In Italia negli ultimi decenni l’unico progetto di ripopolamento che ha
funzionato è stato quello dei cinghiali. Partiamo dai numeri per capire la
gravità dell’anoressia demografica. Nel 1871 Roio del Sangro, in Abruzzo, aveva
1.200 abitanti, adesso ne ha novanta. Nel 1911 Marcetelli, nel reatino, aveva
800 abitanti, adesso ne ha una sessantina, ma i residenti effettivi sono assai
di meno. Nel 1911 Secinaro, in Abruzzo, aveva 2.000 abitanti, adesso ne ha
trecento. Nel 1921 Drenchia, in Friuli, aveva 1.562, adesso ne ha cento.
Staiti, in Calabria, aveva quasi 1.700 abitanti nel 1911, adesso ne ha
duecento. Nel 1871 Castelmagno, in Piemonte, aveva quasi 1.500 abitanti, adesso
ne ha meno di sessanta. Nel 1911 Lacedonia, in Irpinia, aveva più di settemila
abitanti, adesso sono poco più di duemila.
Chi non si fida delle statistiche può valutare la situazione facendosi un giro. Quando
arrivi in un paese non vedi la miseria, vedi qualcosa che si potrebbe
riassumere in questo modo: c’era una volta la desolazione della miseria, adesso
c’è la miseria della desolazione.
C’è sempre qualche persona dall’aria malandata davanti al bar. Appena ci
parli senti un cuore semplice, senti che hanno il desiderio di passare un poco
di tempo con te, come se il tuo arrivo li distraesse, li togliesse fuori dalla ruota della
noia in cui gira la giornata. Devi sempre fare attenzione al fatto che si
tratta di apparenze. Tu stai guardando delle apparenze, ogni luogo ha un nodo,
un cruccio annegato in un fondo che non vedi. C’è la sensazione che i paesi
siano ormai delle ragnatele e le persone che sono rimaste hanno i movimenti
degli insetti caduti nella trappola. Alcuni sono fermi, rassegnati alla
trappola, altri provano a muoversi. Il tuo ruolo è diverso, tu sai che sei di
passaggio, puoi restare dieci minuti o un’ora. Se c’è un veleno non puoi
assorbirlo, puoi solo guardare il luogo come se fosse un’installazione di arte
contemporanea o un’opera teatrale.
Il paese, dunque, non appartiene più al mondo contadino, ma al mondo
dell’arte. È una mutazione clamorosa e incredibilmente inavvertita. Il paese ci
mostra la sua nuova natura ma sembra che non ci siano occhi per vederla. E
anche chi ci sta dentro sembra voglia far parte di una storia che non c’è più,
manca la consapevolezza che si è dentro una vicenda nuova. Anche per questo
sono completamente fuori fuoco le varie politiche avviate negli ultimi anni dai
nostri governi. Ragionano con la lente economica, parlano di servizi e lavoro,
ma le azioni introdotte azionano solo se stesse, sembrano rivoli in un deserto,
sembrano descrivere la luce senza darla.
Non ha dato risultati significativi nemmeno la Strategia concepita
minuziosamente una decina di anni fa. Si trattava di un progetto
sperimentale, ma per dare i suoi frutti necessitava di un sostegno convinto da
parte delle istituzioni. Fabrizio Barca l’ha concepita quando era brillante
ministro di un governo forte, con altri ministri che condividevano le sue
visioni. Quel governo è caduto assai presto, sono cambiati i ministri, non è
cambiata la Strategia. Forse aveva il difetto di essere troppo ambiziosa. Per
avere effetti percepibili dovevano convergere tante cose: la macchina
burocratica centrale e regionale doveva avere altri tempi, i sindaci dovevano
avere uno spirito più innovatore, ma nei paesi ci sono più conservatori che
innovatori e i sindaci che innovano non sempre vengono rieletti. Dopo Barca la Struttura
che lui aveva messo in piedi ha lavorato molto e ha avuto molti ostacoli nella
macchina dello Stato: i risultati non sono all’altezza delle aspettative, anche
per il semplice motivo che i ministri successivi e il parlamento non si sono
certo invaghiti dei luoghi marginali. Ci ha provato Giuseppe Provenzano a
velocizzare la Strategia e a mettere più risorse per le aree svantaggiate, ma
poi anche la sua stagione da ministro è stata breve e si è scontrata con il
disastro della pandemia.
Se torniamo ai numeri è evidente che lo spopolamento non si è
fermato in nessun luogo, in qualche caso è solo rallentato ma di
pochissimo. In alcune aree, tipo Appennino reggiano o Lombardia, sono stati
spesi gran parte dei soldi stanziati. Alcune innovazioni, come gli infermieri
di comunità, funzionano bene. In altre regioni il trambusto delle carte non ha
prodotto praticamente niente.
Il governo attuale non si può dire che ha nel cuore la vita dei paesi. La
Strategia avrebbe bisogno di essere ravvivata. Ci sono i fornelli, manca il
fuoco. Bisogna riconoscere che ci sono stati degli errori, delle lungaggini
assurde: settantadue aree sperimentali vuol dire che non si può sperimentare
niente, bastavano una decina; la complicazione un poco ideologica di far
scrivere delle tesi di laurea ai territori più che incentivarli ad agire; i
sindaci che manco se li ricordano i documenti che hanno scritto; il paradosso
che una struttura fa i progetti e poi un’altra struttura li deve attuare; la
questione della debolezza degli apparati tecnici dei comuni; gli indugi dei
burocrati che si limitano a badare pedissequamente alla norma, più che ad
avviare veramente le cose.
Quello che c’è di buono è aver capito che dare soldi per
incentivare le attività economiche non serve se non si lavora allo stesso tempo
a potenziare i servizi. Sanità, trasporti e scuola sono le basi a cui
aggiungere le strategie di sviluppo peculiari per ogni territorio. Il governo
in carica formalmente non ha dismesso niente, sembra procedere nel solco
avviato, ma nella sostanza la Strategia delle aree interne è sempre più un
surrogato di se stessa. E vanno avanti gli interventi usuali, la spesa più
facile, quella che si è fatta anche in passato e non ha prodotto risultati.
La situazione è abbastanza chiara, servono azioni eccezionali, visto che la
situazione è di assoluta emergenza. Avevamo sperato che la pandemia potesse
accendere l’attenzione e invece siamo sempre alle solite logiche. Nell’ultima
finanziaria per i paesi non c’è niente, come se una parte d’Italia fosse segnata
solo sulla cartina geografica ma non in quella della politica. Allora più che
di aree interne, bisognerebbe parlare di aree ignote.
La diserzione della politica è accompagnata da quella intellettuale.
Continuano ad essere molto pochi gli esercizi artistici di qualche valore che
gettano uno sguardo sui luoghi più sperduti. Tutti guardano verso un centro che
è sempre più un deserto trascurando di coltivare il margine che forse ancora
contiene delle promesse di fertilità. Un articolo di giornale non è lo
spazio adatto per presentare un nuovo progetto, ma un paio di idee provo a
lanciarle. La prima è sul metodo. Serve per lo sviluppo locale non persone che
vengono a parlare a un seminario di tre ore e poi vanno via. Servono gli
allenatori dei paesi. Una persona mandata in un territorio circoscritto, (tre,
quattro paesi al massimo), e ci resta per tre anni, mettendo su casa e
dialogando ogni giorno con le persone che lavorano o con quelle che
potrebbero lavorare nel territorio, un agente di sviluppo locale
che alla fine ha anche la responsabilità di aiutare il centro a destinare i
fondi. Azioni agili con finanziamenti dati velocemente a persone precise.
Correndo anche il rischio di sbagliare. Magari su dieci azioni quattro vanno
male, ma le altre daranno l’idea che qualcosa sta accadendo e accenderanno un
circolo virtuoso, porteranno la fiducia, cioè qualcosa che vale ancora di più
degli investimenti.
La seconda questione è di sostanza e riguarda le cose più che il
come. Il fuoco centrale non può che essere l’agricoltura.
L’economia paesana è caduta rovinosamente. Parlare di paesi è parlare
essenzialmente di terra. E capire che molti terreni sono incolti e tornano
bosco. Molti altri sono impoveriti da un’agricoltura poco sensibile alle
esigenze della terra. Se si vuole dare veramente un futuro alla collina
e alla montagna non si può prescindere da nuove pratiche agricole, lontane
dalla logica violenta dei concimi e della monocultura. Si tratta di
coniugare innovazione e pratiche antiche. Serve un’agricoltura organica
rigenerativa e politiche di sostegno a questa pratica. Sappiamo come si fa e
sappiamo che si può fare, ma occorre posare lo sguardo sulla terra e invece
siamo nel cuore di una clamorosa rimozione proprio nei luoghi che da sempre
sono vissuti con il lavoro della terra.
Fondamentale è anche la questione del patrimonio abitativo. I paesi sono
musei delle porte chiuse. Mediamente su dieci case otto sono vuote. Il problema
è che non tutte sono prontamente abitabili. Allora lo Stato dovrebbe acquisire
al Patrimonio pubblico le case di cui i cittadini si vogliono disfare,
pagandole a prezzo di mercato. L’idea è di ristrutturarle in maniera molto
accurata per farne dimore in cui si possa vivere bene, case antiche ma ben
riscaldate, case dotate di tutte le tecnologie più avanzate, case da fittare a
prezzi simbolici a chi vuole andare a riposarsi o a lavorare dai paesi. Queste
case possono essere utili per il coworking: le persone possono lavorare da
remoto perché avranno tutto quello che serve in termini di connessioni, di
servizi, di socialità lavorativa.
Se arriva un poco di bella gioventù è un fatto enorme. I luoghi spopolati
spesso sono tristi, è inutile nascondercelo. Fa eccezione il mese di agosto, quando
in giro ci sono quelli che tornano e anche i residenti e questo crea una bella
atmosfera festosa che però dura assai poco.
Ecco i tre punti su cui agire: servizi, sviluppo locale, desiderio. Per
ripopolare i paesi devono funzionare queste tre cose. Vivere in un posto
dove non ci sono aspettative sentimentali è una cosa che ti impoverisce e ti fa
affiliare alla schiera degli scoraggiatori militanti, degli accidiosi. Le
persone che sono rimaste sembrano ormai tutti carpentieri della sfiducia.
Appena ci parli è come se avessero fretta di mostrarti la lista dei guai. Lo
spopolamento produce anche un impoverimento sensuale. Ci sono meno occhi e meno
orecchie, ci sono meno opportunità di trovare qualcuno da baciare. In effetti
nelle settimane di agosto i paesi funzionano, basta un poco di gente e
l’atmosfera cambia completamente. Bisogna partire da qui, dalla difficoltà di
passare la giornata, dall’assenza di distrazioni. Anche chi compra la casa in
paese poi in realtà lo frequenta poco. Si ha paura del buio, delle case chiuse.
Nel paese non puoi distrarti, sei sempre a contatto con te stesso. Nelle città
puoi scivolare nelle crepe delle vetrine. Dunque, la narrazione dei
borghi come luoghi del buon vivere è completamente falsa. Si potrebbe vivere
bene, ma si vive male. Chi è rimasto non si fa vedere in giro. Le azioni
collettive sono sempre più rare, il paese, è ora di dirlo, non è più una
comunità ma una sommatoria di singoli destini.
I paesi vanno vissuti da dentro, va capita la loro natura allo stesso
tempo benefica e venefica. Non bisogna illudersi, non sono abitati da santi e
le città non sono abitate da stronzi. Abitiamo luoghi diversi dello stesso
smarrimento. Servono politiche contro lo smarrimento, servono azioni
immediate sulla strada con le buche, sull’ospedale che non funziona, sulla
scuola che chiude. Per rivitalizzare l’economia dei luoghi servono persone che
sanno dove stanno e che hanno voglia di stare dove stanno. Alla fine è una
questione d’amore.
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