Le ultime crisi globali, da quella finanziaria del
2008 a quella pandemica del 2020-2021, ripropongono con forza all’attenzione
dell’opinione pubblica e dei decisori di tutto il mondo il tema
dell’autosufficienza e della "sovranità alimentare", intesa come
autonomia e controllo nazionale delle risorse alimentari. Il tema ha profonde
implicazioni economiche, politiche e giuridiche.
·
·
1. «Dobbiamo (…) riconoscere che l’epidemia ha messo in evidenza la
rilevanza strategica della sovranità sanitaria, intesa come autonomia nazionale
e controllo sui presidi sanitari, i farmaci, le attrezzature, la formazione del
personale, ma anche della sovranità alimentare (autonomia e controllo nazionale
delle risorse alimentari) (…)». Così scrivevamo un anno fa, riflettendo sulle
prospettive della cooperazione internazionale allo sviluppo «nel mondo del
dopo-virus»[1].
Allora era tutt’altro che chiaro se e quando saremmo usciti dal tunnel della
pandemia né quanto questa avrebbe ulteriormente allargato il divario tra le
economie del Nord e del Sud del Mondo. Oggi, alla luce delle macroscopiche
asimmetrie con cui i diversi paesi del pianeta riescono ad approvvigionarsi di
vaccini e a somministrarli ai propri cittadini, si può affermare con sicurezza
che il tema della sovranità sanitaria – ovvero l’abilitazione all’esercizio di
un controllo politico ed economico effettivo sulle risorse che garantiscono
l’accesso di una collettività alle cure di base – si pone oggi con forza ancor
maggiore di un anno fa. L’ipotesi di una temporanea sospensione dei brevetti
sui vaccini e di una liberalizzazione della loro produzione per far fronte alla
domanda mondiale, è riconducibile proprio alla questione della sovranità
sanitaria.
Meno discussa, ma non meno rilevante a livello
globale, è il tema della sovranità alimentare, un argomento multidimensionale
che nelle prossime pagine si affronta dal punto di vista economico, politico e
giuridico. Nella sua declinazione economica, la questione della sovranità
alimentare richiama l’incidenza dell’approvvigionamento alimentare sulla
bilancia commerciale e il peso strategico che l’autonomia o la dipendenza
alimentare dall’estero può avere sul posizionamento economico e politico sul
mercato globale di un paese.
Molti paesi del mondo, anche tra i «paesi ricchi», non
sono autosufficienti dal punto di vista alimentare, ma compensano
l’importazione di prodotti agroalimentari con l’esportazione di materie prime,
manufatti e servizi. In molti casi è una scelta obbligata, in quanto la
sproporzione tra popolazione residente e risorse agricole proprie è
incolmabile, come è il caso ad esempio del Giappone o della Gran Bretagna[2].
Per i colossi del mondo l’autosufficienza alimentare è invece un obiettivo
strategico di fondamentale importanza, da perseguire ad ogni costo, al pari
della difesa militare dei propri confini.
La Cina, con una popolazione che si aggira intorno al
miliardo e quattrocento milioni di abitanti, è sempre stata storicamente
dipendente dalle importazioni di cereali dall’estero, soprattutto dagli Stati
Uniti (principalmente soia e mais). Pressata dalla guerra dei dazi promossa da
Trump, la Cina ha tuttavia reagito dichiarando nel suo Rapporto 2019
sullo Sviluppo del Settore Agricolo della Cina di non temere più di
restare a corto di scorte senza gli approvvigionamenti alimentari dall’estero.
Secondo questo rapporto, la Cina è pronta a raggiungere «l’autosufficienza
alimentare di base in materia di cereali e la sicurezza alimentare assoluta»[3].
L’obiettivo è raggiungibile anche grazie a quella politica di sistematica
acquisizione di suoli agricoli nel mondo[4],
soprattutto in Africa e in America Latina, conosciuta come land
grabbing: accaparramento di terra. Una politica che viene da lontano,
perseguita negli ultimi decenni con lungimiranza spietata e applicata dal
governo cinese con ogni mezzo, dalla corruzione politica all’evacuazione
forzata delle popolazioni native[5].
Nell’Outlook Conference 2021-2030 del
Ministero dell’Agricoltura cinese del 23 Aprile 2021, il vice ministro Yu
Kangzhen ha dichiarato che nel 2021 la produzione interna cinese assicurerà
«absolute security in staples food», assoluta sicurezza in alimenti di base[6].
Anche la Federazione Russa – sotto la spinta delle
sanzioni europee che nel 2014 fecero seguito all’occupazione della Crimea da
parte delle truppe di Mosca – è oggi completamente autosufficiente in quanto a
prodotti alimentari di base e sta attivamente sviluppando il potenziale di
esportazione. Negli ultimi sei anni la Russia ha ridotto di un terzo le sue
importazioni alimentari, passando da $ 43,3 miliardi nel 2013 a $ 30 miliardi
nel 2019. Il costante sviluppo del settore agroindustriale e l'autosufficienza
hanno consentito alla Russia di passare da un modello produttivo orientato alla
sostituzione delle importazioni a un modello orientato all'esportazione. Le
esportazioni agricole russe sono aumentate del 150% e hanno totalizzato $ 25,6
miliardi alla fine del 2019 rispetto ai $ 16,8 miliardi nel 2013[7].
Gli Stati Uniti d’America sono da sempre
autosufficienti dal punto di vista alimentare ed esportatori netti di prodotti
agricoli, soprattutto cereali. Il Self Sufficiency Ratio[8] degli
Stati Uniti d’America supera il 120% e consente loro di utilizzare l’embargo
agricolo come deterrente commerciale nelle relazioni internazionali.
L’Italia è divenuta, solo negli ultimissimi anni, un
esportatore netto di prodotti agroalimentari, con un saldo attivo della
bilancia commerciale del comparto di oltre 3 miliardi di Euro nell’anno della
pandemia (2020). L’export agroalimentare italiano «vale» oltre 45 miliardi di
Euro e rappresenta circa il 10% dell’intero export nazionale[9].
Una crescita straordinaria se si considera che nel 2007 il SSR italiano era
intorno al 63% (FAO).
Il problema dell’autosufficienza alimentare è invece
drammatico nei paesi economicamente più fragili, nei paesi più aggrediti dal
cambiamento climatico (ad esempio quelli dell’area saheliana) e nei paesi privi
di risorse, tanto tecnologiche che naturali: in quelle realtà economiche,
insomma, dove il potenziale di interscambio con l’estero è minato da debolezze
strutturali dell’apparato produttivo, da un’iniqua distribuzione della terra,
da una crescita demografica che eccede la capacità di crescita economica
interna o da un rapido deterioramento delle risorse naturali (acqua, suolo). In
questi paesi, soprattutto in Africa e in America Latina, l’autonomia alimentare
non si misura quindi solo in termini di bilancia commerciale, ma anche e
soprattutto in termini di capacità di autodeterminazione tecnologica e
normativa, di rispetto di diritti fondamentali – come l’accesso alla terra e
all’acqua – e di partecipazione dei produttori alla formazione del valore
aggiunto nelle filiere agroalimentari. E’ in queste realtà che nasce e si
elabora, fin dalla metà degli anni ’90, l’idea stessa di sovranità alimentare.
Siamo consapevoli che il termine "sovranità"
rischia di richiamare alla mente il suo derivato "…ismo", entrato
recentemente nel lessico politico italiano come edulcorata alternativa al
termine "nazionalismo". Qui cercheremo di restituire a questo termine
tutta la dignità politica e giuridica che merita, soprattutto in rapporto al
tema dell’alimentazione che, come vedremo, trascina con sé un insieme di
corollari collegati direttamente ai diritti fondamentali dell’uomo.
2. Il concetto di sovranità alimentare, inteso come autonomia e
controllo nazionale delle risorse alimentari, ottiene risonanza internazionale
durante il World Food Summit indetto dall’Organizzazione delle
Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) tenutosi a Roma nel
1996. In quell’occasione il Movimento Contadino Internazionale, La Via
Campesina, definì la sovranità alimentare come «il diritto dei popoli, delle
comunità e dei paesi di definire le proprie politiche agricole del lavoro,
della pesca, del cibo e della terra che siano appropriate sul piano ecologico,
sociale, economico e culturale alle loro realtà uniche».
La cornice all’interno della quale si sviluppa il tema
della sovranità alimentare è costituita dallo spazio rurale e dalle sue
dinamiche, in cui sono inclusi gli abitanti coinvolti in attività di produzione
agricola – piccoli e medi proprietari terrieri e contadini –, pastorizia,
pesca, o nelle molteplici attività connesse con l’economia forestale.
Nonostante le aree rurali e le popolazioni che vi abitano siano tutt’altro che
socialmente ed economicamente irrilevanti a livello globale, esse vengono
spesso considerate marginali nella duplice declinazione di effettiva
marginalità geografica – si parla, nella maggior parte dei casi, dei paesi del
Sud del mondo – ed in quella di marginalità politica nell’agenda delle policies nazionali
ed internazionali. Questi aspetti fanno sì che, nelle suddette aree, l’accesso
al reddito, alle informazioni, ai capitali e a qualsiasi servizio di supporto
da parte dello Stato sia altamente limitato, così come la partecipazione ad
attività sociali e la possibilità di incidere nelle decisioni collettive.
Con l’avvio della riflessione sul tema della sovranità
alimentare promosso da La Via Campesina, si delinea un nuovo
approccio al problema dell’insicurezza alimentare, che pone coloro che
producono, distribuiscono e consumano alimenti nel cuore dei sistemi e delle
politiche alimentari e al di sopra delle esigenze dei mercati e delle imprese.
L’approccio che propone La Via Campesina è, infatti,
rivoluzionario rispetto al paradigma neoliberista – che tuttora domina il
settore agroalimentare e che sottopone il cibo alle logiche di mercato dei beni
commerciabili – in quanto dà priorità all’economia e ai mercati locali e
nazionali, privilegia l’agricoltura familiare, la pesca e l’allevamento
tradizionali, basati sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica.
La definizione della sovranità alimentare data
da La Via Campesina si articola, più nello specifico, intorno
a sette pilastri che testimoniano la complessità e la multidimensionalità
dell’argomento:
1. La tutela universale del diritto al cibo che,
mediante una ridefinizione delle norme giuridiche e delle strutture di potere
alla base del modello dominante, elimini le contraddizioni sistemiche
dell’attuale sistema agroalimentare attraverso l’adozione a livello
internazionale di un paradigma che riconosca la centralità e l’unicità del cibo
per la vita umana.
2. La riforma agraria che risolva i problemi di iniqua
distribuzione della terra e di incertezza dei diritti di proprietà e che
contrasti i fenomeni di land grabbing, assicurando
un’acquisizione della terra libera da fattori religiosi, di genere, di classe
sociale o di razza.
3. La protezione delle risorse naturali a partire da
un modello orientato all’agricoltura su piccola scala, non industriale, che
faccia riferimento soprattutto alla cosiddetta agro-ecologia.
4. La riorganizzazione del commercio alimentare che
preveda, in primo luogo, una produzione finalizzata all’autosufficienza e, in
secondo luogo, un accorciamento della filiera produttiva-distributiva utile a
garantire migliore accesso al mercato ai piccoli produttori.
5. La fine della globalizzazione della fame tramite la
regolamentazione e la tassazione del capitale speculativo e l’applicazione
rigorosa di codici etico-giuridici di condotta per le corporazioni
transnazionali.
6. La pace sociale indispensabile all’affermazione
della sovranità alimentare in considerazione del fatto che i conflitti
minacciano la capacità di resilienza dei popoli spesso costretti a ricorrere a
metodi distruttivi di sfruttamento delle risorse naturali minando ulteriormente
la loro stessa sicurezza alimentare.
7. Il controllo democratico inteso come diritto a
partecipare direttamente, in maniera equa e inclusiva, ai processi di
formulazione delle politiche agricole a tutti i livelli e più in generale delle
decisioni collettive.
È importante poi precisare la differenza tra sicurezza
e sovranità alimentare. La sicurezza alimentare (food security) – da non
confondersi con food safety che riguarda invece il diverso
tema dell’igiene e della salubrità degli alimenti – viene definita dalla FAO come
«condizione in cui tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico,
sociale ed economico ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti, che
garantiscano il soddisfacimento delle loro esigenze e preferenze per condurre
una vita attiva e sana». Il modello teorico della sicurezza alimentare si
articola intorno a quattro dimensioni:
· disponibilità in termini di quantità e qualità di
prodotti alimentari
· accessibilità fisica ed economica ad alimenti
appropriati per una dieta nutriente
· utilizzo efficace degli alimenti, e, infine,
· stabilità nel tempo che garantisca un
approvvigionamento sicuro e adeguato di beni alimentari per tutti ed in ogni
momento.
In questo quadro si inserisce, a partire dalla seconda
metà degli anni ’90, il dibattito politico intorno alla sovranità alimentare,
che concorre a determinare condizioni di sicurezza alimentare tramite un
modello di sviluppo che garantisca il rispetto delle quattro dimensioni della
sicurezza alimentare e secondo il quale il controllo dal basso dei mezzi di
produzione e delle risorse alimentari deve essere integrato con nuove
rivendicazioni, anche di natura giuridica. Nell’ambito delle strategie di
promozione della sovranità alimentare, inoltre, le questioni della sicurezza
alimentare e del diritto al cibo si riconducono ad un processo di
ri-territorializzazione, intesa come ri-presa di coscienza e di possesso delle
matrici ecologiche e territoriali della civiltà umana come tale. Questa
strategia implica il riconoscimento sostanziale dei diritti locali, indigeni e
comunitari, al controllo delle risorse per la produzione di cibo e alla
definizione delle proprie scelte alimentari.
Come anticipato in premessa, la recente crisi
socio-sanitaria derivante dallo scoppio della pandemia da COVID-19 ha
senz’altro accentuato e aggravato tendenze negative che il tracollo economico e
finanziario del 2008 aveva già fatto emergere, con conseguenze disastrose anche
sull’accesso a beni vitali come il cibo, l’acqua o i farmaci essenziali. Già
allora erano stati evidenziati i limiti e le iniquità dell’assetto “del”
mercato e dei rapporti di forza tra attori privati e istituzioni pubbliche che
operano “nel” mercato, dimostrando il fallimento delle politiche economiche e
dei meccanismi di regolazione e di controllo dei sistemi economici
dominanti.
Eppure la lezione non è stata appresa, come dimostra
impietosamente la questione dell’approvvigionamento dei vaccini dove chi corre
nelle somministrazioni sono i Paesi occidentali e quelli più ricchi, mentre
tutti gli altri aspettano. Con riguardo al tema dell’accesso al cibo, le cose
non sono migliori. Negli ultimi anni, il food divide – ossia
la sempre maggiore e diseguale condizione soggettiva di disporre e di accedere
concretamente ad una alimentazione adeguata – che da sempre insiste tra le
economie del Nord e del Sud del mondo si è ampliato sino ad assumere carattere
diffuso su scala globale. All’orizzonte si profila una profonda e preoccupante
trasformazione, sintetizzabile nel passaggio dalla dialettica food
safety e food security, che ha informato finora il diritto
dell’alimentazione, all’emergente situazione di food insecurity[10].
Anche per queste ragioni, la riflessione sulla sovranità alimentare acquista un
significato ancora più pregante, soprattutto per il giurista.
3. A prescindere dall’iniziale ispirazione prevalentemente
ideologico-politica della sovranità alimentare, tale concetto può essere oggi
definito, a tutti gli effetti, quale istituto tipico del diritto
dell’alimentazione, con numerosi esempi di attuazione a livello
giuridico-costituzionale, alcuni dei quali particolarmente significativi in
un’ottica comparativa. Indubbiamente nel concetto di sovranità alimentare
rimane vivida la spinta di carattere identitario che si esprime proprio
attraverso il riferimento al termine “sovranità” il quale, nell’articolazione
dei rapporti tra Stato, individui e risorse, suggerisce interessanti risvolti
sotto il profilo sia interno che esterno. Sul piano interno, la sovranità
alimentare richiama un’esigenza di autogoverno nella gestione delle fonti e
delle risorse alimentari in un’ottica partecipativa di tutti i soggetti che
materialmente sono legati alle fonti e alle risorse di produzione e di
distribuzione di alimenti da stretti rapporti e vincoli di diversa matrice. Sul
piano esterno, invece, il richiamo alla sovranità si ricollega al concetto di
indipendenza ed autodeterminazione rispetto alle influenze esterne. In
quest’ottica, sono molto preoccupanti fenomeni come quello, già richiamato in
precedenza, del land grabbing, termine utilizzato per riferirsi
alle acquisizioni di terre effettuate violando i diritti umani, ignorando il
principio del consenso “libero, preventivo e informato” delle comunità che
utilizzano quella terra, in particolare dei popoli indigeni, ignorando l’impatto
sociale, economico e ambientale derivante da tali accordi, evitando la
conclusione di contratti trasparenti, contenenti impegni chiari e vincolanti
sugli impieghi e sulla divisione dei benefit e bypassando la partecipazione
democratica, il controllo indipendente e la partecipazione informata delle
popolazioni che utilizzano la terra.
La sfida culturale, prima ancora che politica e
giuridica, è allora il passaggio da una concezione del cibo come merce e come
moneta da scambiare sul mercato a una concezione del cibo come bene
fondamentale e, dunque, oggetto di un diritto fondamentale. La riflessione sul
diritto al cibo, oggetto del più elementare e vitale dei diritti fondamentali,
cioè del diritto alla vita e alla sussistenza, rappresenta dunque un essenziale
banco di prova[11].
Sotto questo punto di vista appare particolarmente interessante il passaggio
dall’approccio verticistico della lotta contro la fame nel mondo a un approccio
orizzontale, in cui ciascun Paese ha assunto un ruolo più attivo. Per usare le
parole di Stefano Rodotà «siamo di fronte a una vera e propria
costituzionalizzazione diffusa di tale diritto, che corrisponde alla più
generale costituzionalizzazione della persona, punto di riferimento dei più
recenti sviluppi del diritto»[12].
Tale osservazione sembra essere suffragata dagli esiti di un’indagine promossa
dalla FAO nel 2011, dalla quale emerge che sono oltre cento le costituzioni nel
mondo che riconoscono, se pur attraverso meccanismi di tutela differenti, il
diritto al cibo[13].
In questo scenario assumono significato le novità registrate nelle carte
fondamentali di quei Paesi che prima di tutti hanno codificato norme sul cibo e
sull’alimentazione. Se un riconoscimento esplicito si trova in alcuni testi
costituzionali, richiamando o il «diritto al cibo» ovvero il «diritto
all’alimentazione» (Bolivia, Brasile, Ecuador, Haiti, Nepal, Sudafrica,
Ucraina, Uganda) o la «libertà dalla fame» (Guyana, Kenya, Nicaragua) o il
«diritto alla sovranità alimentare» (Nepal, Venezuela, Ecuador e Bolivia), in
altri casi è la «sicurezza alimentare» a trovare riconoscimento sotto forma di
specifiche obbligazioni poste a capo dei pubblici poteri (Etiopia, India,
Malawi, Nigeria, Pakistan, Suriname); disposizioni specifiche sono dettate per
assicurare il diritto al cibo a determinate categorie di “soggetti deboli” come
i minori (Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Guatemala, Honduras, Messico,
Panama, Paraguay, Sud Africa), gli anziani (Paraguay). Quando mancano
previsioni esplicite, l’alimentazione è oggetto di «tutela in quanto
strettamente collegata ad altri diritti», come, in genere, il diritto a uno
standard di vita dignitoso, sufficiente, appropriato (Bielorussia, Congo,
Malawi, Moldavia).
Il tema è di rilievo ove in tale riferimento la
tematica della sovranità alimentare viene affrontata a tutto tondo, con
riguardo alla necessità di promuovere investimenti nel settore agroalimentare
accompagnati da riforme strutturali in ambito agricolo e non solo. Si
tratta dunque di una visione sintetica – ovvero olistica[14] –
della sicurezza alimentare e delle sue diverse componenti, riassunte da un
lato, dal diritto al cibo, quanto alle pretese degli individui relative
all’accessibilità e all’adeguatezza (anche dal punto di vista ambientale) di
cibo e, dall’altro, dai principi propri della sovranità alimentare quanto
all’organizzazione delle politiche agrarie e di produzione di alimenti ed alla
necessità di promuovere una maggior inclusione dei soggetti che presentano
collegamenti più stretti col territorio.
Questa visione integrata, sensibile al tema dello
sviluppo sostenibile, è condivisa anche dalle costituzioni che si ispirano alla
dottrina del buen vivir come Bolivia e Ecuador. La
costituzione di quest’ultimo, in particolare, contiene uno specifico
riferimento alla sovranità alimentare all’art. 281, comma 1, nel quale si
afferma che la sovranità alimentare è un obiettivo strategico e rappresenta
un’obbligazione per lo Stato affinché garantisca che le persone, le comunità, i
popoli e le nazioni raggiungano una permanente autosufficienza nell’accesso ad
un cibo sano e culturalmente appropriato[15].
È evidente che di fronte a questi sviluppi normativi,
alcuni dei quali anche piuttosto avanguardisti, si pone tuttavia il problema di
garantirne l’effettività e la giustiziabilità nel caso di violazioni o
omissioni governative. Ad una prima analisi si può sostenere, alla luce della
complessa natura dei diritti che discendono dai concetti di sicurezza e di
sovranità alimentare, nonché del conflitto potenziale tra gli interessi in
gioco, che sono proprio i giudici (nazionali) a svolgere un ruolo fondamentale
in materia di garanzia di tali diritti. In altri termini, le corti
«costituiscono la via più efficace alla attuazione dei diritti umani in quanto
ess(i) sono compost(i) da giudici indipendenti rispetto agli esecutivi; operano
secondo un procedimento percepito come legittimo dai cittadini e dalle vittime
di violazioni dei diritti umani; per la loro familiarità con il contesto nel
quale operano, sono in grado di offrire quelle soluzioni giurisprudenziali che
risultano politicamente più accettabili e giuridicamente più efficaci rispetto
all’intervento di corti di rango internazionale»[16].
Infatti, le operazioni di bilanciamento tra i diversi interessi coinvolti e
l’applicazione di canoni ermeneutici quali la ragionevolezza, la
proporzionalità e l’adeguatezza – che in campo alimentare si costruisce in
considerazione di diversi ambiti, quello strettamente economico, ma anche
quello sociale, territoriale e culturale –, rimanda in capo ai giudici una
grande responsabilità, tale da porli, talvolta, anche in una posizione di
potenziale conflitto con gli altri poteri dello Stato nel momento in cui sono
chiamati a dare concretezza a diritti fondamentali sì ma, ancora in gran parte,
“condizionati” dalle prevalenti condizioni sociali, economiche, culturali,
climatiche ed ecologiche. Osservando allora la casistica giurisprudenziale,
soprattutto di rango costituzionale – che non è possibile approfondire in
questa sede –, si possono trarre alcuni presupposti che condizionano la
giustiziabilità del diritto al cibo adeguato: è innanzitutto indispensabile
che esso sia consacrato nel sistema giuridico considerato (a prescindere dalla
tecnica di tutela costituzionale adottata); che sia invocabile dinanzi a un
organo giudiziario o quasi-giudiziario; che sia riconosciuto come giustiziabile
da tale organismo; e, soprattutto, che vi sia un meccanismo di accesso alla
giustizia da parte dei più svantaggiati, che consenta loro di invocare il
diritto violato a nome delle vittime[17].
Senza tutto ciò, la proclamazione del diritto rischia di rimanere, appunto,
solo una proclamazione.
[1] Alessandro Cocchi, Luca Fé d’Ostiani, Quale
cooperazione internazionale nel mondo del dopo-virus?, in Questione
Giustizia, 03/07/2020, https://www.questionegiustizia.it/articolo/quale-cooperazione-internazionale-nel-mondo-del-dopo-virus
[2] Nel 2018 il tasso di autosufficienza alimentare
del Giappone si assestava intorno al 37%, misurato in termini di rapporto tra
calorie prodotte e calorie necessarie al soddisfacimento del fabbisogno interno
(fonte: Agenzia Nova). Lo stesso tasso si aggira in Gran Bretagna intorno al
50% (Fonte: Agrinotizie).
[3] https://www.agrifoodtoday.it/sviluppo/cina-autosufficienza-alimentare.html
[4] In proprietà, in concessione o per sfruttamento
indiretto attraverso l’instaurazione di regimi di monopsonio, ovvero
imponendosi come principale se non esclusivo acquirente, come in Argentina per
quanto riguarda la soia.
[5] OXFAM, Chi ci prende la terra, ci prende
la vita: come fermare la corsa globale alla terra, Briefing note, 2012.
[6] http://english.moa.gov.cn/news_522/202104/t20210428_300641.html
[7] Giovedì 6 agosto 2020, Ministry of Agriculture
of the Russian Federation, Russia. https://mcx.gov.ru
[8] «This more pragmatic understanding of food
self-sufficiency is captured by what the FAO terms the self-sufficiency ratio
(SSR), which is defined as the percentage of food consumed that is produced
domestically (FAO, 2012). The SSR is measured using the following equation with
respect to food production and trade: Production x 100 / (Production +
Imports – Exports). More precise measurements of the SSR also include
changes in domestic stock levels (Puma et al., 2015). The SSR is typically
measured in calories or in volume of food produced, although it can also be
expressed as a ratio of monetary value» (http://www.fao.org/3/i5222e/i5222e.pdf).
[9] http://www.ismeamercati.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/11345
[10] Cfr., L. Costato, Principi e requisiti
generali della legislazione alimentare, in L. Costato, A. Germanò, E. Rook
Basile (a cura di), Trattato di diritto agrario. Il diritto
agroalimentare, Torino, 2011, 19 ss.
[11] A prescindere dalla categoria di diritti in cui
il diritto al cibo è di volta in volta ascritto, i suoi elementi descrittivi
sono tali da consentire di ricondurlo, anche per il livello di tutela
costituzionale comparata, alla categoria dei c.d. “basic rights”, ovvero
quei diritti «il cui godimento rende possibile il godimento di tutti gli altri
diritti». Così, per esempio, H. Shue, Basic Rights. Subsistence,
Affluence and U.S. Foreign Policy, II ed., Princeton (NY), Princeton
University Press, 1996, p. 20.
[12] S. Rodotà, Il diritto al cibo, i
Corsivi (e-book), 2014, p. 4.
[13] Cfr., FAO, L. Knuth, M. Vidar (a cura di), Constitutional
and Legal Protection of the Right to Food around the World, Roma, 2011,
disponibile su; www.fao.org (ultimo
accesso: 18 giugno 2021).
[14] G. Zagrebelsky, Due concetti
costituzionali: sovranità alimentare e olismo, in AA.VV., Carlo
Petrini: la coscienza del gusto, Pollenzo, 2014, p. 12 e ss.
[15] Sullo sviluppo delle politiche pubbliche in
materia alimentare nel sistema costituzionale ecuadoriano si rinvia, per i
debiti appofondimenti a R. Nehering, Politics and Policies of food
sovereignty in Ecuador: New Directions or Broken Promises?, in UNDP-IPC
Working Paper no. 106, Brasilia, 2013.
[16] A. Rinella, H. Okoronko, Sovranità
alimentare e diritto al cibo, in Dir. pub. comp. eur., 2015, p.
107.
[17] Cfr., C. Golay, The right to food and
the access to justice, Roma, FAO, 2009 e M.J. McDermott, Constituzionalizing
an enforceable right to food: a new tool for combating hunger, in Boston
College International and Comparative Law Review, Volume 35, Issue 2,
2012.
Alessandro Cocchi, agro-economista, Dottore di ricerca in Economia e
Territorio, professore a contratto presso la Scuola di Economia dell’Università
di Firenze, consulente UE, AICS
Luca Giacomelli, dottore di ricerca in diritto costituzionale e
comparato presso l’Università di Milano-Bicocca
Agnese Pacinico, dottoressa in Sviluppo Economico, Cooperazione
Internazionale Socio-Sanitaria e Gestione dei Conflitti
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