Le guerre le fanno (oramai senza più dichiararle) gli Stati e i militari. Ma le propagandano, da sempre, le industrie delle armi.
E da sempre per motivi economici e di supremazia e
dominio geopolitico. Le motivazioni “nobili” che spesso si adducono (guerre di
difesa, guerre preventive, guerre per la libertà e la democrazia, guerre religiose,
guerre etniche) sono, ieri come oggi pretesti, alibi o più precisamente
mascherature ideologiche.
Il caso paradigmatico del rapporto stretto e corposo
tra guerra-industria delle armi ci viene offerto dalla I Guerra mondiale.
Quando nel 1914 scoppia, l’Italia non entra in guerra.
Il Parlamento si dichiara neutralista, composto com’è da liberali socialisti e
cattolici, tutti contrari, sia pure con motivazioni diverse.
Sciaboletta (alias Vittorio Emanuele III, il tiranno
sabaudo delle leggi razziali e del fascismo) insieme al capo del governo,
Salandra e al ministro degli esteri, prima San Giuliano poi Sonnino, per un
anno intero sfianca il Parlamento per convincerlo a dichiararsi favorevole
all’intervento bellico, come avverrà. Fra l’altro con delle motivazioni
fasulle: liberare le terre “irredente”.
Sappiamo che quella motivazione era falsa: l’Austria
si era infatti resa disponibile a cedere all’Italia, se fosse rimasta neutrale,
tutte le cosiddette terre irredente. E Giolitti, il gran capo dei liberali, in
una lettera privata che poi sarà pubblicata dal Quotidiano “La Tribuna”,
aggiungerà “E parecchio di più!”.
Ma questa balla delle “terre irredente” viene ancora
distribuita a piene mani anche oggi nei libri scolastici e non solo. Nonostante
che fin dagli anni ’60, don Lorenzo Milani, il battagliero prete fiorentino
della Scuola di Barbiana, in una lettera ai Cappellani militari smentisse
quella balla colossale.
Bene, le industrie delle armi dunque. Tra lo scoppio
della guerra e l’adesione dell’Italia, in ogni modo sollecitano incoraggiano
propagandano l’interventismo e sponsorizzano tutti quei gruppi (nazionalisti,
futuristi, dannunziani) che lo sostengono. Per intanto finanziando i loro
giornali. Ad iniziare dal Quotidiano “Il Popolo d’Italia”, fondato
dall’innominabile, il figlio del fabbro di Predappio che dopo essere stato un
neutralista radicale, da vero voltagabbana, diventa interventista, chiassoso e
violento.
A finanziare il nuovo Quotidiano di Mussolini vi è
l’Edison (con Carlo Esterle); la FIAT (con Giovanni Agnelli); l’Unione Zuccheri
e della siderurgia di Savona (con Emilio Bruzzone); l’Ansaldo (con Pio
Perrone); gli Armatori genovesi (con Luigi Parodi).
Ma verranno finanziati anche molti altri Quotidiani:
“L’Idea Nazionale”, che da settimanale diventerà quotidiano, sostenuto dal
vicepresidente della FIAT, Dante Ferraris, interessato personalmente alle
industrie belliche. E ancora “Il Secolo XIX” di Genova (con i Perrone
dell’Ansaldo); “Il Messaggero” di Roma e “Il Secolo” di Milano (sempre con i
Perrone).
La grande borghesia industriale vede nella guerra
un’occasione formidabile per fare immani profitti con le commesse dello Stato
di armi e materiale bellico: e così infatti sarà.
La FIAT negli anni 1915-18 venderà allo Stato 10 mila
cannoni e 10 milioni di proiettili oltre a carri militari (Fiat 18 BL e Fiat 45
TER), mitragliatrici (Fiat Revelli mod.1914) e aerei (Fiat BR).
Mentre l’Ansaldo venderà motori di aerei (24mila negli
anni 1915-18), cannoni navali (381), autocarri militari mitragliatrici e
corazzate.
Ma non è solo il motivo economico che spinge
l’industria delle armi a sostenere e volere la guerra: con la coscrizione
obbligatoria e, dunque, l’arruolamento di decine e decine di migliaia di
giovani, le industrie si “liberano” di operai “fastidiosi” per le imprese,
combattivi nel difendere non solo il salario ma le condizioni di vita in
fabbrica, con scioperi e manifestazioni.
Scrive a questo proposito uno dei più grandi storici
italiani, Giorgio Candeloro: ”La scelta interventista presentava per gli
industriali (oltre che gli immani profitti nda) altri due importanti vantaggi,
che peraltro si manifestarono chiaramente solo dopo l’entrata in guerra: la
disciplina di guerra col conseguente indebolimento del potere contrattuale e
della combattività delle organizzazioni operaie e l’inquadramento nell’esercito
di masse notevoli di potenziali disoccupati grazie alla mobilitazione generale” 1
Nota bibliografica
1. Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna,
VIII, Feltrinelli editore, Milano, 1979, pagina 74-75.
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