A che punto è la notte? Due notizie, comparse su pagine diverse dei giornali dell’11 dicembre, ma tra loro connesse, ce lo fanno capire. Una serie di uragani ha investito il Kentucky e quattro Stati adiacenti, con venti a 350 chilometri l’ora, polverizzando una fabbrica con dentro i suoi operai e devastando diverse città, mentre a pochi Stati di distanza (Nord e Sud Dakota) la siccità costringeva gli allevatori, principale “industria” dell’area, a svendere il bestiame per mancanza di acqua e scarsità di foraggio. Lo stesso giorno, in Italia, Confindustria, sindacati e associazioni varie di categoria si opponevano a fissare al 2035 (data indicata dalla COP26 di Glasgow, ma non sottoscritta dall’Italia) la cessazione di produzione e vendita – non certo della circolazione – delle auto a combustione. “Troppo presto!”, gridano: se proprio si deve fare, ci occorre “molto più tempo”.
Ma che cosa lega queste due notizie? Il disastro del Kentucky illustra “dal
vero” le condizioni in cui si troveranno a vivere non generiche “future
generazioni”, ma già la prossima (next); e non solo in Kentucky e
Dakota, ma, con alterne varianti, ovunque. Il tira-e-molla tra Confindustria e
governo illustra “dal vero” l’irresponsabilità nei confronti della crisi
climatica e ambientale, ormai in pieno corso, di tutto l’establishment
(sindacati compresi) non solo italiano, ma del mondo intero; nell’indifferenza
per l’incombente catastrofe denunciata, tra gli altri, da papa Francesco.
Indifferenza che nasce da una visione – o “non visione” – della
transizione che vede il futuro scorrere nelle stesse forme del presente e del
recente passato: niente dovrà cambiare veramente: l’energia, sempre più
abbondante per soddisfare i “crescenti bisogni”, verrà dalle fonti rinnovabili
e, siccome non bastano, dal nucleare (fissione o fusione) e dal gas, che si
continuerà a usare (moltiplicando gli impianti), ma anche a cercare in nuovi giacimenti
e a trasportare con nuovi gasdotti. Le emissioni? Le manderemo sottoterra con
il CCS (Carbon Capture and Storage, tecnologia che punta alla cattura e
al sequestro – o stoccaggio – del diossido di carbonio), anche se il principale
impianto di CCS del mondo, della Chevron in Australia, è appena stato chiuso
perché non funziona. Il territorio? Lo renderemo più bello moltiplicando
autostrade e linee ad alta velocità, anche se continuerà a franare da tutte le
parti. L’alimentazione? Ci penseranno gli OGM (pardon!, il Genoma Editing) e la
bistecca sintetica.
Ovvio che rinunciare a un’auto posteggiata ventidue ore di media sotto casa
o al lavoro – e che per le restanti due intasa la circolazione – è impensabile.
Anzi, se oggi nel mondo ce ne è quasi un miliardo e mezzo, lo “sviluppo
sostenibile” esige che al 2035 ce ne sia il doppio e al 2050 una ogni due
abitanti della Terra. O vogliamo lasciare a piedi il “Terzo mondo”? Elettriche?
Ma nel 2035 si sarà trovato sicuramente il modo per ridurne ancora le emissioni,
anche se i territori da attraversare saranno ormai come nel Kentucky.
All’origine di questa “discrasia” tra ciò che vediamo già oggi, in
Kentucky e un po’ ovunque, e quello che non vedono – e non vogliono vedere – i
drogati della crescita e della motorizzazione di massa (elettrica o a
combustione? poco importa: congestione, particolato prodotto da freni e
pneumatici, devastazione del territorio, saccheggio delle risorse e spirito
proprietario li producono entrambe; a gara) c’è l’equivoco dello sviluppo
sostenibile: un ossimoro, perché quella presunta “sostenibilità” non
contempla e non contemplava fin dall’inizio la necessità di una svolta a U
rispetto a tutto quanto ha caratterizzato stili di vita e sistema produttivo
nel corso degli ormai tanti anni in cui vizi ed esiti mortiferi della loro
perpetuazione si sono resi chiari (anche se ben nascosti dalla pubblicità, da
una cultura asservita, da una ignoranza promossa dai pochi – sempre meno – che
tengono in mano le redini del mondo globalizzato).
È mancata e manca alla base di ogni proposito – vero o millantato – di
conversione ecologica una discussione che coinvolga la generalità dei cittadini
e delle cittadine – territorio per territorio, categoria per categoria, scuola per
scuola, azienda per azienda, casa per casa – su quello che ci aspetta veramente
se lasciamo che le cose procedano come ora, o con poche varianti, e quello che
occorre veramente fare – e quello, soprattutto, che occorre non fare
assolutamente più; e da subito – per evitare di trascinare l’umanità in un
disastro irreversibile. Di promuoverlo, prima ancora di definire programmi e
progetti – anzi contestualmente alla loro individuazione – dovrebbe occuparsi
innanzitutto il ministero della Transizione Ecologica se rispettasse il mandato
contenuto nel suo stesso nome. La conversione ecologica non si può fare senza coinvolgere
i suoi destinatari, che sono anche i suoi attori; e non possiamo non esserlo
tutti: non oggetto passivo di questo processo, ma suoi protagonisti
insostituibili. Solo così le istanze irrinunciabili di giustizia sociale che
esso comporta possono emergere e affermarsi in tutta la loro valenza e
potenza. Non lo fanno “loro”? Dobbiamo farlo noi.
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