Aree Interne: letteralmente sono “quelle aree caratterizzate da una significativa distanza dai principali centri di offerta di servizi, in particolare quelli relativi all’istruzione, mobilità e servizi socio-sanitari”. Secondo i dati del governo vengono classificati come centri di 'aree interne' 3.834 comuni italiani, in cui abitano 13,3 milioni di persone. Il 25 per cento della popolazione nazionale. Il 67 per cento di questi paesi sono al Sud.
Ora il nuovo Piano Strategico Nazionale
per le Aree Interne (PSNAI) – approvato dal governo nei mesi scorsi – in
continuità con l’impianto place-based proprio
della originaria Strategia nazionale per le aree interne (SNAI) su impulso di
Fabrizio Barca (allora, 2013, ministro della coesione sociale) intende:
“rafforzare la competitività e la
resilienza delle regioni… promuovere l'inclusione sociale e accompagnare i
territori con riforme strutturali e il potenziamento della capacità
amministrativa… investire nei servizi pubblici, come sanità, istruzione, e
trasporti pubblici”.
Tuttavia – va detto – il piano introduce
una differenziazione su base demografica tra le stesse aree interne dividendo i
territori così definiti in categorie distinte: quelli “rilanciabili” e quelli
“senza prospettive”. Per questi ultimi (centinaia e centinaia di comuni
montani, collinari, rurali) lo Stato non prevede più politiche attive di
contrasto allo spopolamento ma propone un “accompagnamento verso un declino
irreversibile”. Niente più investimenti, in quelle aree fragili, per portare i
servizi, scuole, sanità, trasporti così da attrarre giovani e creare lavoro?
Certo nel documento del governo si pensa – qui uno dei passi più incriminati –
a “un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato
declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi
ancora vi abita”.
Si arriva a legittimare dunque l’abbandono
istituzionale di larga parte del territorio nazionale, accentuando il divario
tra città e aree interne e tra le diverse anime di queste stesse, col rischio
di compromettere – è il timore di molti – la stessa tenuta sociale del Paese.
Difficile parlare forse di strategia, caso mai sembra più disuguaglianza
istituzionalizzata, con Patrie riconosciute e altre, sottodimensionate
demograficamente, no. Alcuni giustamente fan notare (tra gli altri Franco
Arminio su “Huffington post”, primi di luglio) con un soprassalto di disagio e
scandalo come non si possa adottare per le comunità di esseri umani la stessa
logica del profitto utilizzabile per un investimento economico. Le persone sono
titolari di diritti, non sono prodotti finanziari. Sono un patrimonio da
preservare, tanto più in questo Occidente in vistoso calo demografico
generalizzato. È una questione che richiama gli stessi principi costituzionali.
Non argomenti esclusivamente economici.
Del resto la Strategia nazionale per le
aree interne di Barca era stata pensata non come semplice governante: vale a dire un’operazione tecnocratica
volta a recuperare alla “normalità” del modello di sviluppo prevalente aree che
ne sono rimaste escluse. Come Barca spiega bene nel volume Italia
lontana. Una politica per le aree interne a cura di S. Locatelli, D. Luisi, F. Tantillo,
Donzelli, 2022) è stata altra la valenza politica della SNAI.
Rispondendo a una domanda su quanto l’attività economica in generale debba
porsi il problema di far crescere non solo la ricchezza ma anche lo “stare bene”,
di donne e di uomini che vivono in una determinata comunità, l’ex ministro
afferma:
“Nel capitalismo, crescere – produrre più
Pil, misurabile sul mercato – è uno dei fattori strumentali per raggiungere un
pieno benessere. Nel capitalismo, lo sappiamo, la produzione organizzata sul
mercato ha bisogno di un adeguato profitto – si noti bene, “adeguato”,
soddisfacente e quindi comprimibile – altrimenti l’imprenditore non rischierà.
Ma la ricchezza è solo una delle molteplici dimensioni, per lo più strumentale,
dello “star bene, e quindi misurare il Pil serve, è la misura chiave del
capitalismo, ma non esaurisce, tutt’altro, la misura dello “star bene”». E
aggiunge: «È un cambio di prospettiva forte [...] La Strategia nazionale per le
aree interne ce l’aveva dentro questo orientamento: gli indicatori suggeriti
erano possibili misuratori dello star bene”.
E agiva secondo linee di azione
privilegiate: interventi a favore della crescita economica ma insieme, a
sostegno dell’espansione dei diritti di cittadinanza; una trasparente e
rigorosa pianificazione territoriale; un metodo di co-progettazione finalizzato
a far dialogare fruttuosamente competenze centrali e saperi locali; pieno
coinvolgimento e responsabilizzazione delle autonomie locali, dei Comuni (S.
Locatelli).
Certo questa scelta – nota Tantillo,
ripreso da Costantino Cossu su “Dialoghi mediterranei” il 1° gennaio2024 – è
entrata in conflitto sin dal principio da un lato con una cultura politica
tradizionale e localistica molto restia a quella “cessione di potere” alla
cittadinanza che è implicita nelle pratiche partecipative, e dall’altro con una
cultura amministrativa fortemente centralistica. La stessa filosofia delle
policy del Pnrr post Covid nelle sue ultime formulazioni non è quella dello
sviluppo dal basso attraverso la valorizzazione delle risorse comunitarie e di
pratiche alternative alle logiche di mercato finalizzate, allo “star bene”;
semmai è quella delle grandi infrastrutture, dei progetti di sviluppo dei
territori attraverso politiche decise centralmente e calate dall’alto.
Va detto che il governo stanzia per il rilancio
(si fa per dire) delle aree interne 301 milioni fino al 2027. Per molti,
tuttavia – se fuori da un contesto di medio-lungo periodo – saranno interventi
spot, opere non concordate con le comunità, con ditte mirate e clientele
elettorali. Per tutte queste ragioni il piano governativo (PSNAI) sembra
portare alle estreme conseguenze, con la sperimentata inclemenza radicale nei
confronti delle popolazioni fragili, le logiche di sistema.
È sconfortante prendere atto di quanto
questa filosofia PSNAI, che poi diventa intervento politico, accentui
ulteriormente gli squilibri territoriali, distinguendo tra aree interne salve e
altre destinate a una fine prossima, in un Paese, il nostro, stretto già tra i
Troppo pieni delle città e delle coste e i Troppo vuoti delle aree interne e
della montagna povera. Così da destrutturare ancor più la dinamica
centro-periferia e il rapporto città-campagna e ostacolare la realizzazione di
quel cambio di paradigma cui tanti di noi, impegnati nel lavoro anche militante
intorno a quelli che ho chiamato “paesaggi fragili”, si ispirano: dalla
missione, non solo metaforica, della migliore antropologia (penso a Pietro
Clemente) di portare il Centro in Periferia e di lavorare, (come fa Vito Teti)
esemplarmente sulla Restanza alla riflessione preziosa dei Territorialisti sul
riconoscimento del patrimonio territoriale presente nei piccoli comuni
italiani, presidi a tutti gli effetti dei territori fragili, all’impegno
inoltre del gruppo di Riabitare l’Italia che incentra i suoi sforzi proprio
sulla sofferenza demografica e sulla contrazione insediativa di tante aree del
Paese su cui si accanisce, così sembra, il PSNAI. Proprio in questi giorni su
“Il Fatto quotidiano” Vito Teti, alla prospettiva della condanna a morte di
migliaia di comuni oppone la necessità di ripopolare i paesi accogliendo quei
nuovi italiani, molti, di cui il mercato del lavoro avrebbe bisogno come dicono
l’Istat e Confindustria.
Tanto più, in conclusione, è importante
scardinare, per contrastare questa narrativa darwiniana, le logiche attardate
delle “geografie negative” imposte ieri alle aree interne e di confine nel
disegno di sapore bellicista degli Stati nazionali e poi, nel corso di una
industrializzazione sgovernata, a interi territori svuotati in favore delle
città e delle pianure. Fino a decretarne ora, in conseguenza di quei processi,
l’insostenibilità demografica via algoritmi e un destino di irreversibile
declino.
Quando invece, nel delicatissimo corso
dell’Antropocene, gli attributi più propri di queste aree fragili, il rispetto
dei limiti ambientali anche dovuto alla mancata sovrappopolazione, l’argine
alla cementificazione integrale in relazione al basso tasso di edificazione, in
una parola la coevoluzione armonica tra insediamento umano e natura
circostante, andrebbero valorizzati, rovesciandosi in positività, a monito
della sopravvivenza stessa dei territori, di necessità ecocompatibili, nel
futuro incerto che ci aspetta.
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