Il G20 Salute a guida italiana a fine ottobre avrà la sessione decisiva. Mentre al Sud del mondo arriva solo l’1,6% dei vaccini e il Patto di Roma non ha appoggiato lo stop ai brevetti. A vantaggio di Big Pharma che punta a una endemizzazione, non al superamento della pandemia.
A quasi due anni dall’inizio del contagio che piega il mondo, e delle
inequivocabili pedagogie che assimilano l’emergenza umana alla emergenza
sanitaria del pianeta, la salute domina la scena come scacchiera di una partita
geopolitica aspra e confusa.
L’annunciato nuovo coronavirus – che oramai tanto nuovo non è più – non
avrebbe mai dovuto diventare una pandemia. Lo ha dichiarato senza fronzoli il
rapporto del Panel Indipendente della Organizzazione Mondiale della Sanità
(Oms): la comunità internazionale aveva tutte le competenze tecniche e le
regole operative vincolanti per serrare i confini del primo focolaio virale e
farne una epidemia circoscritta geograficamente. Non lo ha fatto. La catastrofe
sanitaria in cui ci troviamo ancora, con la fame acuita e la crisi
socio-economica che fanno da corollario pandemico, è il frutto avvelenato della
incapacità dei governi di aderire alle norme del diritto internazionale e di
cooperare, come pur accadeva in passato durante la guerra fredda, sul terreno
della salute.
Forse sulla scia di questa responsabilità storica non propriamente
interiorizzata, la comunità internazionale continua a incontrarsi – non si sono
mai visti tanti appuntamenti multilaterali sulla salute globale come nel 2021 –
ma nella totale incapacità di andare oltre le formule di circostanza, che sono
il metronomo della nostra vita pubblica. Il sostanziale
rigetto di un impulso universalistico, sotto l’egida delle istituzioni
internazionali deputate a governarlo, si è infilato come un virus nella Babele
di iniziative individuali e di strutture che germinano come schegge di un
multilateralismo in frantumi.
Qualche esempio? l’Europa ha avviato a gennaio una demarche a favore di un trattato pandemico in seno
all’Oms; a maggio la Svizzera ha lanciato il suo BioHub e
la Germania il suo l’Hub globale per la intelligence pandemica
ed epidemica. A giugno il consigliere scientifico della Casa Bianca, Eric
Lander, è partito con l’idea che un vaccino debba essere pronto in 100 giorni
dallo scoppio della prossima pandemia e solo qualche giorno fa il presidente
Joe Biden, assai poco propenso all’idea di negoziare un trattato, ha proposto
un summit internazionale sul Covid-19 e sulle vaccinazioni in concomitanza con
la Assemblea dell’ONU a New York. E’ notizia recente anche il piano di USA ed
Europa di resuscitare l’esplosivo Transatlantic Trade and
Investment Partnership (notorio come TTIP), dissotterrando il
negoziato seppellito nel 2016 per ripescare l’alleanza atlantica in versione
anti-Cina. La posta in palio della nuova rotta bilaterale, annunciata prima del
G7, non punterà più solo a specifici settori dell’industria, ma
all’intelligenza artificiale, alla governance dei
dati, agli standard industriali tout court. Il primo
incontro del Trade and Tech Council fra
Bruxelles e Washington è previsto a Pittsburgh il 29 settembre .
La pandemia insomma ha ridisegnato i contorni dell’ordine internazionale,
non solo sanitario, con impreviste forme di protagonismo e pigli di potere
debitamente mascherati dalla retorica della interdipendenza, della
cooperazione. La comunità internazionale si proietta in un futuro pandemico
come fosse un destino a cui non può più sottrarsi. Vero: altre pandemie
prosperano silenziose – ad esempio la antibiotico-resistenza, per cui l’Italia
vanta il record di casi nel contesto europeo; incombe il pericolo di nuovi
salti di specie dei virus, in linea di continuità con le incalzanti zoonosi che
hanno marchiato l’inizio del millennio – visto che nessuno sembra intenzionato
a mettere in discussione il conflitto irriducibile fra capitalismo e
sostenibilità ecologica.
Ma la costruzione di uno scenario di “preparazione e risposta alle
pandemie” (pandemic preparedness and response), al posto di una
loro futura prevenzione, serve eccome a riconfigurare gli assetti della governance sanitaria mondiale. E’ una prospettiva
munifica di benefici per quanti indirizzano la salute verso pratiche sempre più
securitarie e personalizzate grazie a soluzioni tecnologiche non più
obiettabili, perché considerate la strada più economica e affidabile per
intercettare ogni avvisaglia futura. I cantori di questa strategia, tutt’altro
che neutrale, apparecchiano danni ambientali non trascurabili ma soprattutto
non trascurabili profitti per l’industria digitale che nessuno controlla, men
che meno in tempo di pandemia.
Dal canto loro, è chiaro che le aziende che producono vaccini non hanno
alcun interesse ad eradicare la pandemia, casomai puntano a endemizzarla, così
da prolungare al massimo la grande abbuffata che Covid-19 ha servito su un
piatto d’argento. Uno tsunami di investimenti pubblici e zero rischi d’impresa:
in un anno la pandemia ha generato 8 nuovi miliardari farmaceutici, 5 dei quali
afferiscono alla start up americana Moderna. L’idea di un Global Health Threats Board and Fund per gestire
le emergenze sanitarie, avanzata dal Panel indipendente dell’Oms e dal G20 con
la benedizione della amministrazione americana, va dritta in questa direzione:
l’ennesimo dispositivo multi-stakeholder per una
nuova immuno-politica farmaco-digitale. Con lauti
finanziamenti pubblici, l’industria farmaceutica terrà ben stretto il coltello
dalla parte del manico per sfornare le tecnologie bioinformatiche e le
soluzioni biomediche per future pandemie.
Nell’aprile 2020, la creazione dell’Access to Covid-19 Tool
Accelerator (ACT-A) per la ricerca e distribuzione globale dei
rimedi contro il Covid – proposto dalla Fondazione Gates con l’estatica
accoglienza della Commissione Europea e della presidenza francese, e
l’imprimatur della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) – ha decretato la
scelta della comunità internazionale di affidare a partnership pubblico-private
la gestione internazionale della prima crisi di salute planetaria. Sono entità
di diritto privato e densamente popolate da Big Pharma come Global Alliance for Vaccine Immunization (GAVI)
e Coalition for Epidemic Preparedness and Innovation (CEPI),
che detengono la conduzione operativa della emergenza su scala globale,
finanziata dai governi. Con inspiegabile euforia, l’analista brasiliano Carlos
Federico Pereira da Silva Gama scrive che il pilastro vaccinale di ACT-A,
COVAX, è il trampolino di lancio della nuova governance della
salute globale dopo la pandemia. Peccato che COVAX
sia “una sorta di banca d’affari che usa capitali pubblici per conformare
l’industria della preparazione dei vaccini e il mercato dei consumatori nel Sud
del mondo”, con grave vulnus per la cooperazione multilaterale, secondo l’ex
diplomatico Harris Gleckman.
Nella retrocessione e deformazione del ruolo dello Stato, i governi dei
paesi più influenti non risultano quasi più distinguibili dal settore privato,
ingabbiati come sono in politiche che generano iniquità, ma condite di parole
positive che vengono di volta in volta profanate, sfigurate: People, Planet, Prosperity, Peace and Partnership. La
adesione governativa alle classiche istituzioni sanitarie multilaterali si è
friabilizzata con la progressiva istituzionalizzazione degli interessi privati
degli ultimi venti anni.
Oggi la surreale incapacità di un impegno governativo adeguato alla
razionale pedagogia di Covid-19 non risparmia nessuno. Ne è un recente esempio
la sessione ministeriale del G20 salute tenutasi a Roma il 5 e 6 settembre con
il banner ufficiale “Together Today for a Healthier
Tomorrow” (“Insieme oggi per un domani in miglior salute”). Questa
si è conclusa con il cosiddetto “Patto di Roma”, un documento di undici pagine
infarcite di aspirazioni altisonanti sistematicamente smentite dalla realtà di
apartheid sanitario nella gestione della pandemia. Il ministro Roberto Speranza
ha dichiarato che il Patto di Roma “manda un messaggio fortissimo al mondo: che
il globo è unito”. Ma le fonti raccolte alla vigilia dell’incontro, e il suo
svolgimento seguito in diretta dai colleghi del G-20, raccontano di tensioni
insanabili all’interno. Soprattutto, ma non solo, fra Stati Uniti e
Cina. Tali per cui non si va oltre i luoghi comuni e la vaghezza operativa.
Così, nel secondo anno pandemico, la salute resta terreno di un confronto
aspro. D’altronde, la disuguaglianza nella distribuzione e somministrazione
globale dei vaccini restituisce una realtà molto netta: la solidarietà resta un
miraggio, impigliata com’è nei fili spezzati di un multilateralismo di
facciata. L’IMF-WHO COVID-19 Supply Tracker, il dispositivo che
fornisce i dati aggiornati sulle linee di approvvigionamento certe o attese di
vaccini in rapporto alla popolazione, spiega come Canada, Australia, Nuova Zelanda,
Gran Bretagna e Stati Uniti si siano assicurati dosi per una copertura stimata
tra 200 e 400% della loro popolazione.
Ursula von der Leyen ha annunciato il 70% di copertura in Europa a fine agosto.
Ma le 5,3 miliardi di dosi somministrate finora hanno raggiunto solo l’1,6%
della popolazione del Sud del mondo, con la prima iniezione. E così 3,5
miliardi di persone attendono la prima vaccinazione, in uno scenario
tecnicamente complicato da vaccini Covid inadatti ai paesi con scarse strutture
sanitarie – si pensi alla improbabile catena del freddo, o alla necessità della
doppia dose in assenza di registri vaccinali centralizzati.
Si contano 4,6 milioni di decessi a causa di Covid-19, ma il numero reale
potrebbe essere almeno il doppio, visto che la pandemia è sempre più
concentrata nei paesi del Sud globale. Così, mentre COVAX rivede al ribasso le
proiezioni di fine anno per la distribuzione dei vaccini, lo iato tra
accaparramento vaccinale dei paesi ricchi – oggi concentrati sulla terza dose –
e la radicale penuria di vaccini nei paesi impoveriti si aggrava, soprattutto
in Africa.
Si stima che la popolazione africana raggiungerà il 60% di copertura
vaccinale solo nella metà del 2023 – con una perdita di PIL calcolata in
ragione di 2,3 miliardi di miliardi di dollari tra il 2022 e il 2025. Nella
sola Italia a presidenza G20 (60,36 milioni di abitanti) sono stati
somministrati più vaccini di quanto non siano stati iniettati in tutto il
continente africano (1,3 miliardi di persone). Come all’inizio, questa
condizione spiana la strada alla cinetica del virus, più ostica in forza delle
nuove varianti. E infatti i casi, le ospedalizzazioni, le morti
stanno in risalita in molte parti del pianeta. Israele, la nazione apripista
per le spregiudicate strategie vaccinali dell’inizio 2021, si ritrova in piena
ripresa del contagio con la variante Delta dominante e la Mu che emerge sulla
scena: 1.000 casi su 1 milione di abitanti, il numero più elevato al mondo.
Ma il G20 salute non demorde. Neppure il rutilante Patto di Roma, in cui i
paesi del G20 si impegnano a fare di tutto, si azzarda ad osare un minimo
accenno alla concreta misura politica, prevista dal diritto internazionale, che
riguarda la sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale (TRIPS Waiver). Fra i suoi Stati
membri, il G20 annovera India e Sudafrica promotori della proposta: in febbrile
discussione mentre scriviamo al Consiglio dei TRIPS, al WTO. Non basta
l’insistenza di diversi governi del G20 in favore del waiver per trovarne un riferimento nel documento
della ministeriale: la stucchevole retorica sul vaccino
bene comune si incaglia per la seconda volta, dopo il summit
sulla salute globale del G20 del 21 maggio, nel silenzio tombale su questa
ipotesi di lavoro sostenuta da oltre cento paesi dell’Organizzazione Mondiale
del Commercio e da molte istituzioni internazionali.
La sospensione dei diritti di proprietà intellettuale forzerebbe una
transizione verso la logica di cooperazione tra Stati, spesso del tutto
inconsapevoli dei meccanismi che regolano l’industria farmaceutica.
Indicherebbe una possibilità di nuove rotte per immunizzare la comunità
internazionale dal feudalismo della economia della conoscenza. Ma no:
questo waiver non s’ha da fare, secondo il G20. Né ora né
mai.
Anzi, la politica è in piena fase regressiva su questa materia. Covid ha
dato alla UE il pretesto per rivedere il Piano di Azione sulla proprietà
intellettuale a sostegno della strategia di Ripresa e Resilienza, per
indirizzarlo al sconcertante rafforzamento della proprietà intellettuale e alla
promozione sperticata delle licenze volontarie come “la via maestra per la
condivisione della conoscenza”. La stessa cosa sta facendo in Italia il MISE
con il piano di riforma della proprietà industriale. Non deve dunque sorprendere
la sindrome da rimozione del G20 e del Patto di Roma. Il documento cita
sì la necessità di diversificare e rafforzare le produzioni medicali nel Sud
del mondo, abbattendo però solo gli ostacoli commerciali e doganali. Il G20 prevede un complesso meccanismo di spinta
pubblica alle aziende farmaceutiche perché trasferiscano le loro tecnologie con
licenze volontarie che lasciano intatti i monopoli della scienza medica. Uno
scenario che si sta dinamizzando da qualche mese, ma anche con vicende paradossali.
Alla vigilia del G20 Salute, Ursula von der Leyen ha accettato alla fine di
rimandare in Africa milioni di dosi di vaccini anti-Covid prodotti dalla joint venture di Johnson & Johnson e la
sudafricana Aspen Pharmacare: erano stati esportati in Europa!
Intanto le decisioni del G20 che contano sulla salute saranno forse prese
nella sessione congiunta salute-finanze di fine ottobre. Il sito del ministero
della Salute lo annuncia: sarà la sede “per affrontare in particolare la
questione fondamentale di come migliorare l’architettura globale della sanità”.
Spetta dunque alle logiche finanziarie sancire le priorità sanitarie da
sostenere, in uno schema di gioco che rischia di ripetere quanto già visto
dagli anni ’90 in poi con Banca Mondiale e FMI. Non c’è di che stare
tranquilli: uno studio della Initiative for Policy Dialogue della
Columbia University segnala uno tsunami di politiche di austerity in arrivo. Le
analisi delle proiezioni fiscali del Fondo Monetario Internazionale (FMI)
indicano che nuove misure di austerity sono attese in 154 paesi nel 2021 e in
159 paesi entro il 2022 – una pandemia finanziaria che si abbatte su 6,6
miliardi di persone, l’85% della popolazione mondiale, e con una tendenza
patologica destinata a durare fino al 2025.
David Quammen ha scritto che non eravamo preparati alla pandemia per mancanza di immaginazione. Forse è questo il vero virus che uccide molto più di Covid.
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