lunedì 20 dicembre 2021

Accordi che non cambiano il clima - Alberto Castagnola

 

Terminato l’incontro di 195 Stati e di alcune organizzazioni internazionali, spentosi l’interesse mediatico, e soprattutto finito il dibattito  sul valore positivo o negativo di un evento apparentemente di grande portata, può essere utile mettere ordine tra informazioni e dati e valutare quali effetti reali possiamo attenderci nell’immediato futuro.

In primo luogo, non si possono dimenticare almeno tre accordi, (accuratamente non citati nel documento conclusivo ma che sono stati siglati in occasione dei lavori della COP26), la cui capacità di diventare operativi  e di incidere sui comportamenti di un numero così elevato di Stati è sicuramente tutta da dimostrare. Però è interessante che oltre cento paesi, oltre all’Unione Europea e agli Stati Uniti, abbiano deciso di ridurre del 30% le emissioni di metano entro questo decennio.

Si tratta di circa la metà dei trenta maggiori emettitori, ma non sono presenti Cina, India e Russia, ai primi posti tra gli inquinatori principali.  Inoltre lo stesso gruppo di paesi sembra abbiano deciso di fermare la deforestazione entro il 2030  con uno stanziamento di circa 18 miliardi di dollari per il recupero dei territori danneggiati da incendi o da tagli abusivi.

Di questo gruppo di paesi, che hanno reso noto le loro decisioni proprio all’inizio della conferenza, fanno parte anche Brasile e Cina e sui loro territori crescono l’85% delle superfici boscate. Per il metano, sarà importante analizzare la lista dei paesi per capire se le rispettive emissioni dipendono dalle industrie o dal traffico, dai pozzi petroliferi esausti lasciati senza bonifiche oppure dal permafrost lasciato scoperto dai ghiacciai, oltre poi a controllare se si verifica l’avvio di piani concreti di intervento e i tempi previsti per il loro completamento. Per le foreste saranno necessarie analoghe verifiche di piani di azione e soprattutto dei metodi adottati per il rimboschimento e per la salvaguardia delle giovani piante.

Un secondo accordo è emerso il 4 novembre, quando l’Inghilterra ha presentato la sua iniziativa volta ad interrompere i finanziamenti pubblici internazionali a progetti per l’estrazione e la produzione di combustibili fossili, alla quale avevano già aderito paesi come Stati Uniti, Canada e Danimarca, ai quali si sono aggiunti parecchi altri paesi come Mali, Costarica e Zambia nonchè la Banca Europea per gli Investimenti, la Commissione Europea e la Banca dell’Africa Orientale per lo Sviluppo.

L’adesione dell’Italia si è fatta attendere, pur in presenza di un “piano” che non è vincolante e che permette delle esenzioni e delle salvaguardie per imprese straniere, ma poi è stata resa nota.

Il motivo della esitazione ha due nomi, Sace ed Eni. La prima, l’agenzia pubblica per le esportazioni, ha garantito nel periodo 2016-2020 miliardi di dollari per nuovi progetti relativi ai combustibili fossili, la seconda  ha avviato un progetto di estrazione in Mozambico ed è presente in numerosi paesi dell’Africa.  

Un terzo accordo, annunciato prima della prima bozza di documento finale, è stato concluso a sorpresa da Stati Uniti e Cina, che hanno elencato alcuni temi ambientali per i quali intendono collaborare. Hanno anche precisato che questa iniziativa è stata preceduta da quaranta incontri, che sono evidentemente serviti a smussare i conflitti e ad agevolare le intese.

Il testo non dice molto, ma si possono immaginare molti campi di reciproco interesse economico, ad esempio un aumento delle forniture di terre rare da parte della Cina  che esercità un forte controllo su molte di esse e che dispone di gran parte degli impianti per la loro prima trasformazione, oppure una fornitura di tecnologie avanzate americane per gli impianti alimentati a carbone, oltre 120 già esistenti e oltre cinquanta in via di realizzazione in Cina.

Questa intesa, che non sembra essere una pura manovra tattica, dovrà essere seguita con molta attenzione per i suoi potenziali effetti sui tempi e sulle modalità della riduzione delle emissioni climalteranti.

Infine. non si può dimenticare che il terzo giorno della COP il Cancelliere dello Scacchiere del paese ospite, Rishi Sunak, ha annunciato che 450 istituti finanziari (banche, assicurazioni, gestori di patrimoni, ecc.) con sedi in 45 paesi si sono impegnati a rispettare i termini dell’Accordo di Parigi dal 2023.

Altri interventi hanno ricordato l’entità dei flussi finanziari internazionali e la possibilità di orientarne una parte crescente a iniziative climatiche positive. Ovviamente le organizzazioni non governative presenti hanno mostrato molto scetticismo riguardo alla proposta, ed è difficile assumere una posizione diversa, se si tiene conto della complessità e della pervasività della sfera finanziaria internazionale e della possibilità di considerare “verdi” moltissime iniziative che continuano ad avere un forte impatto climalterante.

D’altra parte, la realtà economica è ben diversa. Ad esempio, negli ultimi cinque anni, cioè da quando fu definito l’Accordo di Parigi sul clima, cinque banche internazionali – Jp Morgan Chase, Hsbc, Bank of America, Pnb Paribas, Industrial and Commercial Bank of China – e alcuni fondi di gestione patrimoniale hanno aumentato fino fino a 119 miliardi di dollari il loro impegno finanziario a favore di venti aziende agroalimentari, tra cui il colosso brasiliano della carne Jbs, legate alla attività di deforestazione, scrive il Financial Times. Lo sostiene una ricerca realizzata dall’organizzazione umanitaria Global Witness.

Dati e previsioni sulla crisi climatica

Nel periodo in cui si è svolta la prima COP dopo l’interruzione dovuta alla pandemia, diverse fonti hanno messo in circolazione dati interessanti sull’andamento del clima e soprattutto sull’andamento delle emissioni più dannose per il pianeta.

I risultati dell’evento dovrebbero infatti essere inseriti in un quadro sempre aggionato della situazione attuale e prevedibile della Terra, nel suo complesso e nei territori maggiormente colpiti. Più in particolare, gli obiettivi che dovrebbero essere perseguiti da tutti gli Stati dovrebbero in realtà essere continuamente modificati in base ai risultati ottenuti e ai peggioramenti della situazione globale che emergono continuamente.

In primo luogo, il limite di 1,5° C indicato anche dalla recente Conferenza come invalicabile, secondo il parere di molti esperti sarà superato intorno al 2040, anche se si adottassero misure molto drastiche a causa dell’inerzia dei fenomeni climalteranti. Inoltre si dovrebbe  tenere presente che a livello ufficiale si parla sempre di “medie planetarie”, il che significa che in certi territori le temperature, specie a causa degli aumenti verificatisi negli ultimi mesi e anni, hanno raggiunto o superato anche i 3° C,  mentre gli aumenti del livello dei mari hanno gia sommerso alcune isole ed eroso fasce costiere.

Nel periodo 2010-2019, il carbonio di origine antropica è aumentato di 39,6 gigatonnellate di Co2 ogni anno (33,8 causato da energie fossili, industrie e agricoltura, 5,8 da cambio di destinazione nell’uso dei terreni) 12,2 gigatonnellate sono  state assorbite dalla terra, e 9 dai mari, in totale 21,2 e quindi ciò significa che  18,4 (su 39,6) è stato accumulato nell’atmosfera. Quali Stati hanno prodotto questo fenomeno di accumulazione nell’atmosfera nel periodo tra il 1850 e il 2018? Sempre espresso in gigatonnellate di Co2:

Stati Uniti 401.230 (di cui il 73,2% prima del 2000)

Unione Europea (28 membri nel 2018) 352.390 (di cui il 78,8 prima del 2000)

Cina 219.449 (di cui 31,1% prima del 2000)

Russia 113.860 (di cui 72% prima del 2000)

Germania 90.070 (di cui 82,5% prima del 2000)

Inghilterra 73.313 (di cui 82,5% prima del 2000)

Giappone 59.349 (dicui 31,1 prima del 2000)

India 53.058 (di cui 72% prima del 2000)

Altro fenomeno le ondate di caldo estremoin sintesi, qualora gli Stati riuscissero a rispettare l’obiettivo di non superare un grado e mezzo della temperatura media planetaria, le grandi ondate di caldo che in passato si producevano una ogni cinquanta anni, oggi si produrrebbero una volta ogni dieci anni. Qualora lasciassimo che la temperatura media arrivasse a 4°C, tali eventi si verificherebbero quattro anni su cinque. Forse quando avremo a disposizione i dati dell’estate scorsa 2021 queste previsioni andranno riviste al rialzo.

E poi una citazione testuale di un esperto: “Ma qualsiasi cosa si faccia ormai, tenendo conto della durata di vita dei gas nell’atmosfera, le perturbazioni climatiche previste per i prossimi trenta anni sono diventate ampiamente inevitabili” Può sembrare una affermazione forte, ma i dati più recenti sembrano confermare questa valutazione complessiva .

Le 887 società che operano nel settore fossile a livello mondiale e che totalizzano il 95% della produzione degli idrocarburi (2) negli ultimi tre anni hanno investito 168 miliardi di dollari nella ricerca di nuovi giacimenti e tanti altri miliardi  nella costruzione di oleodotti e gasdotti. L’ENI, in particolare, che è tra le venti imprese maggiori del settore petrolifero, è presente nell’Artico, dove estrae centomila barili di greggio al giorno. Ma la sua attività è in espansione anche in Africa. In Mozambico ha un progetto al largo delle coste di Cabo Delgado.  Il piano strategico del gruppo sembra quindi procedere verso l’obiettivo di un aumento di idrocarburi del 4% all’anno.

Il rapporto Ar6 degli scienziati dell’IPCC, distribuito alla fine del mese di agosto 2021, per fornire informazioni utili sulla situazione climatica alla successiva COP26, dedicava uno spazio insolitamente ampio ai metodi di cattura del carbonio direttamente dall’aria, forse l’uica tecnologia al momento disponibile,  anche se in fase sperimentale, per contenere la concentrazione di emissioni.

Pur essendo praticamente in fase di prima sperimentazione, molti grandi gruppi petroliferi sembrano essere interessati, in particolare l’ENI diffonde l’immagine della sua iniziativa a Ravenna. Si tratta ovviamente di una tecnologia molto costosa, e per questo ogni dato in materia è di difficile reperimento.

In questi giorni, però, un articolo del Corriere della Sera fornisce due dati, non documentati, che però costituiscono una qualche indicazione sugli eventuali costi a regime. Parla di circa 1000 dollari a tonnellata di carbonio, e poi riporta una cifra fornita dalla Agenzia Internazionale dell’Energia, che afferma che questo approccio tecnologico non potrebbe in ogni caso ridurre il carbonio già in atmosfera in misura superiore al 10% entro il 2050., intervento quindi non certo risolutivo. 

E’ poi interessante un intervento di uno degli scienziati che lavorano per l’IPCC, Filippo Giorgi , che afferma: “Una riduzione immediata e costante del 3% porterebbe a comprimere della metà rispetto ai volumi attuali la Co2 nel 2050 e a portarla a soli tre miliardi ditonnellate nel 2100”.

Invece tutti spostano in là il momento di inizio e quindi il traguardo, l’India addirittura chiede il 2070. L’esperto sottolinea che in questo modo la C02  emessa  oggi rimarrà in atmosfera per un secolo, accumulandosi come una coperta sempre più spessa che surriscalda il pianeta. Nel  testo sono contenute molte altre informazioni interessanti, che se confermate getterebbero una ulteriore luce negativa sulle strategie perseguite finora dalle Conferenze delle Parti.

Sempre un supplemento del Corriere della Sera riporta un grafico di grande interesse, anche se basato su ipotesi di larga massima e non su delle rilevazioi dirette che sarebbero necessarie. E’ intitolato “Fiumi di plastica” e contiene un elenco dei 40 fiumi più importanti del pianeta, che ricevono frammenti di plastica e li riversano negli oceani.

Nel mondo si producono ogni anno due miliardi di tonnellate di rifiuti, di questi il 35% è generato in Europa e nel Nord America, il 40% della parte che resta si origina in Asia meridionale e orientale e l’11% in America latina, metre il resto proviene dall’Africa e l’America Latina. Globalmente circa un terzo non viene in alcun modo trattato e si sparge in qualunque spazio o finisce in mare.

Circa il 12% di tutti i rifiuti è formato da plastica, che quando arriva al mare forma le famigerate isole di plastica (ormai sono più di cinque) e, degradandosi, inquina il fondo degli oceani o viene ingerita dagli animali marini che poi, in parte rilevante, arrivano nelle catene alimentari degli esseri umani.

Infine, riportiamo parte di un testo intitolato “I rischi finanziari del clima“. Il 22 settembre la Banca Centrale Europea ha reso pubblici i risultati dei vari scenari presi in esame per misurare gli effetti del cambiamento climatico sull’economia europea. La banca analizza regolarmente ipotesi di crisi finanziaria per valutare la resistenza del settore bancario L’idea di questi stress test è ipotizzare il peggio per prevenirlo meglio. Inserire l’ambiente tra i fattori di rischio per l’economia aiuta a capire la gravità dellaa crisi climatica.

L’assenza di misure per decarbonizzare l’economia potrebbe provocare una riduzione del 10 per cento del Pil dell’Unione Europea entro il 2100. La Bce evoca una crescita dell’insolvenza sui prestiti concessi ai  progetti più esposti ai rischi climatici. Continuare a finanziarli mentre i regolamenti a favore dell’ambiente li renderanno obsoleti diventerà sempre più rischioso. L’allarme non è solo teorico. Anche se i protagonisti della finanza dicono di voler aiutare a decarbonizzare l’economia, la realtà è meno idilliaca.

L’aumento delle perforazioni di giacimenti di petrolio e gas nell’estremo nord è significativo. Grazie a regole farraginose, le situazioni finanziarie aggirano le restrizioni che dovrebbero proteggere l’Artico, una regione che contribuisce a regolare il clima del pianeta

Le energie fossili rappresentano l’80 per cento delle emissiono globali di Co2, causa principale del riscaldamento. La finanza è uno strumento principale per contenere il fenomeno, ma la normativa attuale è permissiva e accorda facilmente finanziamenti bancari a progetti che ritardano il raggiungimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi.

La Banca Centrale fa bene a lanciare l’allarme, ma deve anche interpretare il ruolo di regolatore. E’ già pronta a selezionare, anche in base a criteri climatici, i titoli che è disposta a comprare nei suoi programmi di acquisto , ma l’efficacia della misura dipenderà da come questi saranno definiti nel 2022.

Continuare a estrarre energie fossili al ritmo attuale è un suicidio sul piano ambientale. Bisogna prendere coscienza che lo è anche sul piano economico.

Questo testo è molto preoccupante, chi lo ha scritto conosce bene la realtà attuale e le prospettive che si stanno delineando, ma dovrebbe essere molto più radicale nel suggerire interventi e modifiche alle logiche ancora dominanti.

Considerazioni generali

Cerchiamo ora di formulare alcune valutazioni che possano alimentare il dibattito in corso e soprattutto aprire la strada ad azioni di carattere risolutiva, poichè i tempi sono sempre più stringenti

In primo luogo, è sempre opportuno ricordare che tutta l’impostazione politica ed economica dell’Accordo di Parigi e quindi di tutti i comportamenti dell’IPCC e delle Conferenze della Parti non fanno alcuna concessione a delle modifiche strutturali dei sistema economico dominante, assolutamente capitalistico e in larga misura di ispirazione liberista.

Quindi le modalità degli incontri dei 195 paesi e della selezione dei temi e delle misure da adottare hanno sempre come obiettivo delle situazioni di sostenibilità ed escludono sempre qualunque alternativa, anche di piccola entità, che sembra comportare  anche in prospettiva una qualche mutazione radicale del sistema esistente.

Di conseguenza, tutte le misure poste sul tavolo sono sempre degli aggiustamenti al margine delle economie esistenti, per renderle meno esposte agli effetti più pesanti dei mutamenti climatici in corso ormai da molti anni e in fase di accelerazione quanto a diffusione ed effetti. In realtà quindi non si prendono in pratica in considerazione delle mutazioni delle cause stesse di gran parte dei fenomeni in corso. Inoltre si parla sempre e soltanto di mitigare i danni arrecati dal sistema economico dominante, evitando accuratamente ogni ipotesi di modifica strutturale.

E ancora, si parla di adeguamenti, cioè di rendere le condizioni di vita, produttive e sociali adattandole ai mutamenti climatici in corso, senza pensare di fatto a intervenire sulle cause reali che li hanno causati, e che continuano a farle peggiorare giorno dopo giorno.

Purtroppo anche i numerosi scienziati che collaborano a questa esperienze di fatto accettano questa impostazione di fondo, anche quando sembrano documentare correttamente gli andamenti del clima e i principali effetti di tali processi. Inoltre, almeno finora, la logica iniziale viene rispettata e riproposta, pur in presenza di peggioramenti e mutazioni dei meccanismi di danno per il pianeta, ormai ben noti e documentati, perfino da fonti ufficiali.

Un secondo aspetto merita di essere evidenziato. Fin dall’inizio dell’interesse mostrato verso questi fenomeni climatici (quindi anche molti anni prima dell’Accordo di Parigi) l’IPCC  aveva adottato un atteggiamento verso gli Stati membri improntato alla massima autonomia dei singoli paesi.

In altre parole, qualunque decisione presa era lasciata alla buona volontà dei governi sul se, come e quando realizzarla. Il principio ispiratore, senz’altro condivisibile, era quello della massima salvaguardia dei poteri statuali, che però avrebbe richiesto il massimo impegno, per ognuno di loro, per attuare nei tempi previsti qualunque iniziativa fosse stata approvata da tutti.

In realtà, per una serie di motivi, questa dinamica ottimale non si è realizzata, il conseguimento della totale partecipazione ad ogni decisione da prendere e soprattutto il rispetto di norme e tempi di attuazione è stato raggiunto spesso solo per circa la metà dei partecipanti, metre per gli altri si accumulavano ritardi o sostanziale sottrazione agli impegni.

Tenendo conto della gravità della situazione climatica da affrontare e del continuo peggioramento delle condizioni ambientali, sarebbe forse opportuno, salvaguardando il principio ispiratore, adottare dei metodi più efficaci per garantire le massima partecipazione e il rispetto dei termini stabiliti, pena la sostanziale inutilità o inefficacia degli interventi previsti, un lusso che gli abitanti della Terra non si possono certo permettere.

Ad esempio, si potrebbero far conoscere con molti dettagli gli adempimenti dei paesi virtuosi, sperando che dai buoni esempi tutti possano trarre benefici. Oppure, si potrebbero mettere a disposizione delle situazioni più difficili, gruppi di scienziati e di specialisti con esperienze di governo. Idee di questo tipo si possono moltiplicare e rendere massimamente efficaci, poichè non si possono perdere anni preziosi senza reagire.

Anche senza effettuare interventi di controllo molto pesanti, iniziative di sostegno nelle situazioni più di difficili o in ritardo eccessivo potrebbero essere messe a disposizione senza intaccare principi di autonomia o suscettibilità particolari in nome del comune interesse a effettuare in tempi brevi un miglioramento delle condizioni ambientali.

Gli accordi tra gruppi di paesi come quelli indicati nella prima parte di questo testo, possono essere interpretati come desiderio di collaborazioni più estese o come interessi specifici o meccanismo di danno di particolare interesse, ma potrebbero anche essere letti come segnali di allarme da parte di Paesi che, per motivi anche diversi, sentono l’esigenza di accelerare o rendere più efficaci gli interventi discussi nelle plenarie.

Ma potrebbero anche indicare un qualche disagio di singoli o di gruppi di paesi nel dover attendere, talvolta per anni, ad effettuare interventi di interesse vitale e comune a tutti. La tematica è sicuramente delicata, ma trascurarla completamente aumenterebbe i rischi di tutti.

Veniamo al ruolo svolto in  questo periodo di infiniti confronti da una personalità che nelle precedenti scadenze si era molto spesa per la tutela degli interessi comuni. Parliamo di Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite. A pochi giorni dall’inizio della COP 26 ha presentato un rapporto diffuso dall’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente che metteva in evidenza il fatto che allo stato attuale gli sforzi dei singoli paesi porterebbero a una riduzione delle emissioni di gas serra del 7,5 % entro il 2030.

Impegno insufficiente secondo le Nazioni Unite poichè avremmo bisogno di una riduzione del 55% per limitare l’aumento del riscaldamento globale a 1,5° C. E quindi abbiamo solo 8 anni per dimezzare le emissioni di gas serra, cioè di tagliare 28 gigatonnellate di anidride carbonica equivalente. Solo otto anni per decidere gli interventi, fare i piani di riduzione, realizzare tutte le azioni necessarie.

Negli anni scorsi Guterres ha ripetuto più volte che ogni anno, a partire da subito, avremmo dovuto ridurre le emissioni del 6,5%. Ciò significava anche che se un anno non si raggiugeva l’obiettivo, l’anno successivo avremmo dovuto raddoppiare questa cifra. Nell’ultima dichiarazione questa percentuale è diventata del 7%.

Guterres, sempre prima della Conferenza aveva inoltre fatto delle proposte. “Tutti i paesi devono capire che il vecchio modello di sviluppo fondato sul carbone costituisce una sentenza di condanna a morte per le loro economie e per il nostro pianeta. Dobbiamo decarbonizzare adesso, in tutti i settori e in tutti gli Stati. Dobbiamo dirottare i sussidi dai combustibili fossili alle energie rinnovabil, e tassare l’inquinamento, non le persone.

Dobbiamo mettere un prezzo al carbonio, e indirizzare queste somme verso lavori e infrastrutture resilienti. Occorre uscire gradualmente dal carbone, entro il 2030 nei paesi Ocse e entro il 2040 in tutti gli altri. Sempre più governi si  sono impegnati a smettere di finanziare il carbone e i gruppi finanzari privati devono urgentemente fare lo stesso. 

La gente si aspetta giustamente che i propri governi guidino questo processo. Ma tutti abbiamo la responsabilità di salvaguardare il nostro futuro collettivo. Occorre che le imprese riducano il proprio impatto climatico e indirizzino i propri flussi finanziari e operativi verso un futuro a emissioni zero. Basta con le scuse e con strategie che nascondono impatti ambientali negativi.

Gli investitori, pubblici e privati, dovrebbero fare lo stesso, unendosi ad apripista quali l’Alleanza di investitori istituzionali internazionali, che si è impegnata a trasferire i propri portafogli verso investimenti a emissioni zero , e il Fondo Pensioni delle Nazioni Unite, che ha raggiunto in anticipo e oltre le previsioni gli obiettivi di investimento 2021 fondati sulla riduzione di carbonio globale, in una percentuale del 32% quest’anno”. Come si vede, i suggerimenti e le esperienze  erano già sul tavolo, ma praticamente nulla è stato deciso in questa direzione.

da qui

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