Si stima che entro il 2050 una
persona su 45 sarà un migrante ambientale. Il Centre for research on
the epidemiology of disasters (CRED) nel 2019 ha registrato 396 disastri naturali che
hanno comportato la morte di più di 11mila persone e 24,9 milioni di sfollati:
si tratta del più alto numero mai registrato a partire dal 2012, di tre volte più
alto rispetto a quello riferito a spostamenti causati da conflitti e violenza.
A livello regionale l’Asia è
risultato il continente più colpito da questi eventi estremi con il 40% dei
disastri naturali e il 45% delle morti sul totale registrato, seguita da
Africa, America ed Europa.
Negli ultimi vent’anni il numero
delle inondazioni è più che raddoppiato, passando da 1.389 a 3.254 (40% del
totale dei disastri climatici), mentre l’incidenza delle tempeste è cresciuta
da 1.457 a 2.034 (28%), seguite da terremoti (8%) e temperature estreme (6%).
L’evento più letale del 2019 invece è stato l’ondata di caldo che ha colpito
l’Europa e che ha causato la morte di più di 2500 persone.
Cambiamenti climatici e migrazioni
Il motore delle catastrofi naturali
è senz’altro il cambiamento climatico. Già in un rapporto pubblicato nel 2014
il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) aveva previsto che i rischi associati ad
eventi estremi sarebbero aumentati di pari passo con l’aumento della
temperatura globale riconoscendo anche che l’influenza antropogenica sul clima,
secondo le sempre più numerose evidenze di tipo scientifico, è una delle cause
principali del progressivo riscaldamento che stiamo registrando.
Il cambiamento climatico non è solo
responsabile di eventi estremi ma anche di cambiamenti radicali sul pianeta che
avvengono in maniera lenta e graduale. Come la desertificazione delle terre,
che porta ad un vero e proprio sconvolgimento dell’ecosistema. Questo fenomeno
sta aggravando le condizioni di Paesi già in poverissimi e dipendenti dalle
rese minime che possono essere garantite da un’agricoltura di sussistenza così
come nel caso dei Paesi presenti nella fascia del Sahel, zona più colpita al
mondo dal fenomeno della desertificazione dove siccità permanente, mancanza di
cibo, conflitti che nascono per la diminuzione delle risorse naturali e
migrazioni di massa sono solo alcune delle devastanti conseguenze di questo
fenomeno.
Chi scappa degli effetti dei cambiamenti
climatici non ha protezione
Lo spostamento in alcuni casi è
l’unica via di salvezza per un individuo in cerca di protezione dagli
effetti dei cambiamenti climatici ma è bene
sottolineare che solo una piccolissima fetta di coloro che ‘decidono’ di
emigrare attraversa le frontiere del proprio paese. L’86% delle migrazioni
ambientali infatti riguarda spostamenti a corto raggio: o all’interno del paese
stesso o verso i Paesi vicini, soprattutto Paesi cosiddetti ‘in via di sviluppo’
che ad oggi ospitano l’84% dei migranti ambientali.
Nonostante la portata sempre più
ampia del fenomeno ancora oggi non esiste alcun tipo di accordo internazionale
che fornisca protezione a queste persone. Chi si ritrova al di fuori dei propri
confini nazionali, quindi, viene considerato un migrante ‘irregolare’ e rischia
di subire ulteriori violenze e discriminazioni. I migranti ambientali restano
quindi esclusi da quello che a livello internazionale è ritenuto uno dei
documenti più autorevoli e fondamentali in tema di protezione: la Convenzione
di Ginevra del 1951.
L’art. 1 della Convenzione considera “rifugiato” «qualsiasi persona che, a
causa di un ben fondato timore di essere perseguitata per questioni di razza,
religione o opinioni politiche, si trova all’esterno del paese di cui possiede
la nazionalità e non può, o a motivo di tale timore, non vuole avvalersi della
protezione di quel paese». È evidente che l’inapplicabilità della Convenzione
derivi sia dalla stessa definizione di rifugiato sia dal fatto che ad essere
protetti da suddetta normativa siano soltanto coloro che si ritrovano a far
richiesta di asilo in un altro Stato: il che escluderebbe la maggioranza dei
casi riguardanti spostamenti dovuti a questioni ambientali che, come già
sottolineato, avvengono all’interno dei confini degli Stati di origine.
A partire da quale sia il termine
più appropriato da utilizzare, migrante, rifugiato o sfollato climatico, fino
ad arrivare al tipo di percorso giuridico da intraprendere, una modifica della
Convenzione di Ginevra o un testo ad hoc, le questioni aperte sul
riconoscimento e la tutela dei migranti ambientali rimangono ancora molte.
Di positivo c’è che sul piano
internazionale stiamo assistendo ad un sempre più esplicito riconoscimento del
legame tra il cambiamento climatico e le sue implicazioni a livello sociale. Il
Patto Globale sulle Migrazioni del 2018, ad esempio, ha ribadito la necessità di un impegno
della comunità internazionale per ridurre al minimo i fattori avversi che
costringono le persone a lasciare il proprio paese d’origine, tra cui quelli
che derivano dagli effetti negativi del cambiamento climatico. Nell’Agenda 2030
sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile troviamo invece quello di “adottare misure urgenti per combattere il
cambiamento climatico e il suo impatto”.
Lotte e resistenza
A pagare le conseguenze di un
modello di sviluppo che getta le proprie basi su una logica di dominio e
violenza, sia contro gli umani che la natura, sono le popolazioni più povere e
vulnerabili del mondo, laddove vulnerabili significa tutt’altro che passive al
cambiamento. Oggi, infatti, stiamo assistendo a un incredibile proliferazione
di movimenti locali e transnazionali che si oppongono alla distruzione della
terra e che mirano a ristabilire una sinergia tra l’uomo e la natura. Tra
queste l’incredibile iniziativa della Grande Muraglia Verde, un movimento a guida africana con
l’ambizione di far crescere una fascia di vegetazione di 8.000 km attraverso
l’intera larghezza dell’Africa, fino alle innumerevoli lotte portate avanti
dalle comunità indigene protettrici dell’80% della biodiversità sul nostro
pianeta che da decenni continuano a essere oggetto di violenza fisica,
psicologica e sessuale, nonché di razzismo, esclusione, sgomberi forzati,
espropriazioni illegali. E che troppo spesso pagano con la vita la difesa
dell’ambiente: soltanto nel 2019 sono stati uccisi 212 difensori dell’ambiente,
il che significa una media di più di quattro persone a settimana.
Ingiustizia climatica, da dove ripartire
Sottolineare la natura antropogenica
del cambiamento climatico è senz’altro un punto di partenza ma ciò che bisogna
riconoscere è le responsabilità di uno specifico sistema di produzione e
consumo di tipo capitalista che ha comportato negli anni non solo un
incredibile aumento delle disuguaglianze in termini di ricchezza bensì anche in
termini di costi ambientali: secondo un rapporto di Oxfam e Stockholm Environment l’1% più ricco degli abitanti
del pianeta inquina il doppio del 50% più povero.
Oltre a dover far fronte a quelle
che sono le cause reali e tangibili del cambiamento climatico ecco quindi che
risulta fondamentale affrontare anche un certo tipo di considerazioni di natura
etica che riguardano l’ingiustizia del cambiamento climatico e la necessità di
un cambiamento sistemico.
Affrontare il cambiamento climatico
significa in primo luogo affrontare un certo tipo di sistema di potere razzista
e privilegiato che per decenni ha respirato il mito della supremazia
occidentale sbranando le terre e le risorse del sud del mondo. Questa sarà la
vera premessa di un cambiamento radicale sia nel modo di relazionarci gli uni
agli altri sia nel modo di relazionarci alla natura trasformando la presenza
umana sulla Madre Terra da presenza distruttiva a presenza costruttiva di un
futuro sostenibile per le generazioni che verranno.
Nessun commento:
Posta un commento