Era il 1792 quando il filosofo Thomas Taylor, in risposta
a Una rivendicazione dei diritti delle donne di Mary
Wollstonecraft, rispondeva provocatoriamente che, se si riconoscevano diritti
alle donne, allora si sarebbe dovuto riconoscerli anche agli animali. Pensava
ovviamente di risultare provocatorio, di suscitare sconcerto o ilarità, proprio
come divertito e sconcertato era evidentemente lui davanti all’ipotesi che le
donne potessero aspirare ad essere portatrici di diritti. Ma, suo malgrado, la
sua tesi, ripulita dalle connotazioni connesse alla sua preoccupante visione a
tunnel sulle cose, risulta quanto mai azzeccata: comporta un link, che è
politico, psicologico, esistenziale tra questione femminile e questione
animale, benché lui fosse lontano mille miglia dall’intuirla e riuscisse a
risolverla solo come battuta.
Prescindendo dalla ricostruzione del cammino faticosissimo delle donne in
direzione della parità di genere e di quello solo agli albori degli altri
animali, portato avanti per interposta persona, in difesa almeno della loro
sopravvivenza, è importante riflettere sui modi in cui si estrinseca questa
particolare alleanza interspecifica donne-animali.
Di certo nessun discorso al proposito può essere univoco ed esaustivo, data
l’enorme articolazione dello stato delle cose dovuto all’infinito numero degli
individui implicati. È un dato di fatto, comunque, che spesso sono
state le donne a prendere atto di come le loro battaglie per uscire da una
condizione di sottomissione e dipendenza dal genere maschile andassero di pari
passo con la rivendicazione ante litteram della liberazione animale.
Già dagli anni Trenta del 1800, le attiviste che lottavano contro la schiavitù negli
stati americani diedero vita al primo movimento per i diritti delle donne,
rendendosi conto1 della discriminazione femminile all’interno delle loro stesse
organizzazioni (un pensiero reverente alle ragazze deputate, secoli dopo, a
fare fotocopie per i compagni sessantottini). Non è casuale che molte di quelle
donne fossero vegetariane: semplicemente capivano che la lotta contro le
ingiustizie razziali, di genere, di specie avevano un unico denominatore, il
rifiuto dei rapporti di potere, e in difesa dei nonumani mettevano in atto
l’unica azione immediatamente praticabile, vale a dire la decisione di non
mangiarli. Lo capì Harriett Beecher Stowe, autrice del libro
cult La capanna dello zio Tom (1852), che dopo avere
denunciato con una potenza descrittiva fuori dal comune le ingiustizie
razziali, si dedicò a scrivere per un pubblico femminile, parlando anche di
diritti animali.
La scia lunga di queste lotte unitarie dalla parte dei deboli contro i
dominatori, è andata poi organizzandosi in modo più esplicito arrivando con l’ecofemminismo ad
attiviste che fanno della difesa del mondo animale un tassello imprescindibile
delle loro rivendicazioni. Nel loro pensiero le forme di oppressione su donne,
bambini, animali e ambiente sono connesse, e di conseguenza la lotta contro le
discriminazioni, portata avanti dai movimenti progressisti, deve contemplarle
tutte. Consequenziale, secondo Carol Adams, una delle
rappresentanti più prestigiose di questi movimenti, che le femministe debbano
essere vegetariane.
Non si può ignorare Angela Davis, a partire dagli anni Settanta
attivista dei diritti civili degli afroamericani e delle donne: anche lei, con
la sua scelta vegana, si situa nel filone di chi, dedicando la propria vita
alla lotta contro il razzismo, si è contestualmente mostrato sensibile alla
questione animale, in quanto intimamente collegata alla discriminazione ai
danni delle minoranze umane.
Insomma, non dovrebbe essere possibile parlare di giustizia, equità,
liberazione declinata in tutte le sue forme umane senza includere nel cerchio
delle vittime in cerca di liberazione anche i nonumani, il chè richiede
ovviamente come primo imprescindibile passo l’adesione al veganismo, come forma
di necessaria coerenza. Quindi, come altre delle donne già citate, la Davis
considera parte di un atteggiamento rivoluzionario cogliere il link tra tutte
le forme di oppressione: a stupire non dovrebbe essere questa tesi, ma
piuttosto il suo rifiuto. È singolare che la Davis solo in tempi
recenti abbia reso pubblica la sua scelta vegana, che pure è di antica data: il
silenzio sulla questione, protrattosi per tanti anni, parla forse della sua
consapevolezza che quella che era una evidenza per lei e forse per altre
avanguardie culturali aveva bisogno di tempo per una adeguata elaborazione da
parte della grande massa delle sue seguaci: troppi i luoghi comuni e
troppo impreparato il contesto, tanto da rendere plausibile la possibilità di
inficiare il consenso per le altre fondamentali battaglie in corso, che
evidentemente anche per lei erano prioritarie. A fronte di ciò, l’outing odierno
testimonia la sua percezione che i tempi siano davvero cambiati tanto da
rendere l’accoglimento di posizioni di giustizia inclusive degli altri animali
uno step ineludibile, parte imprescindibile di una diversa visione del mondo.
E non può che stupire che agenzie di pace, come lo è chiesa, partiti
autodefinentisi di sinistra e quindi strutturati su ideali di giustizia,
associazioni ambientaliste tenute a includere gli animali nella natura che
vogliono difendere, e si può continuare con gli psicologi che di benessere si
occupano siano così spesso e tanto colpevolmente estranei a questa
consapevolezza.
La particolare vicinanza delle donne ai nonumani si struttura da sempre anche
su ragioni diverse da quelle fino a qui esaminate.
Insegna molto il fatto che a studiare i primati nella seconda metà del 1900
furono tre donne, attive in periodi in cui il lavoro scientifico femminile era fortemente
svantaggiato rispetto a quello maschile: Dian Fossey, che si dedicò
allo studio dei gorilla nell’Africa centrale, Jane Goodall, che
studiò gli scimpanzé, e Birkute Galdikas, interessata agli oranghi
del Borneo, furono scelte dall’archeologo e naturalista Louis Leakey proprio in
quanto donne, e come tali portatrici di un diverso approccio alla conoscenza
degli animali, caratterizzato da passione e capacità di empatia. Tutte loro
segnarono una distanza abissale rispetto ai colleghi maschi, che gli animali li
osservavano negli zoo e nei laboratori. Nessuna di loro, in netta
contrapposizione con lo spirito dei tempi, si arrogò il diritto di sottomettere
gli animali alle proprie pretese di studio, imprigionandoli in ambienti
estranei alle loro necessità etologiche: furono loro stesse, invece, a
trasferirsi nell’ambiente di vita degli animali che volevano conoscere, e
lo fecero con una dedizione totale, mettendo in gioco la propria stessa vita
(Dian Fossey fu uccisa in Africa nel 1986 proprio a causa del suo
coinvolgimento nella difesa dei gorilla), trattandoli non come oggetti di
studio da manipolare a piacere, ma considerandoli nella complessità delle loro
relazioni. Insomma un approccio assolutamente empatico a fronte
dell’atteggiamento appropriativo maschile.
Ed è proprio di empatia che bisogna parlare nell’esaminare
la relazione donne-altri animali, ricordando in primo luogo quanto prioritaria
sia la presenza femminile in una serie di situazioni “animaliste”: sono
soprattutto donne le volontarie dei canili, quelle che telefonano ai centralini
per denunciare violenze contro gli animali; sono soprattutto donne le gattare e
le persone vegane.
Alla base di questa predominanza di genere a giocare un ruolo fondamentale
è appunto la capacità di immedesimarsi nell’altro in una sorta
di identificazione che permette di percepire, di vivere sulla propria pelle le
sue emozioni. E identificarsi con l’altro significa anche soffrire la sua
sofferenza e, anche se non sempre, mobilitarsi per andare in suo soccorso. È
fuori discussione, non solo in base all’osservazione, ma anche ai risultati di
ricerche fatte, che l’empatia è non soltanto, ma soprattutto femminile: le
ragioni sono complesse e probabilmente, a livello evolutivo, connesse alla
necessità empatica nel rapporto con i bambini/e nelle prime fasi della vita,
quando è indispensabile capire le loro necessità in assenza di una
comunicazione verbale. Ora, l’empatia, quando riesce ad aggirare la presenza di
tanti meccanismi di difesa che remano in direzione contraria, va oltre i
confini di specie e guida anche la relazione con gli altri animali.
Ne è chiaro il ruolo nel mondo delle gattare (il termine “gattari” non è ad
oggi divenuto di uso comune!), di quelle persone cioè che si occupano di gatti
randagi, procurando loro cibo e acqua e cercando di metterli al sicuro dai
frequenti maltrattamenti a cui sono esposti. Tradizionalmente lo fanno a prezzo
di un sacrificio personale tutt’altro che trascurabile, trasformando il proprio
coinvolgimento emotivo in dovere quotidiano, indifferenti alle condizioni del
tempo o al proprio stato di salute. Lo fanno in assenza di aspettative di
riconoscenza e di intenti appropriativi, attente come sono a rispettare e
salvaguardare le abitudini e la libertà di questi animali, (proprio come fecero
le primatologhe sopra ricordate): si limitano a percepire il bisogno di aiuto
che proviene da esseri indifesi e a darvi risposta. La loro rappresentazione
non ha mai goduto neppure di quella considerazione sociale che sarebbe doverosa
risposta a tanto impegno. Al contrario l’immagine della gattara è
sempre stata stigmatizzata e svalutata da parte degli uomini, che ne hanno
messo in risalto difetti e presunte manchevolezze, ne hanno ridicolizzato
l’aspetto inevitabilmente trasandato visto il loro darsi da fare con i gatti.
Ne viene oscurata l’ottemperanza alla legge non scritta della pietà, che induce
a doveri ben più alti di quelli sanciti dagli uomini.
Nella tensione ad occuparsi di animali in stato di bisogno si estrinseca la
cultura del prendersi cura senza aspettative di ricompense: e oggetti di questa
cura possono essere tutti i deboli, bambini, malati, anziani o appunto altri
animali in quanto fragili, vulnerabili, spesso del tutto indifesi. È
sufficiente un’occhiata a quello che succede nelle nostre case (con grande
amplificazione in tempi di covid) per verificare come si tratti di attività che
vedono percentuali bulgare nella predominanza femminile. E quello del prendersi
cura non è un comportamento che semplicemente si affianca ad altri: facilmente
diventa esclusivo in quanto in grado di mangiare le risorse, di toglierle a
molte altre attività, che sono invece tese all’autoaffermazione, e che vedono
rimaterializzarsi la presenza maschile, tanto amante di quel potere che per
affermarsi necessita di aggressività e assertività.
La più scarsa adesione degli uomini rispetto alle donne al vegetarismo e al
veganismo è ovvia conseguenza al disinteresse per la questione animale, ma
trova anche ampia giustificazione nel luogo comune secondo cui i cibi
vegetariani sarebbero “da donna”, nel senso di anemici, non vigorosi, inadatti
alla loro virilità. Esiste e sopravvive, infatti, la
profonda convinzione, in gran parte inconscia, che gli alimenti abbiano una
forte connotazione sessista: ci sono quelli da uomini e ci sono quelli da donna.
La carne, soprattutto quella rossa, resta alimento icona dell’uomo macho,
metafora di virilità, nella misura in cui, con il suo stesso aspetto, richiama
immagini da uomo primitivo, da cavernicolo che se la andava a procurare di
persona, clava in mano. L’uomo moderno, anche se la carne la conquista al
massimo dagli scaffali del supermercato per metterla nel carrello della spesa,
resta ostinatamente affezionato al valore simbolico della faccenda, sostenuto
anche dalla diffusa convinzione che si è ciò che si mangia, quindi chissà mai
che miracolosamente riaffiori quel machismo che un po’ traballa sotto i colpi
di dopobarba profumati, gel per capelli e creme per il corpo dall’attrazione
fatale. Tant’è: gli uomini spesso tendono a mantenere distanze di sicurezza dal
mondo dei cibi leggeri, delle donne, quelle che, secondo la svilente
rappresentazione maschile, nutrendosi di verdure e alghe, rafforzano
un’identità di genere fondata sulla debolezza.
Is meat male? È maschile la carne? È il titolo di una ricerca pubblicata nel 2012
sul Journal of Consumer Research, autore Paul Rozin, professore di psicologia
della Università di Pennsylvania. Risposta positiva, a quanto pare: oltre alla
ricerca, lo conferma una statistica molto più casereccia sulle abitudini
osservabili in giro. Inutilmente ci si interroga come sia possibile che non
lasci tracce di pensiero l’informazione che vegani sono i maggiori campioni
sportivi di ogni disciplina: a cominciare da quel Carl Lewis,
“figlio del vento”, indiscussa leggenda con le sue dieci medaglie olimpiche
oltre alle altre, che nel 1990 diventa vegano, per motivi etici e religiosi,
nel bel mezzo della sua attività sportiva e dichiara “Ho scoperto che un atleta
non ha bisogno di proteine animali per essere un atleta di successo. Infatti il
mio migliore anno nelle competizioni di atletica leggera è stato quando mi sono
convertito al veganismo”. Per continuare con le sorelle Williams, Venus
e Serena, l’una vegana su indicazione del medico, l’altra per condivisione
solidale, secondo quanto riportato dai media: di loro, sulla cui potenza fisica
avrebbero molto da dire le tenniste che hanno avuto la (mala)sorte di doverle
fronteggiare, tutto si può dire tranne che richiamino, nell’aspetto e nella
forza dirompente, sofferte privazioni alimentari. Un grande testimonial è Mirco
Bergamasco, statuario e imponente, il quale di mestiere gioca a rugby, che
notoriamente, per dirla con Nanni Moretti, non è uno sport per signorine:
appunto, lui è vegano. È poi, o anzi prima di tutti, c’è il grandissimo Luis
Hamilton, 7 titoli mondiali al suo attivo e, giova ricordarlo, grande
testimonial dell’opposizione a tante delle odierne ingiustizie, a partire da
quelle razziali. Solo per citare. E per concludere con la dichiarazione
di Dave Scott, considerato il più grande triatleta del mondo, che
definisce “un errore ridicolo” pensare che gli atleti abbiano bisogno di
proteine animali.
Niente da fare: i bias di conferma, vale a dire gli errori cognitivi che
portano a filtrare solo quegli aspetti della realtà in sintonia con le nostre
convinzioni ignorando quelle che le smentiscono, sono sempre all’opera.
Un’altra ricerca illuminante (Mente&Cervello, n. 104) dice che il
veganismo è sostenuto soprattutto da 1) donne, 2) che vivono in contesti urbani
e 3) che hanno un grado di cultura medio alto. Facile capirne le ragioni. Si è
immersi in una cultura che fa della sudditanza dei nonumani la cifra della
nostra esistenza e del mangiarli la normalità. Per sottoporre a un’analisi
critica il pensiero dominante è necessario poter disporre di mezzi culturali
adeguati, e la vita nelle città è certamente più attiva e stimolante, più
facile brodo di cultura di movimenti innovativi. Si aggiunge il fatto che, a
quanto pare, è molto meglio essere donne: vale a dire disporre di una forma di
intelligenza sintetica, intuitiva, induttiva, a fronte di quella più analitica,
logica, deduttiva degli uomini; soprattutto di un’intelligenza arricchita e
vivificata dalla presenza delle emozioni.
La breve analisi condotta è indirizzata alla necessità di prendere atto
dello stato delle cose, di individuarne la genesi complessa peri mettere a
fuoco le strade da seguire. Prescindendo dalla situazione che vede sempre più
sfumarsi la dicotomia sessuale, il riferimento non è mai ad una
frattura netta al mondo maschile da quello femminile, ma sempre a maggiori
disposizioni, a dei “soprattutto”, che contengono in sé la possibilità di cambiamenti
da governare: esistono uomini il cui impegno è forte in favore di tutti i
deboli e gli svantaggiati e vi sono, purtroppo, donne che pur senza esporsi in
prima persona ad atti violenti, mantengono un ruolo non meno colpevole di
sostenitrici o fiancheggiatrici di tante brutture. E non sempre i cambiamenti
in atto sono rassicuranti perché vedono le donne a volte inseguire i non
invidiabili primati dei loro compagni nelle cronache di omicidi o crudeli
attacchi fisici contro persone deboli, le vedono sgomitare per svolgere il
servizio militare, mentre qualcuna è già entrata nell’arena a massacrare con
entusiasmo tori braccati e indifesi, e altre esibiscono orgogliosa
soddisfazione nelle foto che le ritraggono in tenuta da cacciatrici con il
piede sopra l’ultima vittima uccisa.
Il cammino dell’emancipazione femminile deve governare il rischio
dell’uniformazione a quello maschile magari per compensare atavici
sensi di inferiorità: non è certo questa la strada da percorrere, perché invece
le trasformazioni si impongono. Da millenni la divisione di genere è
stata il criterio principale per determinare l’esistenza delle persone, con gli
uomini al potere e le donne in posizione di sudditanza, esattamente come lo
specismo è stato il criterio per definire il posto di umani e nonumani nel
mondo. La strada verso il superamento del sessismo deve coincidere con la lotta
a tutte le forme di sudditanza e prevaricazione e non può non essere condotta
contestualmente alla lotta per la liberazione animale: la consapevolezza
conta su contributi di altissimo livello, ma di certo ancora assolutamente
insufficienti. Il giorno in cui i festeggiamenti per un nuovo diritto
riconosciuto non contemplassero che a pagarne l’ingiusto prezzo fossero vittime
animali sulle tavole festose il segnale che questo principio sarà entrato in
una consapevolezza più diffusa sarà più tangibile.
Il tempo giusto è oggi: per ogni animale, “dopo” sarebbe troppo tardi.
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