lunedì 29 marzo 2021

Il capitalismo non si è fermato qui! Espropriazione e brutalità in tempi di pandemia. Cos'ha da dirci l'Amazzonia?

di Bruno Cezar Malheiro, Fernando Michelotti, Thiago Alan Guedes Sabino


Questo studio è una doccia fredda sulle speranze di chi, all'inizio della pandemia, aveva vaticinato l'avvento della fine del capitalismo.
Dimostra come la dinamica dell'accumulazione in Brasile, lungi dall'essere stata paralizzata dalla pandemia, è diventata ancora più brutale a causa dell'accelerazione dei processi di espansione delle merci. Infatti, negli stessi mesi in cui crescevano i contagi, assieme ai prezzi dei beni di prima necessità e alla fame dei brasiliani, crescevano al contempo anche le esportazioni di materie prime alimentari sul mercato mondiale, i profitti dell'agribusiness, i processi di deforestazione e la violenza in Amazzonia, con un ritmo più intenso rispetto ai periodi precedenti. Si va ad approfondire, in questo modo, il processo di reprimarizzazione dell'economia brasiliana, intesa come regressione da un'economia basata sulla produzione manifatturiera e di tecnologie di punta ad un assetto dove torna a prevalere l'estrazione di materie prime per l'esportazione. Un processo già iniziato ai tempi delle presidenze Lula e Rousseff, ma che con Bolsonaro tende a superare violentemente ogni limite normativo, sociale e naturale.
Gli autori, ricercatori della Universidade Federal do Sul e Sudeste do Parà, danno una misura di questi fenomeni incrociando i dati sulle esportazioni, sulle superfici coltivate, sulla fame, sulla deforestazione e gli incendi.
Concludono con l'analisi della correlazione fra l'estendersi dei contagi e le attività d'esplorazione mineraria dell'impresa Vale S.A. nella provincia di Carajás.

 

Proponiamo qui la traduzione di alcuni paragrafi:


Il Brasile della fame trascura il cibo e abbraccia le merci

L'attacco sistematico dell'attuale governo ai piccoli agricoltori e, in generale, alle popolazioni rurali ha consolidato la scelta politica di smantellare la produzione di alimenti a favore della produzione di merci.

Si tratta di un attacco operato sia attraverso lo smantellamento di leggi, codici e strumenti di protezione ambientale, che tramite una narrativa criminalizzante e un'offensiva contro gli organismi di controllo dell'ambiente, della riforma agraria e della politica indigenista.
Questa scelta, che non è di oggi, e che ha determinato una crescita sostanziale della superficie coltivata a soia e mais in Brasile tra il 1999 e il 2018 - mentre la superficie coltivata a riso, fagioli e manioca è diminuita drasticamente nello stesso periodo  - si è radicalizzata attraverso la deregulation totale del controllo del mercato e la concentrazione monopolistica della produzione e della distribuzione alimentare che, logicamente, già produce fame su larga scala.
L'effetto della pandemia ha già determinato nel Paese un aumento notevole del prezzo del paniere alimentare di base, come dimostra un'indagine condotta da Dieese [Departamento Intersindical de Estatística e Estudos Socioeconomicos] in 17 capitali, che rileva come in 16 fra queste, fra marzo e aprile, vi sia stato un aumento del prezzo dell'insieme degli alimenti basilari.
Secondo l'economista Daniel Balaban, capo dell'ufficio brasiliano del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, la fame, che già da prima della pandemia era una realtà per circa cinque milioni di brasiliani, dovrebbe raggiungere i 14,7 milioni entro la fine del 2020. Si tratta di circa il 7% della popolazione, dato che riporta il paese sulla mappa della fame, da dove era uscito dal 2014.

Ed è proprio in questo momento, di accelerazione dei decessi per coronavirus e di crescita della piaga della fame nel Paese, che le nostre dinamiche della produzione agraria hanno approfondito il percorso univoco verso la produzione di commodities a scapito della produzione di cibi sani. Questa scelta che, come abbiamo avvertito in precedenza, attraversa l'intero panorama politico da sinistra a destra, si è rafforzata dall'inizio del 21° secolo in Brasile e nel resto dell'America Latina.
È quello che Maristella Svampa (2013) ha chiamato "consenso delle commodities", ma che può anche essere definito come "un regime di relazioni sociali che fagocita le energie vitali come mezzo per l'accumulazione presumibilmente infinita di valore astratto" (Machado Aráoz, 2016).
I dati sulle esportazioni brasiliane sono eloquenti, mostrano il processo di reprimarizzazione delle esportazioni brasiliane a partire dagli anni 2000, con le materie prime che superano i prodotti della manifattura nel 2009. Da allora le materie prime hanno mantenuto un maggior peso relativo nell'agenda delle esportazioni, con una leggera flessione tra il 2015 e il 2016, quando, al primo segnale di incertezza dell'assetto economico che aveva sostenuto i profitti, le forze conservatrici si sono riorganizzate attorno al colpo di stato.

L'export di prodotti primari ha ricominciato a crescere nel 2016, ha raggiunto oltre il 50% del totale delle esportazioni nel 2019, superando così l'insieme delle esportazioni dei prodotti della manifattura e dei semilavorati, per un totale assoluto di 119 miliardi di US $.

Questo processo è stato fortemente segnato dalle esportazioni di prodotti primari verso la Cina, balzate da 0,4 miliardi di dollari nel 1999 a 56,4 miliardi di dollari nel 2019, valori che rappresentano un aumento dal 3,6% al 47,4% del quota proporzionale del mercato cinese sulle esportazioni totali di prodotti di base in Brasile.

Quando siamo arrivati al 2020, nel contesto della pandemia, ci siamo resi conto che, nonostante i limiti imposti ai flussi a causa della diffusione del virus nel mondo, le esportazioni verso la Cina continuavano a crescere. Tra gennaio e aprile 2020 il valore delle esportazioni verso il paese asiatico ha raggiunto i 20,8 miliardi di dollari USA, un valore superiore ai 18,7 miliardi registrati tra gennaio e aprile 2019…

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