Il 22 febbraio 2021 si accendono i riflettori sul
Congo: nel parco del Virunga, in un agguato sulla via che porta a Rutshuru,
vengono uccisi l’ambasciatore italiano a Kinshasa Luca Attanasio, il
carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam Mustapha Milambo. Angelo
Ferrari ricorda il percorso compiuto nella regione nota per la presenza (e la
tutela) dei gorilla quando ancora era in corso la Seconda guerra africana. Ve
lo proponiamo prima che i riflettori si spengano nuovamente sulla zona dei
Grandi Laghi su cui torneremo presto con una analisi approfondita su milizie,
saccheggi di risorse e spartizioni di territori…
Mobutu se ne è andato
In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella
capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che
porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme
nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato
15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E
oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si
muovono con aerei ed elicotteri.
Una normalità che si accompagna alla rassegnazione. Mobutu
se ne è andato, ha terminato la sua marcia alla faccia del nome che
si era dato dopo il suo editto di eliminazione dei nomi occidentali per
sostituirli con quelli tribali. Lui prese il nome di Mobutu Sese Seko Kuku
Ngbendu Wa Za Banga, che significa “il guerriero onnipotente che, grazie alla
sua resistenza e all’inflessibile volontà di vittoria, passerà di conquista in
conquista lasciando una scia di fuoco dietro di sé”. Lui ha lasciato un paese
distrutto e depredato.
Una brutta piega: invasioni e fazioni
ribelli
Mobutu non c’è più, ma la storia non ha preso la piega che avrebbe dovuto.
Quella che il popolo congolese si aspettava, che i padri si auguravano, in cui
i figli hanno creduto. Invece nulla di tutto ciò. Nel 1996 il Ruanda ha invaso
la Repubblica democratica del Congo e organizzato l’estromissione di Mobutu
l’anno seguente, con l’entrata trionfale a Kinshasa di Laurent-Désiré Kabila.
Il 1998 gli stessi ruandesi se la prendono con il loro uomo, innescando una
guerra che ha causato oltre 4 milioni di morti. Kabila se
ne va ucciso dalla sua stessa guardia del corpo. Gli succede
il figlio Joseph Kabila, 29 anni, in tutta fretta, nel gennaio del 2001 e i
maligni vedono in lui la mente che ha ordito il complotto di cui è rimasto
vittima il padre. Dopo intensi negoziati Kabila riesce ad arrivare agli accordi
di pace nel 2003 e il nuovo governo riesce a mettere fine alla “grande guerra”
che porta al ritiro degli eserciti stranieri alleati con il governo, Angola,
Namibia e Zimbabwe, e di quelli che sostenevano i ribelli, Ruanda e Uganda.
Finita la grande guerra gli scontri tra le fazioni ribelli, che crescono come
funghi, non si placano. Proseguono incessantemente anche oggi, senza sosta per
il Congo e la sua gente che vive, ormai, nella rassegnazione, avendo perduto la
capacità di progettare un futuro compatibile con la dignità umana. I sogni e le
speranze, che maturano oggi, si infrangono, domani, contro la ripresa di azioni
violente da parte di un neonato gruppo ribelle. Sembra che gli unici capaci di
progettare un futuro siano gli uomini in armi. I congolesi, invece, rassegnati
a una comunità internazionale che considera il Congo una causa persa.
2003: un paese distrutto e depredato
E nel 2003, dieci anni dopo il primo viaggio in Zaire, mi si presenta un
paese distrutto fino nell’intimo. Una lingua nera attraversa Goma. Il
Nyiragongo, colui che vomita, ha riversato migliaia di tonnellate di lava sulla
città, spaccandola in due. È passato più di un anno ma i segni della
distruzione sono ancora evidenti.
Destino amaro per questa città del Nord Kivu in Congo. Nel 1994
“l’invasione” dei profughi ruandesi, più di due milioni, nel 1996 l’inizio
della guerra di Desiré Kabila, nel 1998 una nuova guerra ha trovato il suo
risvolto più cruento proprio in questa città e lungo la dorsale del parco del
Virunga al confine con il Ruanda. La lava ha trascinato con sé case, abitanti,
una parte dell’aeroporto – dopo sette anni la ferita è ancora aperta e l’ho
potuto constatare di persona durante un viaggio a Goma nel 2010 – la
cattedrale, la casa dei saveriani, fino a spegnersi nel lago Kivu che ha
ribollito per giorni. Ironia della sorte non ha colpito la casa del vecchio e
defunto dittatore, Mobutu. Ironia della sorte per una città che non si rassegna
al suo destino, che in meno di cinque anni ha visto triplicata la sua
popolazione. Una città segnata, fin nel profondo, dai profughi ruandesi, che
poi ha visto l’invasione delle truppe del confinante Ruanda.
A Goma l’inizio del
viaggio
Goma non si rassegna. Sulla lava i suoi abitanti hanno già ricominciato a
costruire case di legno, hanno ridisegnato le strade, le rotonde, un lento
ritorno alla normalità di una vita di un paese, il Congo, diviso dalla guerra e
dall’odio. Ed è proprio a Goma che inizia il mio viaggio in questo paese
ricchissimo e dimenticato dal mondo. Un viaggio per ricordare al mondo che quei
54 milioni di abitanti (nel 2021 hanno superato gli 84 milioni) vivono nella
miseria e nel terrore. Un viaggio per rendere memoria a quasi quattro milioni
di morti in cinque anni di guerra. Un viaggio per cercare nelle pieghe della
disperazione, quei pochi rivoli di speranza e di pace che fanno dire a Bisidi
Yalolo, responsabile del Wwf di Goma: «vedete quei fiori che piantiamo… Belli no?».
Sì, quei fiori, quelle donne curve sulla lava a piantarli, sono uno dei segni
più evidenti di una rinascita di una città che ha deciso di tornare a vivere e
di dare un senso anche alla lava che ha bruciato tutto. Bisidi Yalolo la
ricorda bene la guerra, ne ha subito le conseguenze, è dovuto scappare nella
foresta, è tornato per proseguire un lavoro iniziato nel 1987. Una bomba ha
centrato il suo ufficio e allora la fuga disperata. Lo hanno dato per morto
finché non l’hanno visto ricomparire a Goma.
«L’epoca era quella della prima guerra di Kabila», mi racconta Bisidi. «Da
Goma chiediamo a Nairobi il da farsi. È scoppiata la guerra, dicevo, loro mi
hanno risposto, aspettate. Ma una bomba è piovuta diritta sulla nostra sede.
Allora sono scappato e ho camminato per giorni percorrendo più di mille
chilometri e sono arrivato a Kisangani. A Goma mi davano per morto. Poi sono
tornato quando la bufera si è conclusa». È tornato e ha ripreso il suo lavoro
di conservazione ambientale, di salvaguardia dei gorilla di montagna. Ma a che
serve, quando c’è un intero popolo che muore? «Il problema – continua Bisidi –
non è certo quello di interessarsi solo della natura o dei gorilla. Il problema
è capire che la natura deve essere protetta ed è una risposta per la gente». I
progetti, infatti, del Wwf, sono rivolti alla riduzione dell’impatto dell’uomo
sul parco del Virunga. Come? Mettendo in campo progetti di sviluppo sostenibile
per la gente del parco.
Rubare: i bambini che
cantano
Nel villaggio di Rubare, sulla pista che porta a Rushuru – la stessa
maledetta strada dove ha trovato la morte l’ambasciatore italiano Luca
Attanasio il 22 febbraio del 2021 – è una festa quando ci vedono arrivare. Per
la prima volta negli ultimi cinque anni, dei bianchi si avventurano nella zona.
Soldataglia, banditi, retroguardie degli eserciti occupati, quello del Ruanda,
imperversano ancora nella zona. Non è più una guerra sistematica, ma
saccheggio. Ciò che è accaduto pochi giorni prima del mio arrivo, una ventina
di morti, rende ragione di una situazione ancora di tensione. Così come la
nutrita scorta armata di militari che mi accompagna e che aumenta di numero man
mano che ci addentriamo nella foresta. Io ne ho contati più di una trentina, ma
potrebbero essere di più. Ogni tanto vedo facce mai viste che spuntano da
dietro le colline. Tutti militari adolescenti. Ma a Rubare, il nostro arrivo,
sembra una festa, quasi di liberazione. I bambini ci accolgono con una canzone
che, pressappoco, dice così: «Siete venuti in pace, vi accogliamo in pace,
tornate a casa e dite a tutti che siamo gente pacifica». Qui a Rubare è in atto
un progetto sostenibile a vasto raggio. L’obiettivo è quello di creare una
demarcazione tra il parco e la zona agricola, attraverso una serie di attività:
produzione di legno per uso energetico alternativo al prelievo del parco,
sviluppo di attività agricole per l’arricchimento del suolo e
approvvigionamento di generi alimentari, l’allevamento. Ma non solo. Sono stati
creati laboratori di sartoria e una scuola di alfabetizzazione frequentata
soprattutto da donne. Un modello sperimentale che si sta applicando in molti
villaggi.
«Abbiamo prodotto e piantato sei milioni di piante», racconta orgoglioso
Bisidi. Percorrendo la strada, sinonimo di disperazione e morte, si trovano villaggi
che tornano a vivere. Ed è questo che ti capita di vedere mentre ti avvicini al
limitare del parco. Vedi le donne, nei campi, chine a zappare una terra fertile
che potrebbe dare tanti frutti. Girano appena il capo, non raddrizzano la
schiena perché devono continuare a zappare, ma gli occhi raccontano tutto.
Tutto il dolore vissuto, tutta la speranza che può dare quel semplice incontro.
Mi hanno raccontato che veder dei bianchi, dopo lunghi anni di guerra, gli ha
portato un po’ di speranza, anche se è solo un passaggio, un saluto con la mano
e un sorriso.
Se hai visto l’Africa, | questo continente
gigantesco | che un tempo partorì la stirpe umana, | hai visto anche
le donne | con la schiena curva | e le zappe alzate | che cadono
e si sollevano | cadono e si sollevano. | La terra turbina
| attorno a queste zappe. | Il canto della terra è il canto della
zappa. | Il canto della donna. | Il canto della zappa è il canto
della vita. (Henning Mankell,
Racconto dalla spiaggia del tempo)
“Incontrare” i gorilla
nel parco del Virunga:
L’obiettivo del viaggio è, anche, vedere i gorilla di montagna. Farlo da
questa parte del parco, nel Congo, ha solo il senso di dimostrare che qualcosa
sta cambiando. Che qualche segnale di speranza c’è anche qui, come quei bambini
di Rubare che cantano. Ma la stessa speranza rappresentata dalla maestosità
della natura, della foresta. Più che “vedere”, la parola giusta è “incontrare”
i gorilla di montagna. Entriamo nella foresta vergine, facendoci largo con il
machete, aspettiamo un segnale, un richiamo. I militari che ci “accompagnano”
restano al limitare della foresta vergine, anche questo per dimostrare che
quello spazio deve essere libero e in pace. I gorilla li devi cercare. Ti
trovano loro. L’incontro fa tremare le gambe. Una famiglia intera di 14
componenti e i guardiani del parco hanno dato a tutte un nome, quella che
incontriamo si chiama Kwitonda. Loro davanti a te, a pochi metri, ti guardano,
i piccoli vorrebbero giocare, il dominante, il silverback,
invece, non si cura nemmeno di te. Lui è quello che comanda. Ti tremano le
gambe quando un gorilla si appoggia al tronco di un albero, incrocia le
braccia, e ti guarda, come se volesse entrare in relazione con te, per
chiederti «che ci fai tu qui». La paura monta quando uno dei piccoli di tocca
un braccio e, come ci hanno spiegato i ranger, abbassi lo sguardo, mai
guardarli diritto negli occhi, sarebbe un segno di sfida. La paura passa quando
ti prende il berretto e lo porta via.
Sono istanti indimenticabili. Il fremito del corpo, questa volta, non è il
sintomo della paura, è piuttosto meraviglia e stupore per essere entrato in
relazione con un altro essere vivente e a casa sua. Ecco, la natura ha deciso
di renderti partecipe della sua bellezza, come insegna il Wwf di Bisidi nelle
scuole di Goma.
In volo: solo un
taccuino e la macchina fotografica
Ed è durante una rappresentazione tenutati in onore degli ospiti bianchi,
che arriva la telefonata. Dall’altro capo del telefono il generale Roberto
Martinelli vicecomandante della Monuc, che ci invita ad andare all’aeroporto di
Goma per registrarci su un aereo delle Nazioni Unite diretto a Bunia. I voli
commerciali per quella località sono tutti sospesi, troppo pericolo, e allora
per poter vedere e documentare ciò che accade in quell’angolo d’Africa non
rimaneva altro che chiedere all’Onu. Le probabilità erano poche, ma ora pare
che si stia per partire. Di corsa all’aeroporto, ci registriamo su un volo che
parte da lì a 15 minuti. Con me non ho nulla, se non la macchina fotografica e
il taccuino, ma l’occasione potrebbe non ripetersi e allora si sale sul volo
che sta trasportando mezzi blindati e alcuni uomini del contingente uruguaiano
dei caschi blu, non c’è tempo per prendere nemmeno lo spazzolino da denti. Dopo
uno scalo tecnico per riempire i serbatoi del C-130 a Kigali, si arriva a
Bunia.
Bunia: “era una città bellissima”
Disperazione ovunque. Le strade di Bunia, capoluogo dell’Ituri, regione del
Nordest del Congo, sono deserte. Si sente solo il rumore sordo delle armi. I
colpi dei mortai fanno capire che qui la guerra non è finita. La popolazione si
è rassegnata a piangere i morti, a cercare di che sfamarsi. La vita è
paralizzata. E nulla possono fare le organizzazioni non governative presenti in
città. Riesco a incontrare i volontari di Coopi, Cooperazione Internazionale,
che da giorni sono asserragliati in casa. «Nei periodi di calma – dice Silvia
Giardino – la gente viene nei nostri centri dove aiutiamo i malnutriti e
distribuiamo cibo. Poi cresce la tensione e tutti scappano. Così il nostro
lavoro viene vanificato». Coopi si occupa di due centri terapeutici e di otto
punti sanitari per combattere la malnutrizione. La popolazione percorre, per
raggiungere i centri, anche 60 chilometri a piedi, arriva sfinita. Sono tutti
sfollati che non hanno respiro, sono costretti a fuggire di villaggio in
villaggio, inseguendo la vita, lasciandosi alle spalle la morte. «La guerra non
si è mai interrotta – continua Silvia – si sposta continuamente. Il 70 per
cento delle persone vengono nei centri sono sfollati e per questo lavoriamo
anche nella distribuzione dei kit cucina. Soffriamo nel vedere la popolazione
ridotta in queste condizioni». Dai centri, in momenti di relativa calma,
passano tra le 100 e le 150 persone al giorno. Gianni di Mauro, un altro
volontario, però ricorda un’altra Bunia, quella di vent’anni fa. «Era una città
bellissima – dice – l’ospedale era forse il migliore del Congo. Le strade
asfaltate, fiori ovunque. L’economia era fiorente, c’erano addirittura negozi
di Armani. In certi alberghi si poteva entrare solo con la cravatta.
Tornare indietro di sessant’anni
La strada Mambasa-Kisangani, lunga 700 chilometri, si percorreva in una giornata,
oggi ci vogliono settimane». Bunia è tornata indietro di sessant’anni. Tanta
tristezza negli occhi di Gianni. Ma è così, la guerra schiaccia tutto,
distrugge. Fuga, disperazione e morte. La città si svuota. Come in ogni guerra.
Materassi di gommapiuma sulla testa. Il sole a picco. E rigorosamente in fila
indiana lungo la strada che porta all’aeroporto. Bambini per mano con il volto
rigato dalla paura. Una processione verso una speranza improbabile. Alle spalle
le armi che crepitano. Migliaia cercano rifugio all’aeroporto, chiuso da giorni
e diventati ora base militare ugandese, in cerca di una via di fuga dai
massacri. La gente di Bunia scappa dai colpi di mortaio che li rincorrono. Sono
tutti hema, l’etnia minoritaria della regione, gente orgogliosa, allevatori,
nipoti o cugini dei tutsi ruandesi. Dietro di loro i lendu, bantu, figli o
cugini degli hutu ruandesi. Sembra un film già visto: quello del genocidio
ruandese. Ma questa è realtà. Dura e cruda realtà fatta di morti, massacri,
fughe, stupri, rifugiati, contrasti etnici usati ad arte dai ribelli,
appoggiati da questo o quest’altro paese in una guerra infinita, quella del
Congo, che dura da cinque anni. Gli appetiti dei paesi confinanti, dei ribelli
con sigle altisonanti, non si sono arrestati di fronte alle tregue, agli
accordi politici che tentano di mettere la parola fine al massacro sistematico.
Ricordare questo viaggio, a distanza di quasi vent’anni, è utile per capire
quello che accade oggi. Se allora era guerra piena, ora è a bassa intensità, ma
altrettanto feroce. La gente non ha il tempo di riorganizzarsi in un luogo, se
deve, nuovamente, più volte all’anno, fare fagotto e scappare altrove. Chi ce
la fa. E le milizie, con altri nomi, sono sempre lì a dettare legge. Lo stato
lontano e impercettibile.
La speranza (vana) si chiama Uganda
In aeroporto i fuggiaschi si mettono in fila. Dall’altra parte della pista
gli ugandesi stanno caricando un aereo: carri armati, blindati e soldati dai
volti gentili. Ma anche bambini soldato arruolati per combattere una guerra non
loro. Gli hema, in fila, attendono il loro turno. Sperano di salire su
quell’aereo che ha come meta Entebbe. Uganda: la salvezza e la certezza di
vivere da rifugiati in un paese non loro, in campi fatiscenti, ma lontano dalla
sicura morte. I “soldatini” adolescenti scattano all’ordine dei loro
comandanti. I rifugiati attendono da giorni di partire. Ecco, vengono chiamati,
avanzano. No, tutti indietro. Dietrofront, non è ancora arrivato il momento. E
la speranza di sgretola, affonda nell’asfalto bollente della pista.
Gli ugandesi devono lasciare l’aeroporto. La tensione è alta. La Monuc, la missione di osservatori dell’Onu, non ha la
forza militare per mantenere il controllo della città, figuriamoci dunque della
regione dell’Ituri. Eppure, i compound dell’Onu si riempiono di persone che,
qui, si sentono più protette.
È una mattina qualsiasi. La vigilia della partenza delle truppe
dell’Uganda, paese occupante, e la tensione si alza. Le strade di Bunia sono
deserte, I magazzini chiusi. E non è notte. Tutti aspettano l’offensiva dei lendu.
Intanto un plotone di militari congolesi, travestiti da poliziotti, fanno la
loro parata, cantando e correndo, mostrando i muscoli per le vie centrali della
città. Fanno sapere che ci sono. Sembrerebbero voler rassicurare la
popolazione. Ma la gente non sorride. Da lì a poco il plotone cerca rifugio
negli uffici della Monuc dove ha
trovato riparo anche il capo della polizia locale e dove sono asserragliati i
caschi blu uruguaiani. Il plotone si squaglia al primo colpo di mortaio.
Nei palazzi si parla, per strada si muore
Il giorno è arrivato: 6 maggio. Riprendono i combattimenti. È un massacro.
Lo scontro è feroce. Si fronteggiano le due fazioni: hema e lendu. È una storia
infinita di potere. Tutto questo mentre a Kinshasa sono in corso le trattative
per formare il governo di transizione, per definire quanti e quali
vicepresidenti affiancheranno il capo dello stato. Nei palazzi del potere,
compresi quelli della missione Onu, si discute e intanto per le strade di Bunia
si muore. Il gioco politico è chiaro. Il Consiglio di sicurezza ha imposto agli
ugandesi di lasciare la regione. L’Uganda ha risposto deciso: lasciamo il Congo
in tempo zero. Panico e sconcerto. La Monuc non ha la
forza per rimpiazzare militarmente gli ugandesi. E allora si tratta. Il gioco è
chiaro. L’Uganda vorrebbe rimanere. La regione è ricca di risorse, il petrolio
vorrebbe trovare la luce, e gli ugandesi lo sanno. Per questo lavorano dietro
le quinte, sostenendo questa o quest’altra fazione ribelle. All’inizio è
l’Unione dei patrioti congolesi (Upc), guidata da Thomas Lubanga di etnia hema,
a prendere il potere, ma subito fa l’occhiolino ai ruandesi. Scontenta gli
ugandesi e, allora, si va nuovamente alle armi. L’aiuto di Kampala si rivolge
ai lendu, nemici giurati dell’Uganda. Insomma, il giochino delle tre carte. In
mezzo un contingente di caschi blu uruguaiani che non possono nulla, se non
fare da deterrente. Però il mandato è debole. E poi a Bunia non esiste nessuna
logistica militare dell’Onu. I primi militari arrivano con due bottiglie
d’acqua e due razioni da combattimento. Troppo poco. L’Uganda lo sa. Nei
palazzi della Monuc di Kinshasa le
trattative di affiancano alla preparazione del contingente militare che
dovrebbe sostituire l’esercito di Kampala. Settecento uomini che dovrebbero
diventare 2300 entro l’estate. Lo sforzo è enorme. Ma gli ugandesi se ne vanno.
È guerra. Sei giorni di battaglia feroce e l’ex amico dell’Uganda, tornato
all’ovile, Lubanga torna a controllare Bunia. Viene firmata la tregua. Ma le
preoccupazioni rimangono. Gli osservatori sono scettici, se non pessimisti. La
parola fine non è stata ancora scritta. All’Uganda, a questo punto, conviene di
più il giochino delle tre carte che un intervento diretto.
E l’inferno si scatena
Un giorno carico di tensione. L’obiettivo, tra gli altri, è ancora capire,
facendocelo raccontare dai funzionari Onu, cosa sta davvero succedendo nella
regione. Ma le riunioni si moltiplicano. L’appuntamento con la funzionaria
italiana viene spostato in continuazione, mentre nella stanza, sbattendo porte,
si succedono ufficiali di diversi paesi occidentali. Nel compound delle Nazioni
Unite gli sfollati crescono, ne arrivano in continuazione, lo pensano un luogo
protetto, ma sono anche il segnale che la guerra è alle porte. Decido, insieme a
un collega, di mangiare qualcosa. C’è un ristorante, l’unico aperto, proprio
lì, ed è lì che attendiamo udienza e la nostra funzionaria. Di cibo poco,
qualche spiedino di carne di capra e dell’insalata. Ai tavoli altri bianchi,
tutti funzionari di qualche agenzia dell’Onu. Chiediamo la birra, la capra è
dura da mandare giù. Non c’è. Solo una bottiglia. Un segno inequivocabile che
la guerra è alle porte. Poi cade l’occhio, che esprime tutta la voglia di
birra, sotto le sedie dei tavoli occupati: casse di birra portate dagli stessi
avventori. Merce preziosa, in tempi di guerra. Chiedo ancora la birra, la
stessa risposta: non ce n’è. Suggerisco alla gestrice del ristorante di andare
a comprarne almeno una cassa. Gli occhi diventano grandi per la paura: tutti i magazzini
sono chiusi. Insisto, con anche un po’ di superbia: impossibile che non si
trovi della birra, e alla fine spuntano le bottiglie della preziosa Primus. Con
la birra arriva anche la funzionaria che aspettavamo, sono le 23. Ci racconta
delle riunioni che devono rimanere segrete, poi ci racconta la realtà. Io e il
collega ci guardiamo stupefatti: ma queste cose le sappiamo anche noi. Non c’è
bisogno di essere nelle stanze segrete dell’Onu. Lei, la giovane funzionaria,
sorride ed è evidente che di segreto non c’è nulla. Ci capiscono poco anche
loro. Dal sorriso al saluto e ci lascia il suo pomposo biglietto da visita e
sotto il nome – lo tralascio per la privacy e nella speranza, soprattutto, che
ora sia un po’ più avveduta e competente di allora – c’è tutta la sua vita:
“Master of International Affairs Human Rights and Conflict Resolution”. Un
master conseguito alla Columbia University di New York. Ma prima di congedarci
le diciamo dei rumors che circolano tra i
poveracci assiepati nella sede dell’Onu e cioè, per farla breve, che l’indomani
ci sarebbero stati scontri violenti. Lei sorride e liquida le voci così: «Non
abbiamo segnali in questo senso». Il giorno dopo si è scatenato l’inferno.
Il ritorno a Goma
Il nostro tempo a Bunia è finito. Le condizioni di sicurezza sono pessime e
dunque bisogna partire. All’aeroporto dovrebbe esserci l’areo dell’Onu che ci
riporterà a Goma, dopo un passaggio a Kisangani. Arriviamo all’aerostazione e
un uomo della sicurezza dell’Onu ci dice che l’areo non c’è. Un guasto o non so
che. Dunque, chiediamo all’uomo che dobbiamo fare. «State qui e ammirate il
panorama». Sarcasmo, stupidità. Il panorama: la gente che scappa dagli scontri
cercando rifugio in Uganda. Una bella prospettiva. Ma, detto questo, l’uomo
sale sulla sua jeep e tanti saluti. Da lì a poco scopriamo che sta arrivando un
aereo dell’Unione europea, EcoFly, che dà lì tornerà direttamente a Goa, e che
fa servizio umanitario nelle zone di guerra trasportando i cooperanti. I
giornalisti, però, non sono ammessi. Beh, provarci non guasta. Appena arriva,
mostro al funzionario un tesserino che mi identifica come cooperante. Avevo
dimenticato di averlo, ma potrebbe essere la mia salvezza. Lui, forse la
fretta, controlla appena e mi indica il portellone del velivolo.
Torna il silenzio sulla guerra dimenticata dal mondo
Riesco a salire sull’aereo – sono più fortunato dei congolesi – che mi
porta lontano dall’inferno. Un abbraccio frettoloso con le persone conosciute,
non c’è tempo per soffermarsi, ma l’abbraccio è caloroso e avvolgente.
Indimenticabile. Corre il bimotore sulla pista. Decolla, i rumori della guerra
svaniscono. E torna il silenzio su una guerra dimenticata dal mondo. Solo per
onore di cronaca: dopo la nostra partenza da Bunia l’areo dell’Onu è arrivato e
ripartito per Kisangani. Il generale Martinelli, non avendo nostre notizie,
stava lanciando l’allarme: due giornalisti dispersi in Congo. Solo una nostra
telefonata al quartier generale delle Nazioni Unite a Kinshasa fa rientrare
l’allarme.
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