mercoledì 22 dicembre 2021

Il debito per il clima - Antonio De Lellis

 

Esiste un rapporto tra sindemia, debito e cambiamenti climatici? Il rapporto e le interconnessioni sono dovute, ad esempio, al fatto che l’aumento del debito pubblico e in generale il peggioramento dei conti pubblici è stato necessario per sostenere i lockdown e la ripresa delle attività. Ma lo stesso sarà necessario per attivare politiche di contrasto ai cambiamenti climatici. Cosa accadrà ai nostri conti pubblici peggiorati in balia della finanza speculativa? Quali scenari geopolitici avremo di fronte? È possibile neutralizzare gli effetti della finanza ed è possibile non dipendere da essa?

Quanto è costato a ciascun italiano la sindemia? Calo del Pil nominale pro-capite: 2.371 euro. Aumento del debito pro-capite 3.049 euro. È costato dunque ad ogni italiano in media 5.420 euro. Gli aiuti statali sono stati 1.858 euro, inferiore di 513 euro alla perdita del Pil pro-capite. In Germania abbiamo avuto una differenza positiva tra aiuti statali e perdita del Pil pari a +1.841 euro, in Francia -120 euro.

Al 31 dicembre del 2020 il debito delle amministrazioni pubbliche era pari a 2.569,3 miliardi (155,6 per cento del Pil); a fine 2019 il debito ammontava a 2.409,9 miliardi (134,7 per cento del Pil). Il debito elevato sembrerebbe non necessariamente un problema o un limite (il costo del debito si annulla per effetto delle politiche delle banche centrali), ma non c’è nessuna garanzia sul fatto che non torneremo all’austerità. Il sistema pensa di evitarla sperando nella crescita, ma la crescita oltre a essere nemica della sostenibilità dipende da troppe variabili anche di tipo internazionale e non c’è nessuna certezza al riguardo. La prospettiva meno affascinante è che l’Italia continua a muoversi con richieste di scostamento confermando il piano di rientro decennale basato su Austerity e sull’efficacia del PNRR che però si basa su un saldo netto minimo e su stime sempre fragili.

Ampliando lo sguardo, come valutare ciò che accade in Africa? Lì si vorrebbe far ricorso a modelli come quello dei debt-for-climate-swaps: il condono del debito in cambio di impegni finanziari sulla transizione ecologica. Per uscirne, stima la Banca mondiale, avrebbe bisogno di 30-50 miliardi di dollari all’anno fino al 2030. Lo stesso meccanismo dei debt-for-climate swaps resta una soluzione minoritaria e di difficile esecuzione, come testimonia il naufragio di una proposta in loro favore che avrebbe dovuto essere pubblicata da Fondo monetario internazionale e Banca mondiale. Il rischio è che la via principale resti quella dei prestiti, gonfiando ancora di più l’esposizione debitoria. Se fai tutto questo ricorso al debito, devi avere una buona affidabilità creditizia. Ma le economie africane sono state affossate dal Covid.

Se attraverso il debito la finanza speculativa incide profondamente, determinando prima caos climatico (banche fossili), conflitti armati (finanziamento nucleare) e migrazioni forzate epocali, come possiamo neutralizzare l’effetto dei padroni del clima? Se la finanza entra nel grande mercato dei prestiti per il contrasto al cambiamento climatico, non otterremo l’effetto opposto? Ovvero i Padroni del Clima non diventeranno sempre di più i padroni del mondo? Per questo gli indigeni in Sudafrica sono in rivolta contro gli accordi della Cop26 di Glasgow: «È ingiusta e causerà un ulteriore sfruttamento delle risorse naturali», «Nella sua forma attuale l’accordo è subdolo e non etico. Da un lato il mondo sviluppato si rifiuta di raggiungere l’obiettivo di ridurre le emissioni di carbonio di 1,5 gradi, dall’altro finanzia progetti di innovazione verde in Sudafrica». «Questo approccio sosterrà lo sfruttamento delle nostre risorse naturali e minerarie per il loro guadagno a lungo termine a scapito dei diritti delle popolazioni indigene, escluse dall’accordo. La Cop26 non può violare i diritti sanciti dalla dichiarazione delle Nazioni Unite».

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