Piove. Fra freddo. Anche oggi il cielo ha l’inconfondibile sfumatura
biancoverdastra di una mozzarella andata a male. A metà pomeriggio, cioè
praticamente subito, sarà buio. E l’unica cosa che vorrei davvero fare adesso è
infilarmi sotto un piumone con una scorta di libri gialli. E riemergere solo
dopo aver sciolto ogni enigma e scovato tutti gli assassini.
Chissà, magari dopo Pasqua. O almeno dopodomani.
Intanto cincischio sul computer. E, cincischiando, mi imbatto
nell’illanguidimento e nei suoi correlati. Compreso un video piuttosto
pregevole.
L’EMOZIONE DOMINANTE. L’illanguidimento (languishing)
è l’emozione dominante del 2021, scrive
lo psicologo Adam Grant sul New York Times il 19 aprile di quest’anno. Cita
gli amici che lamentano di avere difficoltà a concentrarsi, i colleghi che non
riescono a entusiasmarsi nemmeno di fronte alle prospettive aperte dal vaccino.
E il familiare che tira tardi la notte riguardando per l’ennesima volta un film
che conosce a memoria.
Nel suo articolo, Grant sottolinea che non è questione di esaurimento (burnout), perché le persone hanno ancora energie.
E non è depressione, perché non si sentono disperate. Insomma, non si tratta di
un vero disagio psichico ma, piuttosto, di un – assai diffuso – senso di
stagnazione e di fatica.
È, ne più né meno, assenza di benessere: come
guardare la propria vita attraverso un parabrezza appannato. Una condizione che
rimanda a quel grande piano indistinto che si colloca giusto a metà tra le
vette dell’entusiasmo e della focalizzazione e le voragini del malessere.
CONTRASTARE L’ILLANGUIDIMENTO. Grant dà due
suggerimenti per contrastare l’illanguidimento. Il primo riguarda il provare
a immergersi nel flusso (flow), cioè in quella speciale condizione di attenzione
totale e concentrata che è stata teorizzata da Mihaly Csikszentmihalyi, e
che è tipica del lavoro creativo. In sostanza, chi si immerge in
un’attività che sa fare bene, e specie in un’attività creativa, può, in certi
casi, lasciarsene trasportare, fino a dimenticarsi completamente di se stesso.
È una sensazione non frequentissima, ma entusiasmante.
Il secondo suggerimento riguarda lo scegliere, per potersi concentrare e
abbandonare al flow, attività sfidanti ma non impossibili. Quindi: né noiose
perché troppo facili, né frustranti perché troppo impegnative.
Nei mesi seguenti l’articolo viene ampiamente
ripreso e citato, anche qui in Italia. Ma, forse, i
benintenzionati suggerimenti di Grant non bastano a contrastare la pervasività
del languore.
LA COSA PIÙ CORAGGIOSA. Il New York Times
torna sul tema a ottobre, con un
video che esordisce ricordando la rinuncia della ginnasta Simone Biles a
competere durante le Olimpiadi. E che subito dopo mette in discussione
l’assunto “chi vince non molla e chi molla non vince”, assai radicato in un
paese che, come gli Stati Uniti, massimamente valorizza la perseveranza. Il
mettercela tutta. E che a lungo ha promosso l’imperativo di essere “vincenti” a ogni costo,
stigmatizzando qualsiasi propensione a rinunciare.
Qualche volta, invece, la cosa più coraggiosa che si può fare è esattamente
questa: smettere, mollare. E, soprattutto, smettere con le cose che in teoria
bisognerebbe amare, ma che (ormai, segretamente) ci risultano
insopportabili.
EQUILIBRI MIGLIORI. È la Great Resignation: quella che negli Stati
Uniti sta coinvolgendo lavori e matrimoni, social media e
abitazioni urbane. Le persone, semplicemente, ripensano alle proprie carriere,
alle proprie condizioni di lavoro, alla propria situazione affettiva, agli
obiettivi a lungo termine. E tirano i remi in barca, con l’intenzione di andare
alla ricerca di equilibri diversi e migliori.
Il video del New York Times merita di essere visto per le immagini, per la
grafica e il montaggio eccellenti, per la pregevole sintesi. E anche perché
suggerisce che il fenomeno della Great Resignation nasca dal superamento
collettivo e (complice la pandemia) piuttosto improvviso, di due bias. Cioè di
due fallacie cognitive, che di norma disorientano le nostre decisioni in modo
assai insidioso.
COSTI CHE NON SI RECUPERANO. Il primo è il bias dei costi
irrecuperabili (sunk cost bias): l’idea
che, siccome si è già sostenuto un costo (non necessariamente un costo in
danaro, ma anche in tempo, in attenzione, in emozioni) per ottenere qualcosa,
quel qualcosa vada preservato anche se non va più bene, o se non è più
soddisfacente, proprio perché il costo pregresso non può essere
recuperato.
Per esempio: potrei scegliere di andare a vedere uno spettacolo che non mi
interessa solo perché ho già pagato il biglietto. Tuttavia, facendo questo,
comunque non recupero il costo del biglietto, e in più spreco malamente il mio
tempo. Sarebbe invece molto meglio, e più sano, resistere al bias, non
rammaricarsi per il biglietto e concedersi il gran sollievo di fare
tutt’altro.
OPPORTUNITÀ A CUI SI RINUNCIA. Il secondo è il bias,
simmetrico, del costo opportunità (opportunity cost bias). La scarsa percezione del
fatto che qualsiasi scelta attuata (per esempio, andare in ufficio) implica
sempre e in ogni caso anche un costo. Il quale corrisponde al valore (o al
beneficio) che potrebbe essere conseguito compiendo una scelta alternativa (per
esempio, fare una passeggiata).
Dunque, se scegliere qualcosa coincide sempre col rinunciare a
qualcos’altro, abbandonare quel qualcosa può coincidere con il procurarsi
qualcos’altro, che potrebbe anche avere un valore maggiore per noi. Specie se
consideriamo che anche il nostro tempo è una risorsa scarsa.
Giusto per fare un esempio: l’immagine che segue mostra il numero di settimane
di vita media di un essere umano. Non sono poi così tante, no? Ecco perché la
variabile-tempo andrebbe considerata attentamente in tutte le scelte che si
compiono.
LE COSE CHE CONTANO. In sostanza: il New York Times
sostiene (e come dargli torto?) che la scelta di perseverare va compiuta solo
nei confronti delle Cose Che Contano Davvero.
Non dev’essere, cioè, un automatismo dipendente dall’approvazione sociale. O
dall’abitudine. O dal timore di affrontare l’incertezza e la dose di rischio
che sono fatalmente connesse con il cambiamento.
Intanto, il cielo è diventato grigio topo, e poi grigio piombo, e poi
nerofumo. Se i miei umori sono – lievemente – migliorati è solo perché,
cincischiando tra schermo e tastiera, ho avuto la ventura di imbattermi in un
paio di idee interessanti, che forse sono perfino riuscita a raccontare.
Amen.
Ora, forse mi intratterrò per un po’ con l’idea che raccontare possa essere
una fra le non molte Cose Che Contano Davvero. E che, alla faccia
dell’illanguidimento, vanno preservate.
O forse andrò a spiaggiarmi su un divano guardando una serie, da adesso e
ancora e ancora, fino a domattina.
https://nuovoeutile.it/lillanguidimento-tempo-cose-che-contano/
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