domenica 31 ottobre 2021

Il futuro della biodiversità agricola - Stefano Mori

 

 

Si è conclusa nei giorni scorsi la prima parte del vertice internazionale della Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD), la cosiddetta COP15. L’appuntamento, che ha visto il confronto tra 195 paesi, è fondamentale per condividere un sistema di regole e obiettivi che permetta di arrestare la perdita drammatica di biodiversità nel mondo.

Sebbene meno conosciuta della COP sul clima, la COP sulla biodiversità ha un’importanza almeno identica. Oggi infatti tre quarti dell’ambiente terrestre e circa il 66% dell’ambiente marino sono stati significativamente modificati dalle azioni umane, fatto che ha determinato un crollo del numero di specie animali e vegetali, così come un crollo della biodiversità coltivata.

Per porre rimedio a questa situazione, si stima che ogni anno saranno necessari più di 700 miliardi di dollari. Ma il punto è: dove andranno questi fondi? La preoccupazione dei movimenti sociali e di alcune ONG come Crocevia, è che verranno destinati a false soluzioni, aumentando la privatizzazione delle aree naturali ancora integre, cacciando le popolazioni indigene e le comunità locali dai luoghi che hanno accudito per decenni, utilizzando i “servizi ecosistemici” per farne moneta di scambio su mercati del carbonio dedicati.

Ciò che davvero sarebbe necessario, invece, è una inversione a U dal modello dell’agricoltura industriale, primo fattore di distruzione dell’ambiente e di riduzione della biodiversità. Ecco perché Crocevia segue e partecipa ai negoziati della Convenzione sulla Biodiversità in supporto alle reti e ai movimenti di piccoli produttori e Popoli Indigeni.

Vogliamo che il prossimo pacchetto di regole che i governi riuniti nella CBD concorderanno comprenda il riconoscimento dell’agroecologia contadina e del modo di vita indigeno come pratiche capaci di invertire la perdita di biodiversità, garantirne la vera conservazione dinamica e l’evoluzione.

 

L’importanza della biodiversità agricola

La biodiversità agricola sta scomparendo rapidamente, a causa del supporto incondizionato da parte della governance globale all’agricoltura intensiva: l’agricoltura e l’acquacoltura ormai ridotte a industrie appiattiscono la biodiversità agricola, creando un mondo di sementi, alberi, razze e specie acquatiche omogenei e spesso modificati geneticamente per includere tratti limitati, che sono utili al mercato ma non all’equilibrio degli ecosistemi. Si vengono a creare così agroecosistemi semplificati e pesantemente contaminati con biocidi e altri prodotti agrochimici.

Mentre la pandemia di COVID continua, dobbiamo ricordarci che i rischi di zoonosi sono sempre maggiori in ambienti con poca biodiversità e con presenza massiccia di allevamenti intensivi. L’espansione dell’agricoltura industriale in aree remote crea lo spazio perché patogeni rari possano accedere a ospiti vulnerabili, dando origine a nuovi e più virulenti ceppi di influenza e coronavirus come il COVID-19.

Dall’ascesa dell’agricoltura industriale, avvenuta con la rivoluzione verde, la biodiversità è stata considerata incompatibile con l’agricoltura. Purtroppo, la direzione non sembra cambiare.

Le Nazioni Unite, tramite la Convenzione per la Diversità Biologica (CBD), si sono poste nel 2010 ad Aichi, in Giappone, obiettivi sfidanti per porre fine entro il 2020 alla perdita di biodiversità nel mondo. Tuttavia, un decennio dopo, nessuno dei target che la comunità internazionale si era prefissata è stato raggiunto. Intanto continua da ormai 3 anni la discussione sul prossimo quadro di regole e obiettivi da darsi di qui al 2030.

I negoziati, in grave ritardo anche per causa della pandemia, dovrebbero portare ad approvare un nuovo piano ambizioso per la conservazione della biodiversità.

 

Un approccio sbagliato

Ma rimangono forti dubbi che questo nuovo tentativo riuscirà a raggiungere lo scopo: l’attuale lavoro verso il cosiddetto Global Biodiversity Framework post-2020, infatti, ha un approccio produttivista nella sua limitata attenzione all’agroecologia, e un approccio coloniale alla conservazione, proponendo di preservare più terra possibile dall’uso umano sostenibile, e violando così il diritto alla terra dei Popoli Indigeni, oltre a negare migliaia di anni di cura e co-produzione con la Natura.

La CBD non ha una forte storia di considerazione della biodiversità agricola. Nonostante sia ritenuta la “carta madre” di tanti altri accordi sull’uso sostenibile di risorse genetiche (come il Trattato per le Risorse Fitogenetiche – ITPGRFA), non riconosce nemmeno come gruppo di interesse nelle negoziazioni i produttori di cibo su piccola scala o i contadini, che sono titolari di tale riconoscimento secondo la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei contadini e di altre persone che lavorano nelle aree rurali (UNDROP). Forse perché la CBD è stata storicamente costituita dalla “comunità ambientalista”, sembra che abbia trascurato il ruolo storico e continuo dei piccoli proprietari terrieri nel mantenere la biodiversità sul 30% dei suoli mondiali, da cui proviene il 70% del nostro cibo.

Per cambiare radicalmente strada e cominciare a farlo con il nuovo quadro di regole, la CBD dovrebbe considerare la biodiversità agricola a livello genetico, di specie e di ecosistema, sopra e sottoterra e in tutte le acque del mondo.

E’ così infatti che viene intesa nella pratica dai sistemi ecologici in cui vivono e lavorano i produttori su piccola scala. Grazie al loro “lavoro nella natura” possono trovarvi nutrimento, indumenti  riparo e medicine per le famiglie e le comunità. La terra è coltivata per i suoi valori culturali e spirituali e fornisce resilienza ecologica ed economica.

 

Dalla parte giusta

Siamo ben lontani da questa prospettiva: la considerazione estrattivista della natura come bene infinito e gratuito, generatore di valore economico per le classi dirigenti è oggi dominante.

Occorre che i movimenti sociali, i piccoli produttori e le organizzazioni della società civile impegnate a fornire una diversa visione del mondo e della biodiversità lavorino insieme per cambiare una narrazione che sta distruggendo le basi stesse della nostra vita. Crocevia da oltre sessant’anni opera al fianco di contadini, pescatori, Popoli Indigeni e movimenti sociali per costruire questa trasformazione. Lo fa entrando nei negoziati internazionali, fornendo supporto e monitoraggio, mediazione ed expertise.

L’abbiamo fatto anche negli ultimi giorni, quando si è conclusa la prima parte della COP15 (la conferenza delle parti firmatarie della Convenzione sulla Biodiversità). Continueremo a farlo nel prossimo futuro, con molte sfide che ci attendono: il processo per l’adozione del quadro normativo per la biodiversità si concluderà infatti nel 2022, quando durante la seconda parte della COP15 le Parti negozieranno il testo finale, per poi adottarlo.

Saremo presenti anche a quell’appuntamento, perché è fondamentale che tutti riconoscano il ruolo unico dei piccoli produttori di cibo nella conservazione, gestione e uso sostenibile degli ecosistemi biodiversi. Non possiamo perdere altri dieci anni rincorrendo false soluzioni.


*Coordinatore delle attività del Centro Internazionale Crocevia


da qui

 

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