Viviamo anni in cui sempre più parole perdono di significato e il loro
portato di idee. Una di queste parole, un verbo, è proteggere. Possiamo davvero
continuare a pensare che siano i governi e gli Stati, come appaiono oggi, così
poco amati e in declino, a proteggerci dalle grandi minacce del nostro tempo?
Quello a essere protetta, in qualunque contesto, è un diritto fondamentale per
ogni vita. Possiamo cominciare a immaginare espressioni organizzate della
politica – magari comunitarie, cittadine, rurali, più vicine alle realtà locali
di ogni giorno – potenzialmente capaci di farlo? Possiamo smettere di aggirarci
come sonnambuli, l’espressione metaforica è di Arundhaty Roy, nei meandri
dell’architettura di un capitalismo della sorveglianza che, una volta preso il
controllo del nostro tempo e di ogni comportamento non assimilabile alla sua
riproduzione, ci chiede anche di esserne felici? Possiamo provare a proteggerci
l’una con l’altro da quell’architettura?
Libertà di
movimento
Gli anni che passano si portano via una cosa dopo l’altra. Quello che si
avvia a conclusione mostra in prima pagina, sul territorio italiano, certamente
ancora il segno della pandemia e delle sue molteplici conseguenze, anche sul
piano delle restrizioni delle libertà di movimento. Per quel che riguarda i
migranti e i rifugiati (la distinzione è arbitraria, può avere senso solo in
specifici contesti normativi), le persone limitate nei movimenti per eccellenza
nel mondo contemporaneo, è stato un anno durissimo. Lo hanno segnato le vite
stroncate in mare ma anche, in misura certo diversa, le detenzioni nei luoghi
di concentrazione, su entrambe le sponde del Mediterraneo. Le detenzioni
amministrative di persone che non hanno commesso reati sono state introdotte in
Italia alla fine del secolo scorso, con una mostruosità giuridica.
L’istituzione dei Centri di permanenza “temporanea”, con la legge
Turco-Napolitano (1998), venne dettata, tra le altre cose, dal prevalere delle
retoriche dell’invasione e dell’emergenza, generate in buona parte da scelte
irresponsabili dei grandi mezzi d’informazione.
Logiche di
emergenza
Oltre vent’anni dopo, il sistema di accoglienza italiano, ricucite solo in
superficie le ferite prodotte dalla furia devastante dei decreti sicurezza
introdotti dal primo governo Conte, è ancora largamente dominato dalle logiche
di emergenza. Dal punto di vista giuridico, il concetto di emergenza non può
essere disgiunto da eventi contingenti, dall’insorgere di particolari
situazioni estreme che non ne permettono la gestione con leggi ordinarie. Dal
punto di vista politico, in genere, le logiche di emergenza sono solite
ostacolare o rendere impossibile il riconoscimento delle ragioni sociali e
culturali che generano le crisi, le responsabilità ad esse connesse e gli
interessi in gioco. Concentrano l’attenzione sugli effetti immediati di quel
che accade, o si presume che accada. Poi tutto scivola via, nel rumore di fondo
della palude mediatica.
Un paese di
transito
Negli anni più recenti, la costruzione dell’emergenza è stata quasi sempre
utilizzata dai poteri dominanti per introdurre logiche di controllo,
segregazione e contenimento al fine di tutelare presunti interessi generali,
leggasi nazionali. L’apporto mediatico a quella costruzione ha scandito spesso
i tempi della costruzione dell’emergenza in modo intermittente, con periodi di
sovraesposizione mediatica seguiti da lunghe pause di silenzio. Fino alla
successiva emergenza. Ne consegue, con ogni evidenza, l’enorme difficoltà nella
proposizione di interventi risolutivi o “strutturali”, capaci di produrre reali
cambiamenti in profondità e alternative politiche che esulino dal contesto
emergenziale. Non si tratta di errori di valutazione, sono strategie e
consapevoli scelte politiche. L’Italia viene considerata un “paese di transito”
incapace di accogliere ma soprattutto di includere (azione che, a differenza
dell’integrare, comporta un cambiamento culturale profondo e non la
“normalizzazione” dell’altro) nuovi cittadini soltanto perché sceglie di
esserlo. Lo scelgono i suoi governi. Ogni giorno.
Benvenuti
Ovunque
Nelle pagine che seguono, in questo nostro secondo Rapporto
sull’accoglienza diffusa in Italia, intitolato con ostinazione “Benvenuti” –
questa volta anche in dialogo vivo con i versi di Wole Soyinka, premio Nobel
per la letteratura nel 1986, che trovate in controcopertina – c’è soprattutto
una declinazione dettagliata, limitata per lo più ai problemi dell’accoglienza,
della pervasività nefasta delle inossidabili logiche emergenziali.
Quell’influenza malefica proviamo a raccontarla, giorno per giorno, settimana
dopo settimana, nelle centinaia di articoli pubblicati ogni anno su “Benvenuti
Ovunque”, la testata interna a Comune-info in cui
raccogliamo l’informazione dedicata ai migranti, ai rifugiati e ai richiedenti
asilo. E la raccontiamo qui, nei diversi approfondimenti sulle difficoltà
cronicizzate che ostacolano anche solo il riavvio (dopo lo smantellamento
salviniano) di un sistema pubblico marcato in profondità dal dominio del
controllo delle prefetture e dall’impronta emergenziale.
L’accoglienza
diffusa
L’intervista a Gianfranco Schiavone traccia un quadro molto
preciso di un sistema che la legge indica come binario e la realtà delle
volontà politiche fa pendere decisamente da una parte, la solita. Roberta
Ferruti ci racconta invece le potenzialità e le capacità di resistenza
di straordinarie esperienze di accoglienza diffusa, messe tenacemente in rete,
malgrado cresca la criminalizzazione della solidarietà. È avvenuto a Riace,
com’è a tutti noto, ma lo si vede anche al confine con la Slovenia, come
spiega Gian Andrea Franchi nella conversazione con Rossella
Marvulli. La registrazione video di un incontro molto ricco di sguardi
plurali, che insieme compongono la trama della restituzione di dignità alla
parola accoglienza, allarga lo sguardo della critica dell’emergenza
sostenendolo con proposte puntuali, praticabili e ambiziose. Sono state
raccolte intorno al tavolo “Lo Sai?” a conclusione di
un lungo e partecipato percorso di incontri territoriali che è andato avanti
per mesi. Di quell’incontro trovate anche una sintesi scritta.
L’Europa dei
fili spinati
Non poteva certo mancare, in questo nostro resoconto annuale sullo stato
delle cose dell’accoglienza, un punto di vista rigoroso sull’esternalizzazione
delle frontiere e sui silenzi, le responsabilità e le complicità dell’Unione
Europa sulla tragedia di persone inermi, strumentalizzate e respinte. Bambine e
bambini compresi, naturalmente, quelli che magari si preferisce chiamare
“minori stranieri non accompagnati”, privandoli – spiega Lavinia
Bianchi – della condizione di soggetto di diritto per poi collocarli all’interno
di strutture. Ingranaggi di un apparato. Di quell’Europa lì, perché sappiamo
bene che ce n’è anche un’altra, meno visibile e meno raccontata, si
occupano Filippo Miraglia, a partire dallo scandaloso doppio
ricatto esercitato sui rifugiati ammassati al confine tra Bielorussia e
Polonia, e Fulvio Vassallo Paleologo, soprattutto dal punto di
vista giuridico, con una lunga analisi del quadro normativo sulla protezione
internazionale e una breve storia ignobile di Frontex, l’agenzia del divieto
d’entrata.
Settant’anni
di pace
Accanto all’Europa abbiamo messo la guerra. In questo piccolo angolo del
mondo, si continua a credere che non esista solo perché non si combatte dentro
i confini continentali: nei settant’anni di “pace” seguiti al secondo conflitto
mondiale, almeno duecento milioni di persone sono state costrette a lasciare le
proprie case. Lo ricorda l’ottimo articolo di Fabio Alberti. Molte
di quelle persone sono nate in Afghanistan. Fanno parte di un esodo che dura da
oltre venticinque anni, ne scrivono Paolo Moroni e Orlando Di Gregorio del
Laboratorio Percorsi di secondo welfare. Un esodo condannato a un’eterna
dimensione emergenziale che suscita una pietà effimera quanto surreale anche in
Italia. La denuncia dell’Asgi è netta e non afferma certo una
novità. Eppure ogni volta pare si debba ricominciare da capo. Mancanza di
memoria? Il tema della rimozione del passato anche recente, per quel che
riguarda le donne e gli uomini in fuga da Kabul, è estenuante quanto
scandaloso. Per fortuna, sulla memoria c’è anche chi lavora in tutt’altra
direzione creando comunità narrative e coinvolgendo da molti anni i soggetti
della migrazione nella raccolta di storie e testimonianze. È l’Archivio delle
memorie migranti di cui si è preso cura Alessandro Triulzi.
Il razzismo
di ogni giorno
Ci sono almeno altri due temi, pur limitando il discorso all’accoglienza,
che ci sembrava essenziale sottolineare. Il primo è che il razzismo si
combatte, con qualche speranza di successo, non solo con le normative e sui gommoni
ma se lo si affronta nella vita di ogni giorno. Per questo siamo andati a
cercarne la profondità nei supermercati delle province basche, con la
straordinaria indagine raccontata magistralmente da June Fernández.
Ne fanno le spese le donne discriminate per antonomasia, le zingare, che in
Spagna si chiamane gitane, una popolazione che in quel paese riesce almeno a
vivere, per il 92 per cento, in case o appartamenti veri. Un’utopia realizzata,
se la si guarda dalle periferie delle città italiane. La seconda immersione
nella vita quotidiana, a far da contraltare al razzismo antizigano, è la bella
esperienza del mondo di Coloriage, la sartoria abbiamo scelto per
“arredare” tutte le nostre pagine con il prezioso reportage fotografico
bianconero di Leonora Marzullo e Manuel Grande.
Andate poi sul sito del laboratorio romano di saperi e pratiche artigianali a
inondarvi di tonalità brillanti e di meraviglie del colore.
Aprire i
concetti
Il secondo tema che ritenevamo impossibile trascurare è quello del linguaggio.
L’articolo di Laura Morreale è forse il più importante, dal
punto di vista del grande racconto contenuto in questo quaderno, perché prova
ad aprire il concetto stesso di accoglienza e a guardare nelle sue profondità
meno scontate, visibili e discusse. È solo così che si sfugge alla falsa
rappresentazione dei salvatori e dei salvati e si rivela quanto il lessico che
utilizziamo generalmente, anche tra chi si batte strenuamente per
l’affermazione dei diritti delle persone migranti, sottintenda e riproduca un
rapporto di disuguaglianza. Aprire i concetti è la cosa più ambiziosa e
importante che tentiamo di fare, con alterne fortune, dal 2012 sulle pagine
di Comune-info. Non abbiamo molta compagnia in questa disperata
impresa, ma non ci siamo ancora stancati, teniamo duro. O almeno ci proviamo,
perché vogliamo arrivare in un mondo che non esiste, come quello del sogno dei
migranti. I migranti abolito le frontiere tra il mondo che esiste e quello che
desiderano. Rifiutano di pensare che ogni speranza sia un’illusione.
Bussare alle
porte
In uno splendido articolo uscito su Doppio Zero un paio di
anni fa e intitolato “Derrida a Riace”, Gianluca Solla ricorda
come il filosofo francese avesse visto già negli anni ‘90 del secolo scorso
l’incombente ricchezza di questioni che le migrazioni avrebbero portato
all’interno dell’orizzonte europeo: “Nel momento in cui si pretende di abolire
le frontiere interne, si procede a un blocco ancora più stretto delle frontiere
esterne della cosiddetta Unione Europea. Coloro che chiedono asilo bussano
successivamente alle porte di ciascuno degli Stati dell’Unione europea e
finiscono per essere respinti a tutte le frontiere. Con il pretesto di lottare
contro un’immigrazione travestita da esilio o in fuga dalla persecuzione
politica, gli Stati respingono sempre più spesso le domande di diritto d’asilo…
lasciano che sia la polizia a fare la legge”.
Illegalità e
terrorismo
L’unica istanza diventa così quella della polizia, come un altro acuto
osservatore del Novecento, Walter Benjamin, aveva a suo tempo prontamente
profetizzato, sottolinea Solla, aggiungendo poi che “senza invenzione politica,
senza il coraggio che serve perché la polis sia qualcosa in più di una semplice
espressione territoriale, non si evita che le città perdano vitalità
propositiva per chi ci vive, per esempio musealizzandosi. Giocoforza allora
soccombere alle istanze poliziesco-securitarie della nostra Società: la polizia
finisce per sostituire la politica, diventa la vera erede della polis, ossia ne
decreta la morte ad oltranza. Da qui sorge quella equiparazione di illegalità e
terrorismo, che è il vero sintomo della brutalità linguistica e politica della
nostra epoca”.
Il controllo
del territorio
Le frontiere sono state inventate per dividere le persone. Una falsa
rappresentazione della realtà che dura da troppo tempo. Così come l’accoglienza
prigioniera delle logiche emergenziali finge di dividerne la gestione in un
sistema binario per affermarne in realtà soltanto una, quella dello Stato e
delle questure. Ancora una falsa rappresentazione della realtà. A noi le
frontiere piace guardarle dalla parte di chi non ha l’ossessione del controllo
del territorio in nome di una presunta identità nazionale. Fino a farle via via
scomparire.
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