sabato 5 luglio 2025

Il caso Perdasdefogu - Noemi Cipriano e Lydia Karazarifi

 

Non possiamo parlare di ecologia e investire nella militarizzazione: la prospettiva della giustizia ambientale attraverso il laboratorio sardo

Nel cuore dell’Ogliastra, una delle zone più incontaminate e poco popolate della Sardegna, sorge una delle installazioni militari più vaste e controverse d’Europa: la base di Perdasdefogu, parte integrante del poligono interforze del Salto di Quirra. Utilizzata per sperimentazioni militari, test missilistici e collaborazioni aerospaziali, questa struttura è il più grande poligono sperimentale e di addestramento militare in Europa. In un’isola, la Sardegna, che si distingue per essere la regione europea con la più ampia densità ed estensione di servitù militari: il 60% delle basi militari italiane si trova in Sardegna. Il suolo sardo, tuttavia, non è solo oggetto di sperimentazione da parte delle forze militari italiane, ma anche dalla Nato.

Si tratta di una questione delicata che dovrebbe farci riflettere sullo sfruttamento in corso nella regione sarda, così fortemente impattata dall’inquinamento chimico connesso alla presenza militare. È quanto emerso dalle numerose perizie giudiziarie e indagini scientifiche svolte nel territorio circostante la base di Quirra. Un dolore muto, ignorato da interessi più forti delle voci dei pastori e degli abitanti che da generazioni vivono queste terre. Una vicenda su cui non è mai stata fatta giustizia. Ricordarla oggi non è solo un atto di memoria, ma un dovere verso chi continua a subirne le conseguenze.

Nel 2012, dopo anni di denunce, analisi ambientali e sospetti legati all’insorgenza di malformazioni e tumori tra militari, civili, pastori e animali presenti nella zona, nel tribunale di Lanusei ha avuto inizio il primo processo per disastro ambientale in ambito militare. Un caso giudiziario senza precedenti, poiché ha coinvolto molti ufficiali di alto rango e riguardava un’area strategicamente sensibile – all’epoca ancora in uso – e soggetta a segreto militare, in cui molti dati erano coperti da segreto di Stato.

Fa rabbrividire ciò che hanno vissuto coloro che, direttamente o indirettamente, sono entrati in contatto con la base militare di Quirra. Non solo i militari e i tecnici che vi operavano senza adeguate protezioni, ma anche i pastori e gli abitanti dei paesi circostanti, esposti per anni a sostanze tossiche senza essere informati né tutelati. Comuni come Villaputzu, Escalaplano e Ulassai sono tra quelli maggiormente colpiti: qui i cittadini non erano al corrente – sia per l’omissione di bonifica e segnalazione delle aree demaniali militari, sia per la mancanza di adozione delle più elementari precauzioni per la salute umana e animale – di quanto veniva sprigionato in aria e nel suolo.

Cronache dell’inquinamento chimico

Dal 1984 al 2008, nella zona di Torri, a 600 metri sul livello del mare, sono stati effettuati brillamenti di enormi quantità di munizioni e ordigni fuori uso. Tra il 1986 e il 2003 sono stati lanciati oltre 1.187 missili anticarro Milan e, in seguito, Tow, contenenti torio – una sostanza radioattiva – e materiali altamente tossici come l’amianto.

La base di Quirra è stata anche il luogo in cui venivano illecitamente smaltite grandi quantità di rifiuti militari composti da bombe e munizioni obsolete dell’Aeronautica Militare, tanto che gli stessi medici del lavoro disposero che non fossero più effettuate analisi per la misurazione periodica del piombo nel sangue dei militari, ritenendole ormai inutili.

Il pericolo per la pubblica incolumità nell’area circostante il Poligono Interforze del Salto di Quirra (Pisq) è stato esteso e profondo. In un territorio dove si sono registrati circa 160 casi di linfomi e tumori nella popolazione, con centinaia di morti sospette e numerose gravi malformazioni, le fonti di contaminazione sono state molteplici.

Oltre ai brillamenti e ai lanci di missili anticarro, una delle cause più preoccupanti era l’interramento di fusti contenenti Napalm, sostanza altamente tossica e pericolosa.

Le operazioni militari venivano condotte in un’area morfologicamente predisposta alla diffusione degli agenti contaminanti: un corridoio naturale tra due rilievi montuosi paralleli, che incanalava i venti lungo l’asse dei centri abitati di Escalaplano e della frazione Quirra del Comune di Villaputzu. Questa direttrice attraversava anche le aree di sorgente che alimentavano l’acquedotto locale, considerato potabile, e serviva entrambe le comunità.

Il legame tra attività militari e gravi patologie ha generato nella popolazione un senso profondo e duraturo di allarme, rilanciato più volte con grande rilievo dagli organi di stampa.

Colpisce con particolare amarezza quanto riportato da diversi organi di stampa: alcuni generali della base militare, di fronte all’allarme sanitario crescente, arrivarono ad attribuire l’elevata incidenza di tumori tra la popolazione locale a relazioni di consanguineità tra cittadini sardi. Un’affermazione non solo infondata, ma gravemente offensiva e intrisa di pregiudizio, che riflette un atteggiamento discriminatorio verso le comunità del territorio, vittime degli esperimenti militari.

Il 5 e 6 gennaio 2011, una relazione dei veterinari delle Asl di Lanusei e Cagliari, ripresa dalla stampa nazionale, documentò in modo dettagliato le malformazioni riscontrate tra gli animali da allevamento e rivelò un dato sconvolgente: il 65% dei pastori che operavano all’interno o nei pressi del poligono risultava deceduto per linfomi o tumori.

L’esposizione a un grave rischio sanitario è stata ulteriormente confermata dalle analisi sulle salme di numerosi pastori malati di tumore o leucemia, nelle quali è stata rilevata una quantità anomala di torio – sostanza radioattiva – significativamente superiore rispetto a chi non aveva frequentato l’area del poligono. Il torio, se inalato o ingerito, emette particelle altamente nocive in grado di alterare irreversibilmente il Dna cellulare, provocando linfomi o tumori anche a distanza di decenni dall’esposizione.

La prospettiva della giustizia ambientale

Questa vicenda non è solo un caso di ingiustizia sociale e sanitaria, ma anche un grave episodio di inquinamento ambientale, che tocca il suolo, l’acqua e l’aria di un territorio prezioso e vulnerabile. In un’epoca in cui si moltiplicano le dichiarazioni di impegno verso la sostenibilità e la transizione ecologica, sorprende e inquieta che aree come il Salto di Quirra continuino a essere sacrificate in nome di interessi militari, spesso imposti dall’alto e giustificati da ragioni di sicurezza nazionale. 

Il contrasto tra la retorica della green economy e la realtà di questi territori martoriati rivela una contraddizione profonda e ancora irrisolta. Non si può parlare di futuro sostenibile ignorando queste ferite aperte. Il silenzio su Quirra è un silenzio che grida, e che ci interroga sulla gerarchia di valore che diamo ai territori, alle comunità e alle vite umane.

Allo stesso tempo, si continua a investire nella produzione militare, in equipaggiamenti e tecnologie, senza considerare i danni all’ambiente, alla salute e al benessere delle popolazioni.

La giustizia ambientale si fonda sull’equità nell’accesso a un ambiente sano, sicuro e libero da inquinamento, capace di sostenere il benessere sia delle comunità locali che degli ecosistemi. Questo concetto include le lotte sociali per la tutela ambientale e mette in luce le disuguaglianze legate alla classe sociale, al contesto culturale e alla dimensione territoriale nell’accesso e nella gestione delle risorse naturali. Tra i suoi principi fondamentali spicca l’allineamento con la democrazia partecipativa, che riconosce il valore dell’impegno attivo delle comunità nei processi decisionali.

In Sardegna, come è emerso chiaramente, le dinamiche di ingiustizia ambientale sono strettamente connesse alla presenza e all’attività delle basi militari, le cui operazioni hanno avuto un impatto devastante sull’ambiente e sulla salute delle popolazioni locali. Le storie di resistenza nate in questo contesto mirano a riconoscere e denunciare tali ingiustizie, dando voce a chi le ha subite. Iniziative dal basso, movimenti civici, comunità e singoli individui si sono mobilitati per rivendicare il diritto a vivere in un ambiente sano. I processi giudiziari, la formazione di collettivi attivisti e l’azione continua sul territorio rappresentano le molteplici forme di una lotta in corso per la vita, la terra e la dignità ambientale.

Accanto a queste forme di attivismo, esiste una resistenza più profonda e simbolica, radicata nel legame tra persone e territorio. Pratiche rituali, cerimonie legate all’acqua e alla terra, luoghi sacri e tradizioni ancestrali costituiscono una memoria collettiva viva, che suggerisce possibilità future di coesistenza armoniosa. In questo senso, il diritto alla tutela ambientale si intreccia con una visione più ampia del vivere: cosa produrre, in che modo investire, come abitare e rispettare il territorio.

Come afferma Robert Bullard, «Il movimento per la giustizia ambientale ha ridefinito il significato dell’ambientalismo. Dice fondamentalmente che l’ambiente è tutto: dove viviamo, lavoriamo, giochiamo, andiamo a scuola, così come il mondo fisico e naturale. E quindi non possiamo separare l’ambiente fisico da quello culturale. Dobbiamo assicurarci che la giustizia sia integrata in tutto ciò che facciamo».

L’ingiustizia ambientale è un fenomeno complesso e multidimensionale, la cui comprensione è imprescindibile nei dibattiti contemporanei sulla protezione ambientale. È urgente portare alla luce gli effetti nocivi dell’industria militare sull’ambiente e sulla salute umana, temi troppo spesso assenti dalle agende pubbliche.

Il caso della Sardegna esemplifica con chiarezza le molteplici sfaccettature di questa ingiustizia, così come le forme di resistenza e i tentativi di ricostruire un legame profondo con la terra e con le comunità che la abitano. Attraverso la lente della giustizia ambientale, emerge come alcuni gruppi sociali siano più vulnerabili di altri di fronte ai processi di militarizzazione e sfruttamento.

Per affrontare questi squilibri è fondamentale riconoscere le specificità delle comunità, considerando la loro storia, classe sociale, cultura e relazione con il territorio. Le esperienze di partecipazione democratica e le memorie di lotta possono costituire la base per nuovi investimenti nel benessere collettivo, tracciando un cammino concreto verso una giustizia ambientale integrale e duratura.

da qui

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