizioni che li disonorano”. Per ricercare uno stato di pace, fra le persone,
i popoli, le specie, che forse è esistito, che forse è desiderio di qualcosa di
mai interamente vissuto, ma di cui vi è infinita nostalgia perché, dice Anna
Maria Ortesei, da quel bene assoluto ci siamo allontanati “per
deviazione, errore, stranezza o forse malattia” .
Sull’argomento ho scritto nei miei libri i capitoli:
Bang…bang…: io sparo a te. In “Noi abbiamo un sogno”. Bompiani
2006
Finchè non lo vedrai esangue, In “In direzione contraria” Sonda 2009
Ai cacciatori il posto d’onore. In “Sulla cattiva strada, Sonda 2014
1 Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere;
2 Stephen Pinker, Il declino della violenza
3 Senofonte, Il Cinegetico
4 https://brotture.net/tag/caccia
5 www.bighunter.net
6 Marcello D’Orta , Nessun porco è signorina
7 Lev Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne
8 Umberto Galimberti, Nuovo Dizionario di Psicologia
9 Www.feelguide.com/2016/11/07/hunting-linked-to=psychosexual-inadequancy-the=5-phases-of-sexual-frustration
10 www.animals24-7.org
11 Giancarlo Ferron, Il suicidio del capriolo
12 Nessun porco è signorina, Op. cit.
13 Lev Tolstoj, Op. cit.
14 https://www.vittimedellacaccia.org
15 http://www.sabinemiddelhaufeshundundnatur.net/ale/caccia_intervista.htm
16 Titolo del film di Vittorio De Sica, I bambini ci guardano
17 Danilo Mainardi
18 Yuval Noah Harari, Da animali a dei
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