L’acqua della Mesopotamia: la contesa che prosciuga il Medio Oriente - Anna Corrente
Nasce dalla confluenza del Kara e del Murat, il fiume Eufrate: l’immenso corso d’acqua che si estende dalla Turchia in direzione sud verso lo Shatt al-Arab, fiume dell’Iraq meridionale. Qui, prima di sfociare nel Golfo Persico, l’Eufrate si ricongiunge con il Tigri, nato anch’esso in territorio turco, ai piedi della catena montuosa del Tauro. Nel mezzo, come abbracciata dai due corsi d’acqua, c’è la Mesopotamia: il ventre placentare della civiltà. Dell’antico splendore di una terra un tempo rigogliosa e ricca di risorse naturali, oggi altro non resta che le pagine dei libri di storia che la raccontano. La Mesopotamia è ormai asfittica e completamente schiacciata dalla morsa degli interessi politici ed economici legati alla gestione delle acque dei due grandi fiumi. I principali protagonisti della contesa sono la Turchia, l’Iran e l’Iraq. I primi due muovono le pedine fondamentali di questo gioco strategico, approfittando della loro posizione geografica e dell’attuale debolezza dell’amministrazione irachena, la quale soccombe invece sotto il peso delle scelte economiche delle altre, da un lato, e dell’inadeguata regolamentazione per la tutela ambientale, dall’altro.
Se sono tre i Paesi direttamente coinvolti nella gestione delle risorse, il
numero delle popolazioni travolte dalle conseguenze di questo
conflitto d’interesse è molto più grande. Il bacino idrico del Tigri-Eufrate
interessa anche la Siria (colpita a sua volta da un conflitto esacerbato proprio dalla carenza d’acqua), l’Arabia Saudita e
marginalmente anche la Giordania e il Kuwait. Dalla disponibilità
idrica dei due fiumi dipendono innumerevoli comunità territoriali, che
vivono di pesca e agricoltura, e che subiscono le conseguenze più dure della
crisi dell’acqua.
L’inquinamento e la lotta per l’egemonia sul corso dei due fiumi stanno
devastando la mezzaluna fertile e generando una crisi tanto umanitaria quanto
politica nel sud-ovest asiatico, a conferma di quanto l’oro blu rappresenti un fattore geopolitico chiave per la sicurezza della
regione e, più in generale, dell’intera comunità internazionale.
Gli interessi turchi e iraniani per l’acqua della Mesopotamia
L’origine della crisi relativa all’uso delle risorse idriche del Tigri e
dell’Eufrate è da ricondursi al collasso dell’Impero Ottomano. Il crollo del
regno multietnico e la ritrovata sovranità delle diverse comunità impedirono
che una sola autorità politica riuscisse ad esercitare il controllo sulle
risorse, la cui gestione non fu mai regolata da accordi ufficiali se non alla fine del Novecento. Da allora, lo sfruttamento
idrico è stato gestito dalle singole amministrazioni nazionali che hanno fatto
dell’acqua un elemento proprio della loro sovranità. Già all’inizio del XX
secolo iniziarono a sorgere le prime opere di sbarramento sull’Eufrate ad opera
dell’Iraq, dove si distribuisce circa il 46% dell’intero bacino idrico. Dighe e
canali vennero costruiti dall’amministrazione irachena per fronteggiare l’aumento esponenziale della popolazione e per gestire le opere di irrigazione
necessarie ad implementare le riforme agrarie degli anni Cinquanta.
Fu tra gli anni Sessanta e Settanta che la relazione privilegiata dell’Iraq
con le acque dei due fiumi si incrinò. Nel 1958 la Turchia presentò il Grande
progetto di sviluppo regionale nel Sud-Est Anatolia, noto come GAP, che prevede la
costruzione di 22 grandi dighe e 19 centrali idroelettriche entro il 2023,
lungo il bacino del Tigri e dell’Eufrate. Complice anche la posizione
strategica “a monte” del bacino, le ambizioni politiche ed economiche
di Ankara hanno esasperato lo sfruttamento delle risorse e hanno
letteralmente contingentato la disponibilità d’acqua degli Stati a sud dei
corsi fluviali come la Siria e l’Iraq.
La controversia più grande del progetto è quella relativa
alla costruzione della diga Ilisu lungo il fiume Tigri. Lo
sbarramento mette a repentaglio la vita delle comunità siriane e
irachene che, sconvolte dalla guerra e dalla siccità, dal 1975 hanno
intrapreso una vera e propria lotta tra poveri per cercare di assicurarsi minimi
approvvigionamenti idrici. In particolare, l’inondazione causata dalla
costruzione della diga ha tolto terreni fertili ai curdi della zona, contro i
quali l’acqua è impiegata come vera e propria arma politica dal governo turco. Lo sbarramento dei
corsi d’acqua infatti, non serve solo a investire sul rilancio energetico della
Turchia, ma torna utile anche per indebolire le popolazioni curde vicine al PKK
(Partito dei lavoratori del Kurdistan, spina nel fianco del governo Erdogan),
costringendole ad abbandonare i territori lungo il fiume.
Come la Turchia, anche l’Iran gode di un certo vantaggio strategico. Pur collocandosi a sud-est della
regione, il governo iraniano disciplina l’accesso ad importanti affluenti del
Tigri e del Shatt Al-Arab e, riducendo i flussi d’acqua da est, mette in
ulteriore difficoltà l’Iraq. Teheran ha inoltre adottato posizioni particolarmente
intransigenti nei confronti del governo iracheno, in risposta all’ inasprimento
delle tensioni dopo le guerre al tempo di Saddam Hussein. Si calcola che
circa 42 corsi d’acqua siano stati deviati o prosciugati per mano
iraniana, con disastrose conseguenze sui territori limitrofi.
L’Iraq in ginocchio, a un passo dalla crisi umanitaria
Se Turchia e Iran posseggono i mezzi politici, militari ed economici per
perseguire i propri obiettivi strategici, è impossibile attribuire le stesse
capacità all’ Iraq, dilaniato da un tale stallo politico da
non avere alcun potere contrattuale sulla gestione delle risorse.
Secondo un’analisi del 2013, il Tigri e
l’Eufrate rappresentano la principale fonte d’acqua dell’Iraq ma la
combinazione di fattori quali il cambiamento climatico, l’aumento della
popolazione e la costruzione delle infrastrutture legate al GAP, rischia
di prosciugare il bacino entro il 2040. La scarsità d’acqua
si è già tradotta nel riversamento della popolazione nei grandi centri urbani e
nell’abbandono di migliaia di ettari di terreno agricolo. Tra il 2018 e il 2019
inoltre, a Ninive, sono state vietate le colture di riso, sesamo e grano poiché la loro
produzione risultava troppo dispendiosa per le disponibilità idriche della
regione. Quella per l’acqua è una guerra senza bombardamenti né
armi in cui l’Iraq, privo di un governo stabile dopo il conflitto
vissuto fino al 2011, sta lentamente soccombendo.
La crisi è quindi economica ma soprattutto umanitaria, dal momento che le
ultime risorse disponibili sono sottoposte, per giunta, alla deleteria
amministrazione dello Stato iracheno. L’inesistenza di regolamenti
ambientali e le negligenze di Baghdad hanno
portato ad un tale deterioramento delle falde acquifere che, solo nel 2018 a
Basra, circa 118mila persone sono state ricoverate per sintomi riconducibili a
intossicazione da acqua inquinata. Agricoltura e pesca, principali
fonti di reddito della popolazione irachena, sono ormai compromesse.
In questo contesto instabile, le organizzazioni terroristiche come l’ISIS trovano terreno fertile. Favorite dalla
rassegnazione civile e dalle rivalità geopolitiche, in certe aree dell’Iraq la
loro influenza è tale da garantire il pieno controllo sulla gestione delle
infrastrutture idriche.
Le incerte prospettive regionali
Già nel 2013, l’Onu aveva fatto appello alla diplomazia multilaterale tra gli Stati del Medio Oriente e Nord
Africa (MENA) affinché cooperassero per cercare soluzioni alla questione.
Nell’aprile del 2019, sotto l’ombrello di Save the Tigris e
con la collaborazione di ricercatori, attivisti e ong locali, è nato il
primo Mesopotamian Water Forum per
elaborare un modello di governance dal basso, in grado di tutelare le comunità
locali.
Nonostante la partecipazione al forum di Turchia e Iran, nessuna delle due
potenze sembra intenzionata a smettere di utilizzare l’oro blu come arma
di soft power, approfittando della debolezza dell’Iraq,
definito da alcuni come uno Stato ormai fallito. In Iraq però, la società
civile pare intenzionata a continuare a combattere per il proprio
diritto all’acqua. Campagne come quella del “Make
Rojava Green Again”, dimostrano come là dove gli Stati falliscono, è
la mobilitazione dal basso a fungere da unica nutrice della speranza di questi
territori.
Siria ed Iraq tra i primi in Medio Oriente - Nancy Drew
L’estate
2021 è stata particolarmente dura per tutti i Paesi intorno al Mar
Mediterraneo, sia climaticamente per le temperature oltremodo fuori misura, e
soprattutto perché la maggioranza di essi hanno dovuto lottare con vasti ed
innumerevoli incendi. Questi ultimi sappiamo essere anche attività criminali e di
piromani, ma altresì particolarmente facilitata a causa dei cambiamenti
climatici in atto sul nostro Pianeta ( https://www.theblackcoffee.eu/il-mediterraneo-brucia/ ).
La siccità è
uno dei più importanti effetti del surriscaldamento globale.
A loro volta
gli incendi sono facilitati dalle alte temperature e dalla siccità, in un
vortice di concause che si intrecciano tra loro e si autoalimentano.
Tra i Paesi
che si affacciano sul Mediterraneo orientale, il più colpito da questi fenomeni
è stata la Siria e il confinante lraq.
Secondo il
Norwegian Refugee Council, in questi due Paesi sono 12 milioni gli abitanti che
stanno perdendo l’accesso all’acqua, sia essa potabile – insostituibile per la
vita umana – che utile per irrigare i campi che poi daranno i raccolti per il
sostentamento delle famiglie. Altre attività che ne hanno fortemente risentito,
spesso a conduzione familiare, sono gli allevamenti dei pesci.
In Siria del
Nord e dell’Est, sono circa 5 milioni le persone che dipendono dal fiume
Eufrate, mentre proprio in queste settimane l’Amministrazione Autonoma AANES
rende noto di aver terminato la ricostruzione di alcuni importanti
allacciamenti idraulici alle città di Hasakah e Deir ez Zor, distrutti
dall’Isis durante le sue scorribande.
Qui, circa
400 chilometri quadrati di terreno agricolo rischiano la siccità totale, mentre
due dighe nel nord del Paese, che servono tre milioni di persone con la
produzione di elettricità, rischiano la chiusura imminente. Lo stesso succede
in Iraq, dove in vaste aree gli agricoltori non sono riusciti a portare a
termine le loro produzioni di cereali – quali il grano – che risulterà
diminuito dal 50 al 70 per cento. Particolarmente colpiti risultano la regione
di Ninewa e del Kurdistan.
La questione
delle dighe – in Siria e in Iraq – è strettamente legata anche alle politiche
idriche della Turchia, dove i maggiori fiumi Eufrate e Tigri che attraversano i
due Paesi mediorientali, hanno le loro sorgenti.
Nelle ultime
decadi – a monte – la Turchia ha costruito immense dighe, che solo per questo
hanno diminuito la portata di acqua nel corso dei due fiumi del 30 per cento
( https://www.theblackcoffee.eu/acqua-bene-comune-o-elemento-di-ricatto-bellico/).
Oltre all’approvvigionamento per le proprie necessità interne, questo
meccanismo agito dalla Turchia – deciso in autonomia senza il confronto con gli
altri due Paesi confinanti – è divenuto palesemente un ricatto politico e
bellico.
Carsten
Hansen – direttore regionale del Consiglio norvegese per i rifugiati – ha
affermato che il crollo totale della produzione di acqua e cibo per milioni di
siriani ed iracheni è imminente. Questo effetto disastroso porterà altre
centinaia di migliaia di iracheni e di siriani – di cui molti tuttora sfollati
per salvare le loro vite dalla furia del Califfato Islamico – a dover ancora
cambiare area per trovare sostentamento alle famiglie.
La crisi
idrica in corso – secondo Hansen – diventerà presto una catastrofe senza
precedenti che spingerà sempre più verso lo sfollamento interno o verso i Paesi
confinanti.
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