L’Ordine americano che ha dominato il mondo dal secondo dopoguerra a oggi ha lasciato una scia di devastazione, guerre preventive, colpi di Stato, crisi economiche. Un leviatano decerebrato, per citare l’autore dell’articolo originale, che ha divorato ogni ostacolo al suo dominio. Ma negli ultimi decenni, quel mostro si è mangiato anche la propria coda: la politica neoliberista ha svuotato l’apparato produttivo, distrutto la classe media, reimportato in casa la miseria che per anni aveva esportato.
L’America
che si pensava invincibile si ritrova oggi con intere comunità ridotte alla
fame, milioni di lavoratori impoveriti, infrastrutture a pezzi e un senso di
declino diffuso. E in questo contesto si inserisce il grande paradosso:
l’ascesa di Donald Trump.
Per molti,
Trump fu una boccata d’aria dopo anni di globalizzazione selvaggia. Un uomo
fuori dalle liturgie del potere, che prometteva di riportare l’America al
centro. Ma è proprio qui che iniziano le contraddizioni: quale America vuole
ricostruire? Quella del secondo dopoguerra, con la politica monetaria regolata
dagli accordi di Bretton Woods? O quella degli anni Ottanta, che ha deregolato
tutto e trasformato il dollaro in un’arma?
Il trumpismo
si presenta come antitesi al sistema, ma si porta dietro i suoi stessi
protagonisti. Un nome su tutti: Elon Musk. Campione del capitalismo predatorio,
icona dell’individualismo oligarchico, simbolo di una Silicon Valley che ha
cannibalizzato ogni idea di collettività. L’uomo che ha fatto fortuna sulla
precarietà altrui è oggi il volto del nuovo potere trumpiano. Un potere che
licenzia, reprime sindacati, gioca con la finanza globale, e poi predica il
ritorno alla nazione.
L’America di
oggi paga le scelte degli ultimi 40 anni. Secondo il “Foreign Affairs”, tra il
2000 e il 2020 la produzione industriale è crollata del 10%, un terzo dei posti
in fabbrica è sparito. Lavoratori in età attiva fuori dal mercato, epidemie di
droga, salari da fame, cittadini che non riescono più a mettere benzina in
auto.
E ora? Trump
promette la reindustrializzazione. Ma cosa vuol dire? Ricostruire l’intero
apparato produttivo distrutto dalle delocalizzazioni, formare nuove generazioni
di tecnici, ingegneri, operai. Un’operazione che richiede decenni, ma che viene
venduta come slogan da talk show. Nel frattempo, aumenta il costo della vita,
esplodono i prezzi dei beni di consumo (tutti importati), e il paese resta
senza visione.
C’è poi la
questione internazionale. Gli Stati Uniti restano l’unica potenza globale che
pretende di imporre un ordine mondiale attraverso la forza. L’età unipolare si
regge sempre più su minacce, embarghi, destabilizzazioni, e sempre meno su
consenso. Trump, in teoria, promette il ritorno alla sovranità. Ma quale
sovranità? Quella che parla a nome di Wall Street? Quella che bombarda in nome
della libertà?
La retorica
anti-establishment si scontra con una realtà fatta di miliardari, lobbies,
fondazioni private e guerra economica. Non basta dire “America first” per
essere alternativi. Serve sapere dove si vuole portare il mondo.
Eppure,
qualcosa sta cambiando.
Il sistema
unipolare vacilla. L’Occidente perde egemonia. Il Sud globale rivendica spazio.
La Cina, l’India, il BRICS, l’Africa, l’America Latina: tutti reclamano
rispetto, sovranità, nuovi equilibri. Il modello USA, fatto di FMI, dollaro e
basi militari, non regge più. E la nuova destra, da Trump a Milei, da Meloni a
Farage, finge di offrire alternative. Ma si nutre dello stesso sistema: un
populismo senza popolo, che vende slogan e compra tempo.
La vera
alternativa non sarà Trump, né Musk, né nessun CEO travestito da liberatore.
Sarà il giorno in cui si tornerà a parlare di giustizia sociale,
redistribuzione, sovranità reale, Stato attivo, pace, lavoro dignitoso.
Per ora,
l’America può solo scegliere se scavarsi la fossa da sola o chiedere scusa a se
stessa.
E forse,
anche al resto del mondo.
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