martedì 7 dicembre 2021

PERCHÉ SE IL VEGETARIANISMO È OGGI PURGATORIO, LA CARNE È DUE VOLTE INFERNO - Guido Ceronetti

 

Non sembra facile, oggi, una difesa del vegetarianismo. Non solo tutti idolatrano il vitello carneo: il nutrimento alternativo, da contrapporgli, è scadente, povero e pericoloso. Nei catechismi vegetariani tradizionali si agita un mondo d’ombre. La polpa matura dei frutti, la potenza degli alimenti crudi, la virtù risuscitativa del miele, la perfezione del latte, lo splendore del burro, l’incanto dei formaggi, l’inesauribile bellezza del pane, l’eccellenza curativa del vino, la regalità dell’olio d’oliva, le profondità energetiche dell’uovo di gallina. Guai a sbucciare un frutto; lavare poco; seguire sempre i ritmi stagionali. In autunno, fra i tralci, a sguazzare nell’uva nera; noci umide di mallo, pannocchie di granturco dorate nel burro. Inverno: agrumi e castagne. Primavera: grandi vasi di fragole di bosco, condite con pòllini. Estate: tutto il giallo, tutto il rosso. E tutto piamente masticato cento volte, benedicendo la Natura datrice, fuggendo il sale, il fumo, il caffè. A Jasnaia Poliana era un regime possibile: ma qui, ora? Quei buoni manuali insegnano il ballo a una corsia di amputati. Nelle illustrazioni, donne sanissime aprivano le stanze ai raggi del Maturatore appena levato per il suo giro nei frutteti, mentre una bambina in fiore correva addentando mele non proibite, perché non sbucciate. C’era, a Praga, ai primi del secolo, una Pomologische Schule, una scuola di frugivorismo, che ebbe tra i suoi frequentatori Franz Kafka, vegetariano tra i più ascetici – crauti senza salsicce – finché la tubercolosi non lo costrinse a mangiarli con salsicce. Ma, a Zurigo, nella clinica Bircher-Brenner c’erano, per tubercolotici, speciali diete vegetariane. Un vegetarianismo di moltitudini, nel mondo occidentale, è impensabile, e quello di élite vive con difficoltà. Per essere vegetariani bisogna credere anzitutto in certi principia filosofici piuttosto estranei a questa cultura, e adeguarvi una disciplina igienica, uno stile personale di vita. Sembrano sogni: tutta l’Intelligenza europea studiosa e creatrice è un Mammut carbonizzato per quanto riguarda i problemi morali con proiezione e dipendenze metafisiche. Non parlo dei Russi: in loro qualcosa vive, da loro qualcosa di eterno ogni tanto arriva a confonderci e a ferirci; ma in Occidente sulle vivendi causas non si piega quasi più nessuno e la parola scritta, anche la migliore, porta con faccia suicida questa sua barbarie muta. Tra muraglie di libri, i letterati vivono come un presentatore televisivo o il più ottuso dei dirigenti industriali. Allora carne carne carne carne; finché ci sono bestie da ammazzare carne; quando saranno finite, provvederanno Burke e Hare: l’importante è che il piatto sia pieno. Inoltre la guerra feroce della medicina contro il vegetarianismo ha scoraggiato molti onesti principianti, ai quali è mancato il cuore di sfidarla. «Se non mangi la carne muori!». La medicina vede il vegetariano come un suicida, che abbia scelto la zuppa d’avena invece della pistola a tamburo per finirla con ogni tipo di cena. E poi siamo immersi in un’esaltazione continua e rabbiosa della sopraffazione, dell’uomo sulla bestia e di chiunque sopra chiunque, e il nutrimento carneo è visto come il fondamento necessario di tutta la gerarchia della paura, è l’olio benedetto che consacra i re della vita. Perciò scrivo queste piccole note per incoraggiamento dei vegetariani timidi e per approvazione dei clandestini, punti di refrigerio nelle fornaci del carnivorismo. Da molti anni sono vegetariano e posso dire di averci guadagnato in salute fisica e mentale. Non ho perduto che le macabre catene del conformismo onnivorista. Dati i prezzi del mercato delle carni, una famiglia volontariamente vegetariana galleggia meglio, può spendere in raffinatezze quel che risparmia in pezzi di cadavere, ha un bilancio meno pesante e lo stomaco meno guasto. Meglio sia un’intera famiglia a nutrirsi vegetarianamente, e non un solo componente, perché così non c’è separazione a tavola, tutti unisce in un magico circolo l’ideale comune. Siate diversi, sostanzialmente diversi da come vi vogliono, da come vi fanno essere! E per esserlo infallibilmente, bisogna cominciare dal nutrimento, tutto è lì. Il vegetarianismo familiare è un’incrinatura sensibile dell’uniformità sociale, una piccola porta chiusa al male, in questa universale condanna a essere tutti uguali a servirlo. I bambini non sono un problema: quasi tutti sono, spontaneamente, vegetariani, e un vegetariano avveduto non li priva certo di proteina. La carne gli viene imposta dall’idiozia camivorista degli adulti. I padri permettono ai bambini anche d’impiccarli, ma guai se respingono il piatto di carne! E dall’implacabilità dell’affetto deluso, le vendette più atroci! E quando una gaia coppia vegetariana scoprisse, in un figlio delle sue viscere, funeree inclinazioni carnivore dovrà reprimerle? C’è un destino, anche qui, e si può contrastarlo solo entro limiti di buon senso. Ma un’educazione vegetariana fondata sulla pietà e sulla bhakti, dovrebbe resistere bene alle violenze dell’istinto. Un vero vegetarianismo esclude qualsiasi tipo di carni, e anche i brodi carnei, tanto meno consumabili quanto più consommés. È un modesto Verboten nell’immensità del mangiabile… La dieta vegetariana è di solito amatissima da chi la pratica, rare le riconversioni non forzate. Il vegetarianismo, idea liberatrice, è da riproporre, ma i suoi vecchi testi sono da riscrivere tutti. Una separazione certa tra alimenti vitali e alimenti assassini non è più possibile, perché tutto quel che ci nutre riceve un permesso di nuocere dai demoni dell’inquinamento. Provati a cercare i frutti maturi! a mangiarli da sbucciare! E a fare la cura dell’uva non lavata! Sui vigneti, un teschio gentile ti avverte che i grappoli sono avvelenati. E riempiono ormai un grande cimitero, le ossa dei bambini assassinati da una mela, da una pesca prese nei campi! Frutti enormi, senza una macchia: immangiabili. Crescono sotto i calci del chimico, sovente al buio, i famosi alimenti solari dei vegetarianisti! Che cosa potrebbe fare la Scuola Pomologica? Contemplare rovine… Che cosa sono nei negozi ortofrutticoli quei bubboni lucidi, deformi e rossi come nasi di ubriachi, esposti in piccoli bidè di plastica? Dai letterati ritenuti Fragole, sono in realtà ormoni capponati, fatti ingrassare tra due striscioline luttuose di plastica nera, truccati da fragole per compratori che tanto non ne vedranno mai una. Gli agrumi, le patate… Non si creda che soltanto le bucce siano pericolose. Il vegetariano è colpito nei punti del suo antico giubilo, bisogna ammetterlo. Impegna allora un combattimento strano: mentre arricchisce la sua dieta di rinunce, esplora l’ignoto in cerca dell’incontaminato. Batte le campagne per trovare un vero uovo, nei misteri della città scopre un formaggio lunare. Vita di monaco vagabondo, non priva di attimi radiosi. I funesti prodotti del terricidio li schiva con ribrezzo. «Se il vegetarianismo è così difficile, perché non la carne?». Perché se il vegetarianismo è oggi purgatorio, la carne è due volte inferno. Una tabellina del grado di sconsigliabilità degli alimenti, così come sono oggi in natura e in commercio, non avrà ai primi posti quelli del vegetariano, ma dell’onnivoro. Si sa che cosa sono le carni in genere: quel che c’è di più devitalizzato, di più sporcato dai medicinali (antibiotici, estrogeni, tranquillanti, antitiroidei) tra i prodotti alimentari. L’allevamento del bestiame non ha scrupoli per raggiungere i pesi e i profitti desiderati. Ripulitelo, lucidatelo quanto volete, il mattatoio, chiamatelo Paradiso dei Millefiori: sarà come versare i profumi d’Arabia sulle mani di Lady Macbeth. Meglio che abbia odore di morte, che non mentisca, che si possa vederla, toccarla e mangiarla, la sua misteriosa somiglianza con l’uomo. Il mattatoio è la nostra ombra; qualsiasi città, Stato, società civile proietta quest’ombra che impoverisce la luce dell’astro. Fatelo periferico, chiudetelo sottoterra: sarà sempre dietro ogni porta, e la sua presenza ci maledice tutti. E tuttavia il mattatoio non è che il beato punto finale di un transito nell’esistenza tra i più tormentosi. L’allevamento industriale, col suo commercio mondiale, è una planetaria camera di tortura: i lunghi viaggi strazianti per mare e ferrovia, le isterectomie per mettere i feti nelle incubatrici, le continue iniezioni, le fecondazioni artificiali, le nutrizioni intensive, impregnate di orrore chimico, nel buio e nella semiparalisi, per fare lombi più grassi e carni più anemiche, i terrori, le catene, le mutilazioni, ne sono i principali strumenti. L’allevamento all’aria aperta è quasi scomparso, e l’animale nasce e muore in una prigione perpetua. Vedere l’eccellente lavoro inglese edito da Bompiani, Il dominio dell’uomo di Hutchings-Caver (naturalmente, se n’è parlato pochissimo), capitoli 7 e 8, che tuttavia non contengono che un panorama di orrori limitato (gli autori non sono vegetarianisti) e, per una idea di un grande mattatoio, quel che scrive Mailer degli stock yards nella sua cronaca della Convenzione di Chicago del ’68. Sugli alimenti contaminati, carni e no, c’è l’importante saggio di Maurice Pasquelot, La terre chauve, edito dalla Table Ronde. Argomentando della tossicità delle carni, non va trascurato quel che l’analisi non può rivelare: l’energia negativa di cui è imbevuta ogni molecola di un essere sensibile trattato come una quantità inanimata, il concentrarsi in chi se ne ciba dei residui psichici del suo terrore e della sua disperazione. Lamenti di macchine da allevamento, miserabili lamenti di bruti subumani che cosa contano? Siamo una civiltà cartesiana: l’animale è come un orologio, puro movimento automatico, niente anima… Trattiamo anche noi stessi come quantità inanimate. In questo c’è giustizia.

 

Tratto da Guido Ceronetti, La carta è stanca

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