Quest’anno il Prime day di Amazon [di per sé un monumento allo spreco] è stato il 21 e 22 giugno. Mentre i mezzi d’informazione hanno regalato al monopolista del commercio elettronico mondiale una valanga di pubblicità gratis – informando i lettori sui grandi affari che avrebbero potuto fare in quei due giorni comprando articoli scontati su Amazon (a volte inserendo perfino i link agli acquisti) – il canale britannico Itv News ha mandato in onda un servizio che ha spinto il pubblico a pensarci due volte prima di abbandonarsi al consumismo. Nell’inchiesta di Itv News il corrispondente Richard Pallot ha rivelato che il magazzino di Amazon a Dunfermline, nell’est della Scozia, distrugge ogni anno milioni di prodotti invenduti. Molti di questi prodotti non erano stati neanche tirati fuori dall’imballaggio.
Un lavoratore di Amazon protetto dall’anonimato ha raccontato a Pallot: “Il
nostro obiettivo è distruggere 130mila oggetti ogni settimana”. Un documento
conferma che in sette giorni sono stati contrassegnati per lo smaltimento
124mila prodotti, e solo 28mila per le donazioni. Un dirigente ha rivelato a
Pallot che in poche settimane sono stati distrutti fino a 200mila oggetti.
Secondo il lavoratore anonimo circa metà era composta da prodotti restituiti,
spesso in buone condizioni, mentre l’altra metà era rappresentata da quelli
nuovi, alcuni di buona qualità. “Ventilatori Dyson, aspirapolvere, qualche
computer MacBook o iPad. L’altro giorno abbiamo fatto sparire ventimila
mascherine ancora dentro le confezioni. Non ha senso”, ha dichiarato. Alcuni
prodotti finiscono negli impianti di riciclaggio, ma la maggior parte va
direttamente nelle discariche.
Lo spreco rivelato dall’inchiesta di Itv News non è limitato ai centri
logistici di Amazon nel Regno Unito, e la società di Jeff Bezos non è la sola
colpevole. Il rapporto mette in evidenza la frattura tra l’immagine che
l’azienda cerca di trasmettere e il modo in cui si comporta realmente, ma
sottolinea anche la profonda inefficienza della nostra economia del consumo.
Il magazzino di Dunfermline è solo uno dei 24 centri logistici Amazon nel
Regno Unito. In tutto il mondo l’azienda gestisce attualmente più di 175
magazzini, e ne sta costruendo altri nel tentativo di capitalizzare l’aumento
delle vendite durante la pandemia. È impossibile stabilire con precisione
quanti prodotti siano distrutti, ma è innegabile che succeda. E Itv News non è
la prima a documentarlo. Nel 2019 un documentario della rete
francese Rtl rivelava che in Francia nel 2018 Amazon aveva fatto sparire più di
tre milioni di prodotti. Uno dei centri logistici più piccoli del paese, a
Chalon-sur-Saône, ne aveva distrutti 293mila in nove mesi. C’erano libri,
confezioni di pannolini, costosi set Lego e perfino televisori della Lg ancora
nelle confezioni originali.
Come Itv News, Rtl aveva scoperto che tra le cause dello spreco c’era l’aumento
dei costi di stoccaggio che Amazon impone ai venditori terzi per tenere i loro
prodotti nei suoi magazzini. I venditori sono invitati ad approfittare di
questa opzione perché garantisce una migliore visibilità sulla piattaforma, ma
Rtl aveva raccontato che il costo di un metro di spazio in un magazzino di
Amazon era salito alle stelle, e questo spingeva i venditori a distruggere i
loro prodotti invenduti. Per rimuoverne uno un venditore avrebbe dovuto
spendere 17 sterline, per mandarlo al macero invece avrebbe pagato 13
centesimi.
Anche l’emittente pubblica tedesca Das Erste ha
pubblicato un’inchiesta condotta da Greenpeace in occasione del
Prime day, concentrandosi sul centro logistico di Winsen, nella Bassa Sassonia.
Il servizio ha rivelato che ai lavoratori di Amazon veniva chiesto di tirare
fuori prodotti integri dalle confezioni e perfino di danneggiarli
intenzionalmente, in modo da poterli distruggere in base alle leggi tedesche
sull’economia circolare.
Negli Stati Uniti l’azienda di Jeff Bezos vende alcuni prodotti usati,
restituiti, danneggiati in magazzino e a volte anche nuovi attraverso la
sezione “Warehouse deals” presente sul suo sito. Inoltre, in occasione delle
“Amazon liquidations”, propone interi bancali di prodotti restituiti. Ma non
sappiamo quanti oggetti siano rivenduti e quanti semplicemente distrutti.
Cosa ci dicono queste rivelazioni a proposito di Amazon? L’azienda sostiene
di essere costruita per soddisfare i clienti. Ma è solo propaganda. Aumentando
le tariffe per i venditori, infatti, Amazon rende le merci più costose, e nel
frattempo aumenta i suoi ricavi. È concentrata sul consumatore solo fino a
quando questo metodo è allineato al suo obiettivo principale, quello di
massimizzare i profitti e l’espansione aziendale.
Anche se ci fidassimo della parola di Amazon, resterebbe comunque un
problema: la quantità di rifiuti provenienti dai centri logistici dimostra che
l’ottimizzazione a beneficio del consumatore produce effetti collaterali
peggiori di quello che pensavamo. L’ossessione di Amazon per il consumatore
crea inoltre un ambiente pericoloso per i lavoratori dei magazzini e per i
fattorini. Il ricambio del personale all’interno dei centri logistici ha un
ritmo forsennato. Il tasso d’infortuni negli Stati Uniti è il doppio della media nel
settore. I lavoratori sono costantemente monitorati e possono essere facilmente
licenziati se non raggiungono gli obiettivi. Spesso durante un turno non hanno
il tempo di andare in bagno.
Oltre ai danni inflitti ai lavoratori, il modello imprenditoriale di Amazon
ha enormi conseguenze per l’ambiente. Negli ultimi anni l’azienda ha sbandierato la promessa di
azzerare le emissioni nette entro il 2040 e ha detto di voler investire due
miliardi di dollari per sviluppare “prodotti, servizi e tecnologie in grado di
proteggere il pianeta”. Ma al tempo stesso ha licenziato due dipendenti che chiedevano
di adottare misure più incisive per contrastare la crisi climatica durante la
pandemia, e non ha mantenuto gli impegni presi in precedenza.
Ora ci sono prove schiaccianti del fatto che Amazon mandi al macero merci
integre. Tra l’altro si tratta soprattutto di prodotti elettronici, molto
difficili da riciclare perché, quando finiscono nelle discariche, possono
rilasciare sostanze chimiche pericolose. Ma è già abbastanza grave che siano
gettati via pannolini e mascherine nuove.
Fare luce su Amazon è importante, ma il problema non si limita a un’unica
azienda. Nel consumo di massa, che è cruciale per il nostro sistema economico,
c’è un difetto strutturale.
Spesso ci dicono che il capitalismo basato sul libero mercato è il modo più
efficiente per far funzionare un’economia. Tuttavia, dentro la catena
produttiva del just-in-time (un sistema di produzione
industriale in cui si riforniscono subito i pezzi all’unità di montaggio, senza
creare grosse scorte di magazzino) ci sono quantità enormi di generi alimentari
scartati e oggetti di consumo. Potrebbero essere dati alle persone che ne hanno
bisogno, o forse non avrebbero mai dovuto essere prodotti. E invece no.
Oltre ad Amazon, anche la catena di supermercati Tesco è finita
nell’occhio del ciclone per lo spreco che generava, e negli ultimi anni si è
impegnata concretamente a ridurlo. L’azienda di vendita al dettaglio Target è stata multata
in California per aver smaltito illegalmente per anni pericolosi rifiuti
elettronici. Aziende come la Cartier e la Nike hanno ammesso di
distruggere i prodotti invenduti in modo da mantenere alto il valore di quelli
in commercio. I marchi di abbigliamento mandano al macero milioni di capi ogni
anno. E questa è solo la punta dell’iceberg.
I venditori al dettaglio e i ristoranti gettano via immense quantità di
prodotti ogni anno, anche perché la loro stessa esistenza si basa su una
cultura dell’usa e getta. Tutti noi siamo condizionati a sostituire
continuamente gli oggetti. Così come Amazon ha creato un ambiente in cui lo
spreco è un modo come un altro di fare soldi, noi abbiamo costruito un’economia
in cui è sensato produrre in eccesso o gestire in modo errato la produzione.
Il modello di Amazon, basato sulla spedizione di grandi quantità di
prodotti in piccoli pacchi consegnati direttamente a casa entro pochi giorni,
se non poche ore, oggi non è sostenibile e probabilmente non lo sarà mai. Ma è
la conseguenza di una spinta che dura da decenni ad anteporre i prezzi bassi a
tutto il resto e a considerare i lavoratori e l’ambiente come elementi
sacrificabili in virtù del profitto.
Per cambiare questi princìpi basilari del nostro sistema non basterà
modificare il nostro modo di fare acquisti né introdurre nuove tasse per
arginare le grandi aziende. Servirà un profondo ripensamento del modo in cui
funziona la nostra economia.
Questo articolo è uscito sul numero 1416 di
Internazionale
(traduzione di Andrea Sparacino dall’originale pubblicato su Tribune, Regno Unito)
https://volerelaluna.it/rimbalzi/2021/08/13/amazon-e-il-simbolo-dello-spreco-capitalista/
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