“Paesaggio – mondo interiore, binomio indissolubile”: il messaggio, inciso nel muro, accompagna il disegno di bassorilievo che Lello Porru, autore di singolarissime opere su pareti, ha realizzato accanto al cancello che porta alla sede di Su entu nostu, il comitato di Sanluri che da oltre un decennio si batte per la tutela del territorio. È un messaggio – un motto – da tenere bene a mente quando si parla della Sardegna e delle lotte popolari in corso in difesa del paesaggio e dell’integrità ambientale. C’è qualcosa di specificatamente sardo in questa lotta ecologista, nella sua profondità; è qualcosa che riguarda la particolare storia e gli speciali valori ambientali dell’isola, l’una e gli altri così diversi rispetto al resto d’Italia. L’opera di Porru potrebbe illustrare il “Cammino del sole e del vento” di Repubblica nomade, l’associazione fondata da Antonio Moresco per compiere viaggi a piedi “politico-poetici”, viaggi di conoscenza, di sostegno, di intervento. Quest’anno il Cammino in Sardegna – dal polo industriale di Portoscuso al sito archeologico di Tharros, attraverso il Sulcis-Iglesiente e il Campidano, lambendo Oristano – è stato un’esplorazione di un uno stato d’animo, oltre che di un controverso caso politico e sociale, ossia l’insediamento nell’isola di importanti progetti industriali per le energie rinnovabili, nell’ambito della cosiddetta transizione energetica nazionale, con il progressivo – ma in verità incerto – superamento delle fonti fossili. Sono progetti che stanno suscitando forti proteste nella popolazione, accese controversie fra gli enti locali sardi e lo stato nazionale, numerose azioni giudiziarie, e anche importanti divisioni fra gli attivisti ambientalisti ed ecologisti e nell’opinione pubblica locale e nazionale.
La vicenda è nota, ma forse non troppo compresa. Si tratta, detto a grandi
linee, degli obiettivi fissati dal decreto Draghi sulle energie rinnovabili
(2021) e dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima: la Sardegna
dovrebbe arrivare a produrre entro il 2030 circa 6,2 GW di energia dal vento e
dal sole, in parte per il proprio fabbisogno, in parte da convogliare nella
rete elettrica nazionale. Il decreto Draghi – entrato in vigore senza i
previsti decreti attuativi, quelli che avrebbero dovuto fissare, fra le altre
cose, precise norme di tutela del territorio – ha spinto l’industria delle
rinnovabili a concentrare l’attenzione sull’isola, che è grande, poco popolata,
molto soleggiata e molto battuta dal vento. Sono arrivati – dati del marzo 2025
– ben 729 progetti, per una produzione potenziale di 54,5 GW (36%
dal sole, 34% da impianti eolici offshore, 30% da impianti eolici a terra),
circa 25 volte la produzione attuale sarda di energia rinnovabile (2,2
GW), circa nove volte l’obiettivo indicato dal Piano energetico
nazionale. A fronte di questa messe di progetti, mentre nascevano sul
territorio malumori, discussioni e movimenti contro quella che è stata chiamata
(dai comitati popolari) “speculazione energetica”, la Regione
Sardegna, all’indomani dell’insediamento della nuova giunta di centrosinistra
guidata da Alessandra Todde, ha prima approvato – luglio 2024 – una legge di
moratoria di 18 mesi (poi giudicata illegittima dalla Corte costituzionale) al
fine di bloccare i progetti in attesa di un piano regionale complessivo per le
rinnovabili, poi una legge sulle aree idonee e non idonee (la numero 20 del
dicembre 2024) che ha vincolato per ragioni ambientali, culturali,
paesaggistiche circa il 98% del territorio. La legge 20 è stata impugnata dal
governo, secondo il quale contiene vincoli troppo stringenti e comunque
esorbita dalle competenze regionali: ne è nato un contenzioso che sarà sciolto
dalla Corte costituzionale, chiamata a giudicare il caso nel prossimo autunno.
Nel frattempo, il Tar del Lazio (maggio 2025) ha bocciato, in alcune sue parti,
anche il decreto sulle aree idonee (a livello nazionale) del ministro
dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, che dovrà quindi essere riscritto.
È un quadro a dir poco complesso, se non caotico, che ha
creato un clima di generale incertezza, ma non ha bloccato i progetti,
il cui esame prosegue negli uffici del ministero dell’Ambiente e impegna enti
locali e comitati popolari in affannose corse contro il tempo per presentare
osservazioni e ricorsi. A complicare ulteriormente il quadro ci sono i
progetti per la costruzione di una dorsale del gas, con relativa rete di
distribuzione, in una regione che non ha mai avuto una metanizzazione a
tappeto, come avvenuto invece nel resto d’Italia.
In questo contesto, dunque, abbiamo deciso con Repubblica nomade di
“camminare domandando”, fedeli a un desiderio di ricerca e anche di “protezione
del futuro” che ha animato l’associazione lungo tutta la sua storia, e
specialmente negli ultimi anni, quando l’attenzione si è concentrata sui
pericoli che corriamo come persone, come comunità e anche come specie in un
mondo travolto da una crisi climatica senza precedenti. È difficile dare conto
di tutti gli incontri fatti durante un Cammino durato due settimane, delle cose
viste e ascoltate, delle esperienze compiute, ma è possibile, dal mio punto di
vista di singolo camminatore, senza pretesa di parlare per altri, riportare i
principali appunti che ho preso, le cose che mi pare di avere compreso, o
almeno di avere messo a fuoco: sono scoperte, persuasioni, ma anche dubbi e
frustrazioni, da prendere per quello che sono: appunti.
Chi programma?
Addentrarsi nei meandri delle leggi nazionali e regionali, dei regolamenti,
dei decreti, delle sentenze di Tar e Corte costituzionale, è un’esperienza
straniante, ma fa capire una prima cosa, e cioè che la “transizione
energetica” e il conseguente impianto di siti industriali per le energie
rinnovabili sta avvenendo – non solo in Sardegna – senza una reale
programmazione. C’è un obiettivo da raggiungere entro il 2030 – nel caso
sardo i 6,2 GW di produzione energetica da fonti rinnovabili – manca tutto il
resto: un’analisi del contesto sociale e territoriale in cui intervenire, un
confronto preventivo con le popolazioni e gli enti locali, un progetto di
transizione energetica collegato a una trasformazione ecologica dell’economia,
alla luce della crisi climatica globale (questo piano sembra del tutto
assente).
I veri protagonisti di questa delicata e importante partita sembrano così
gli industriali delle rinnovabili, pronti a realizzare investimenti per molte
decine di milioni e a incassare profitti conseguenti e sicuri (legati anche
agli inventivi pubblici), mentre a tutti gli altri toccano ruoli di contorno. E
forse è anche per questo che c’è tanta agitazione.
I timori dei comitati
La prima cosa che ti dicono gli attivisti dei vari comitati (quelli di
Sant’Antioco, Carloforte, Nuraxi Figus, Iglesias, Fluminimaggiore, Sanluri) è
che sono favorevoli agli impianti eolici e solari e alla “decarbonizzazione”
dell’isola: è una risposta preventiva rispetto all’etichetta che si sono
trovati addosso, cioè d’essere pregiudizialmente contrari alle pale e ai pannelli, di
essere quelli del no, d’essere affetti dalla sindrome Nimby (non nel mio
giardino). Niente di nuovo: tutti i comitati “contro le grandi opere
inutili”, come a un certo punto hanno cominciato a definirsi, sono passati
attraverso quest’operazione di discredito, si pensi al movimento No Tav in
Val di Susa; il tempo in verità è stato galantuomo, e oggi sarebbe grottesco
attribuire a movimenti che hanno dimostrato di avere competenze, visioni e
proposte d’ordine generale di battersi solo per proteggere il proprio
giardino. Fatta questa premessa – appoggiati da
Italia Nostra -, i comitati sardi sostengono di battersi per la tutela
del proprio territorio da un vasto progetto di “speculazione energetica”,
cioè un assalto alle risorse dell’isola da parte di società e multinazionali
esterne che ancora una volta sfrutterebbero i sardi e la Sardegna a fini di
profitto, lasciando sul posto ferite indelebili e poche briciole come
“compensazione”.
La critica ai progetti è serrata e dettagliata, frutto di studi e
competenze acquisite sul campo e apportate da professionisti esperti. I punti
d’attacco sono numerosi. C’è il tema del consumo di suolo,
trascurato, a dire dei comitati, quando si pensa agli impianti eolici, che non
sono innocui “parchi ecologici” ma siti industriali a tutti gli effetti, per
gli enormi plinti che devono essere interrati per sorreggere torri alte oltre
200 metri, per le strade di servizio che devono essere costruite, per il
complicato smaltimento a fine ciclo degli impianti (circa 25 anni). C’è consumo
di suolo, ancora, con gli impianti fotovoltaici, e c’è un impatto tutto da
valutare sugli ecosistemi marini per gli imponenti impianti offshore
progettati: quello di fronte all’isola di San Pietro, a oltre 12 miglia dalla
costa, prevede per esempio oltre quaranta grandi turbine galleggianti ancorate
al fondale, su un’estensione di mare lunga trenta chilometri, larga dieci. C’è
poi la questione del paesaggio che muta, e muta per sempre, in una regione che
ha mantenuto in larga misura la sua integrità ambientale: e qui vale il discorso
fatto all’inizio, sulla relazione particolarmente stretta fra il profilo del
paesaggio e il mondo interiore dei sardi.
I comitati dicono che siamo di fronte a una speculazione che rischia di
mancare perfino l’obiettivo della decarbonizzazione, perché il rinnovabile si
sommerà al fossile senza nemmeno sostituirlo; un’operazione che non dice nulla
sul futuro dell’isola e della sua economia, sul nuovo “modello di sviluppo” da
immaginare al tempo della crisi ecologica. Dove sono, dicono, i
progetti per una nuova agricoltura adatta al clima che cambia? I progetti per
un’economia ecologica, per la difesa del territorio e delle popolazioni dagli
eventi estremi, per la riduzione controllata dei consumi energetici?
Marco Pau del comitato “Su entu nostu” ha dato un’immagine di come sarebbe
la Sardegna se la “speculazione energetica” si realizzasse davvero: “Dovremmo
immaginare l’isola come un puntaspilli, quindi una piattaforma con tanti spilli
conficcati, ma anche tanti laghi neri, e il tutto circondato in mare da una
corona di altri spilli”. Gli spilli, naturalmente, sono le torri dell’eolico, i
laghi neri gli impianti fotovoltaici. Un’immagine, quella di Pau, che inquieta.
Ma qual è la proposta alternativa dei comitati, visto che nessuno pensa di
poter proseguire a produrre energia con le centrali a carbone e gli oli
combustibili? L’alternativa, spiegano, è nei pannelli solari, che
dovrebbero essere installati sulle superfici già coperte, quindi senza nuovo
consumo di suolo (i tetti di case, capannoni, stazioni, supermercati,
parcheggi, edifici pubblici e così via): i comitati citano studi condotti
dall’Enea e dall’Ispra, secondo i quali a livello nazionale si potrebbe
arrivare in questo modo a produrre da 78 a 92 GW di potenza fotovoltaica. Fatto
questo, aggiungono, si tratterebbe di valutare – in Sardegna come nel resto
d’Italia – quanto manca a coprire il fabbisogno e agire di conseguenza, con
impianti eolici e fotovoltaici di dimensioni a quel punto ridotte e da collocare
in “aree idonee” concordate con le popolazioni e gli enti locali. È senz’altro
la proposta più ecologica e più prudente che si possa fare, ma non viene presa
in considerazione, né in Sardegna né altrove, per le ragioni che dicevamo
prima: non c’è programmazione, l’iniziativa è rimessa alle industrie e
i poteri pubblici hanno già deciso di svolgere un ruolo di mero supporto
politico e normativo; e l’industria ovviamente preferisce progetti a campo
aperto, piuttosto che interventi mirati su tetti e aree urbane. Ma l’interesse
pubblico e i beni comuni, in questo modo, che fine fanno?
Ambientalismi
Il dibattito sulle rinnovabili in Sardegna, ma anche altrove, è complicato
e alle volte impedito dalla frattura che si è consumata nel mondo ambientalista
ed ecologista, da intendere nel senso più lato, includendo quindi comitati e
gruppi informali. Una frattura, come spesso accade, vissuta con disagio e
malanimo, mentre andrebbe forse accettata per quello che è, e affrontata nel
dialogo, sapendo che un’evoluzione delle posizioni è sempre possibile, anzi
probabile, di fronte all’incalzare e al mutare dei fatti.
Le maggiori associazioni ambientaliste – in Sardegna le più attive sono
Legambiente e Greenpeace – non appoggiamo i comitati locali, sostenendo che le
loro preoccupazioni per il consumo di suolo e per il mutamento del paesaggio
sono eccessive, e comunque non giustificate di fronte all’urgenza di far
avanzare il più rapidamente possibile la transizione energetica, vista la
drammatica crisi climatica in corso. Non tutti i 729 progetti ricevuti da
Terna, fanno poi notare, andranno in porto, visto che dovranno superare delle
analisi sugli impatti ambientali, e dunque è sbagliato parlare di assalto alla
Sardegna o di speculazione energetica. Queste associazioni chiedono alla
Regione di non frenare lo sviluppo dei progetti e anzi di accelerare i tempi
della transizione, che potrebbe portare la Sardegna a essere la prima regione
100% rinnovabile, cioè del tutto decarbonizzata.
A questo ambientalismo pragmatico, orientato dalla soluzione tecnica, potremmo anche
definirlo riformista, un ambientalismo che preme sull’acceleratore della
decarbonizzazione e considera accettabili i prezzi ambientali da pagare (dopo
averli ovviamente minimizzati attraverso le previste leggi di tutela), si
contrappone un ecologismo più politico, più vicino alla “conversione ecologica”
di Alex Langer e alla “ecologia integrale” dell’enciclica “Laudato si’” di papa
Francesco. È la posizione di chi vuole lottare per un cambiamento più profondo
dell’economia, quindi delle produzioni e dei consumi, nella consapevolezza che
una “semplice” transizione energetica, con la sostituzione progressiva delle
fonti fossili con quelle rinnovabili, se anche avvenisse, non risolverebbe i
problemi dell’economia globale e del surriscaldamento climatico, visto che la
corsa verso la crescita, verso l’estrazione di terre rare e altre risorse
scarse non si fermerebbe, e richiederebbe un crescente, inarrestabile
aumento della produzione di energia, più o meno rinnovabile, in un ciclo senza
fine. La lotta, secondo questo filone di impegno, deve dunque svelare il bluff
in atto, la “transizione energetica” che non è “conversione ecologica”, e
proteggere il territorio da interventi che ne muterebbero per sempre l’aspetto
e le vocazioni senza nemmeno avviare un reale cambiamento del “sistema”.
Ci sono quindi due modi quasi paralleli d’intendere l’impegno ecologista, e
questo pone un dilemma per gli attivisti del nostro tempo: per quale causa vale
la pena impegnarsi?
La decarbonizzazione
La Sardegna ha un indubitabile fardello: due centrali a carbone ancora
attive (Portoscuso e Porto Torres), per le quali viene continuamente
posticipata la data di dismissione. L’urgenza di procedere con l’insediamento
di nuovi impianti di energia rinnovabile è quindi reale, anche se resta il
dubbio se vi sarà davvero un automatico spegnimento delle centrali a carbone
una volta che sarà aumentata la produzione di energia rinnovabile. Il fatto
è che la generale crescita del fabbisogno di energia non sembra destinata a
fermarsi e nemmeno a rallentare – tutt’altro, se pensiamo ai programmi
di sviluppo dell’intelligenza artificiale, comparto altamente energivoro, così
come l’industria bellica, anch’essa destinata a prosperare secondo i nuovi
programmi europei – e quindi il dubbio è legittimo: prima di fermare le
centrali a carbone (e di chiudere i rubinetti del fossile nel resto d’Italia)
riducendo di fatto la produzione energetica complessiva, ci sarà sempre la
tentazione della proroga, visto che la “vocazione ecologica” del sistema
industriale sembra piuttosto debole, se non inesistente.
Dà da pensare, in Sardegna, la persistenza di un grande progetto
infrastrutturale per il gas, tutt’altro che abbandonato e anzi sostenuto da
potenti e ben visibili interessi. La stessa Legge Pratobello di iniziativa
popolare, sottoscritta da oltre duecentomila cittadini, e proposta come
strumento per fermare la speculazione sulle rinnovabili, è stata vista da molti
– provocando anche una frattura fra i comitati – come un cavallo di Troia del
progetto-metano, anche perché fra i promotori figuravano noti esponenti della
destra sarda, sostenitori storici di questa nuova infrastruttura. Tirando il
ballo il gas, ovviamente, non si parla più di decarbonizzazione. La stessa
presidente Todde in alcune interviste ha “aperto” all’opzione metano,
sia pure come fonte “transitoria”, da sfruttare in attesa di un passaggio
completo alle rinnovabili, ma al prezzo, ovviamente, di ospitare navi
rigassificatrici vicino alle coste e di costruire reti di trasporto del gas,
sia pure meno estese di quelle previste dal progetto della dorsale di
distribuzione in tutta l’isola. I due ambientalismi di cui dicevamo, su
questo punto concordano: sarebbe assurdo portare il gas in Sardegna, mentre
dovrà essere dismesso in tutta Italia secondo i piani, o almeno le
dichiarazioni, di futura decarbonizzazione. Per il momento sembra che le fonti
di produzione energetica siano destinate a sommarsi: carbone, più rinnovabili,
più gas, e non solo in Sardegna, bensì in tutta Italia, anche perché nelle
intenzioni e nelle previsioni non c’è una riduzione, bensì un incremento dei
consumi energetici, e semmai l’esigenza di garantirsi approvvigionamenti politicamente
sicuri, cioè forniture di gas e petrolio da paesi “amici”. Sono i progetti del
governo, dell’Eni, un po’ di tutti i poteri che contano.
La storia
La nozione di “speculazione energetica” ha una forte efficacia
comunicativa, in quanto evoca un sistema industriale proiettato alla
massimizzazione del profitto, approccio peraltro rivendicato, nonché
legittimato socialmente e politicamente. In Sardegna, poi, la sua forza è
moltiplicata da una consapevolezza storica: la lunga, ininterrotta azione di
“estrattivismo” che l’isola ha subito. Camminando, si ha il tempo e il modo di
osservare tutti i segni lasciati nel territorio dalle più recenti ma anche
dalle più antiche “estrazioni”: è una storia che si incontra di continuo.
A Portoscuso, per dire, il Comune ha messo nel suo simbolo,
accanto all’antica tonnara (ora minacciata da un impianto eolico offshore) e
una torre altrettanto antica, anche una fabbrica con due ciminiere sbuffanti
fumo. Una simbologia insolita, ma che restituisce bene la sorte toccata a certi
luoghi dell’isola: scelti, in qualche modo sacrificati, per insediarvi
dall’alto industrie pesanti, a forte impatto ambientale e con rischi sanitari
per le popolazioni a dir poco sottovalutati. A Portoscuso, un piccolo centro
affacciato sul mare davanti all’isola di San Pietro, il decollo industriale
coincise con la progressiva dismissione delle miniere: si pensò, in questo
modo, di compensare la perdita di posti di lavoro. Nacquero grandi industrie
per la lavorazione dei metalli, con la produzione di laminati in alluminio, di
zinco e piombo e altro ancora; poco distante dalla centrale a carbone si
impiantò anche una fabbrica per la lavorazione della bauxite, con la materia
prima importata nientemeno che dall’Australia (è la fabbrica che ha lasciato
una discarica di fanghi rossi inquinanti di venti ettari). Il sindaco di
Portoscuso, Ignazio Atzori, che ha un passato da medico condotto e ufficiale
sanitario della cittadina, parlando con Repubblica nomade ha ricordato la
“scoperta”, ormai quarant’anni fa, dei danni alla salute degli abitanti causati
dal piombo: si arrivò a proibire il consumo di latte e ortaggi prodotti sul
posto. A Portoscuso, in aree industriali dimesse e ormai inutilizzabili in
altro modo, sono state collocate – senza particolari conflitti – numerose pale
eoliche, ma ora il Comune è solidale con i comitati che si battono contro
l’eolico offshore, considerato una minaccia non solo per il paesaggio ma anche
per gli ecosistemi marini e le stesse abitudini dei tonni, la cui pesca è
un’attività del luogo ancora importante.
E camminando verso Iglesias, passando poi per Masua e Arbus, si
incontrano i resti delle vecchie miniere, tutte ormai dismesse, ruderi di
una civiltà del lavoro – in realtà di una forma di sfruttamento ai limiti dello
schiavismo – arrivata al tramonto già da alcuni decenni. Alcune parti delle
miniere sono state “recuperate” e inserite, come luoghi di memoria, nel Cammino
minerario di Santa Barbara, una proposta di turismo lento e dolce sulla quale
gli abitanti del luogo, ma anche gli enti locali, hanno investito tempo e
attenzione. Ma restano profondissime le ferite nel paesaggio. Pierluigi Carta,
ex sindaco di Iglesias, ha accompagnato per un tratto Repubblica nomade e ha
mostrato, nei pressi della grande miniera di Monteponi, alle porte di Iglesias
– una città nella città -, la collina formata nei decenni con gli scarti dei
materiali di miniera: una collina rossastra, ora terrazzata, che
rilascia polveri di arsenico e altre sostanze a ogni folata di vento.
Ebbene, ha raccontato Carta, al tempo del suo mandato da sindaco (2005-2010) fu
compiuto uno studio di fattibilità e si capì che facendo lavorare 150 camion al
giorno per 15 anni (!), portando i materiali a Portovesme dove uno stabilimento
ad hoc avrebbe potuto trattarli e almeno abbattere le sostanze più pericolose,
si sarebbe riusciti a smaltire appena la metà della montagna di detriti (e
altri detriti, naturalmente, sarebbero rimasti a Portovesme dopo il
trattamento, riproponendo il problema dello smaltimento). Ci sono poi
in Sardegna – mai dimenticarlo – vaste porzioni di territorio sotto servitù
militare, utilizzate per esercitazioni belliche e come poligoni di tiro, con
importanti conseguenze anche sulla salute pubblica.
Insomma, ci sono ferite che non sono sanabili, e infatti nel paesaggio
sardo si è sedimentata la travagliata storia dell’isola. Repubblica nomade
lungo il suo percorso, nel caldissimo Medio Campidano, ha lambito Villacidro,
cittadina natale di Giuseppe Dessì, autore di un romanzo memorabile, Paese
d’ombre, premio Strega nel 1972. È il racconto, a cavallo fra Otto e
Novecento, attraverso la vicenda del protagonista Angelo Uras, dello
sfruttamento di quest’area sud-occidentale della Sardegna, che al tempo dei
Savoia fu letteralmente disboscata per alimentare le fonderie e per il
commercio del legname. Paese d’ombre è un grande romanzo
storico, che ricorda, fra le altre cose, il famoso sciopero dei minatori di
Buggerru nel 1904, sedato nel sangue dai carabinieri, e all’origine del
primo sciopero generale nazionale della storia d’Italia (11 settembre 1904).
Oggi Buggerru è un centro semi spopolato – circa mille abitanti – che cerca di
sostenersi con il turismo lento dei cammini e con il turismo del vento (è un
piccolo paradiso per surfisti, grazie al maestrale), ma il ricordo della
spoliazione non è cancellato e anzi fa parte, come una spina ancora dolorosa,
del rapporto speciale che lega la popolazione sarda al “suo” paesaggio.
Le comunità energetiche
Se la via prescelta per la “transizione energetica” è quella dei grandi
progetti, calati per lo più dall’alto, e con il volante dell’ideale vettura del
cambiamento “green” saldamente in mano alle tecnocrazie pubblico-private, il
modello delle Comunità energetiche (Cer) dovrebbe rappresentarne l’alternativa
speculare: costruite dal basso, modellate sulle esigenze locali, con la
partecipazione diretta dei cittadini, delle imprese del posto e delle
amministrazioni pubbliche. In un mondo ideale, le Cer sarebbero le
protagoniste della “conversione ecologica”, che partirebbe dal basso, dai
bisogni locali, e poi si allargherebbe alla solidarietà fra territori, in una
logica di riduzione controllata dei consumi globali e di minimo impatto
ambientale e paesaggistico, in un contesto generale di trasformazione
dell’economia. Ma non è questo lo scenario presente, tutt’altro.
I Comuni di Villanovaforru e Ussaramanna – meno di 1.500 abitanti in tutto
– sono stati i pionieri delle comunità energetiche sarde, e i due sindaci –
Maurizio Onnis e Marco Sideri – raccontano volentieri, sotto un porticato in
collina, l’esperienza compiuta, ma sgombrano anche il campo da ogni
illusione: le comunità energetiche non sono una reale alternativa,
perché non ci sono risorse adeguate per avviarle su larga scala, perché le
procedure sono complicate e l’unica loro reale funzione è di fare da “foglie di
fico” della politica e delle sue pochezze: “Quello che noi produciamo
si aggiunge all’energia prodotta col fossile, non viene chiuso nulla, e i
consumi intanto aumentano”. Sia Onnis che Sideri non rinnegano l’esperienza
fatta, ma dicono che è servita soprattutto a stimolare la partecipazione dei
cittadini, che sono stati coinvolti, su iniziativa dei Comuni, nella
realizzazione del progetto e poi nella gestione della Cer. I Comuni non hanno
fondi, dice Onnis, creare una Cer è faticoso e poco vantaggioso. Le Comunità
energetiche di Villanovaforru e Ussaramanna sono state create installando
pannelli fotovoltaici su edifici pubblici, con la consulenza della cooperativa
èNostra, ma è mancato in entrambi i casi un impegno diretto delle imprese
locali, che in teoria potrebbero essere promotrici, a loro volta, di comunità
energetiche per i il proprio fabbisogno. È quel che accade, del resto, anche
nel resto d’Italia.
Le Cer, insomma, sono citate nelle leggi e nei decreti, ma sono destinate a
restare ai margini della scena, dei piccoli puntini, quasi invisibili, in mezzo
alle torri e ai pannelli dell’industria delle rinnovabili. In Sardegna
qualcosa potrebbe cambiare, aggiunge tuttavia Onnis, se venisse confermata,
dopo il vaglio della Consulta, quella parte della legge regionale sulle aree
idonee che stanzia 685 milioni di euro per le comunità energetiche; con quei
soldi potrebbero nascere molte nuove Cer, ma il quadro normativo d’insieme è
troppo incerto per immaginare in che modo potrebbero interagire con i progetti
industriali.
Prime conclusioni
La ribollente società civile sarda, coi suoi comitati, con le sue
manifestazioni, anche con le sue divisioni, ha il merito di avere aperto un
dibattito altrove ancora assente, ma necessario, perché ciò che i comitati
chiamano “speculazione energetica” e gli altri semplicemente “transizione
energetica” è in corso in tutta Italia, seppure con volumi di investimenti
diversi e distribuiti in modo non omogeneo: più ingenti ed estesi al Sud e in
Sardegna, meno vistosi in altre parti del paese (ma le recenti vicende del
Mugello in Toscana, con il sabotaggio da parte di attivisti mascherati di
macchinari di un’impresa impegnata nell’installazione di pale eoliche sul
crinale appenninico, fanno capire che le linee di tensione non riguardano solo
il Mezzogiorno).
La strada scelta dall’Italia, in linea con le direttive europee, è la via
di una transizione energetica guidata dall’alto, con una forte spinta
alla semplificazione delle procedure, in modo che l’industria delle rinnovabili
possa centrare gli obiettivi indicati per il 2030. Il compito affidato a
governi ed enti locali è la definizione di un quadro normativo complessivo,
anche sul piano della tutela ambientale, ed è qui che si gioca il braccio di
ferro fra governo nazionale e Regioni, nella precisazione delle rispettive
competenze, rimessa a questo punto alla Consulta e ai tribunali. È
particolarmente delicato il caso della Regione Sardegna, una delle cinque a
statuto speciale, e quindi più gelosa, e più teoricamente garantita, delle
proprie prerogative; in aggiunta, la giunta sarda ha già mostrato d’essere
propensa a dettare regole più stringenti di quelle volute dal governo
nazionale, per quanto Todde non abbia voluto mettersi alla testa dei movimenti
contro la “speculazione energetica”, come i comitati avevano forse sperato.
Leggi e sentenze pregresse, al momento, fanno pensare che alla fine la spunterà
il governo e che quindi i progetti industriali sulle rinnovabili avanzeranno in
Sardegna senza eccessivi vincoli, in modi che saranno valutati caso per caso.
Ma niente è sicuro: la Consulta potrebbe dare ragione alla Regione
Sardegna, e quest’ultima, anche se battuta in giudizio, potrebbe intraprendere
azioni politiche al momento nemmeno immaginabili. E poi, naturalmente, c’è la
variabile comitati: in che modo, con quali obiettivi, con quale forza e
capacità di mobilitazione vorranno agire, qualunque sia il quadro normativo
futuro? Nessuno può dirlo oggi, ma la Sardegna ribolle, e almeno un messaggio
già lo manda a tutti gli italiani: sulla produzione di energia si sta
giocando una partita decisiva per il futuro economico e sociale del paese, ma
non ne stiamo davvero discutendo, non nel modo e con la profondità e il
respiro democratico e partecipativo che sarebbero necessari. Ci sarebbe ancora
molto cammino da fare insieme, e non solo in Sardegna.
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