di Bruno Cezar Malheiro, Fernando Michelotti, Thiago Alan Guedes Sabino
Questo
studio è una doccia fredda sulle speranze di chi, all'inizio della pandemia,
aveva vaticinato l'avvento della fine del capitalismo.
Dimostra come la dinamica dell'accumulazione in Brasile, lungi dall'essere
stata paralizzata dalla pandemia, è diventata ancora più brutale a causa
dell'accelerazione dei processi di espansione delle merci. Infatti, negli
stessi mesi in cui crescevano i contagi, assieme ai prezzi dei beni di prima
necessità e alla fame dei brasiliani, crescevano al contempo anche le
esportazioni di materie prime alimentari sul mercato mondiale, i profitti
dell'agribusiness, i processi di deforestazione e la violenza in Amazzonia, con
un ritmo più intenso rispetto ai periodi precedenti. Si va ad approfondire, in
questo modo, il processo di reprimarizzazione dell'economia brasiliana, intesa
come regressione da un'economia basata sulla produzione manifatturiera e di
tecnologie di punta ad un assetto dove torna a prevalere l'estrazione di
materie prime per l'esportazione. Un processo già iniziato ai tempi delle
presidenze Lula e Rousseff, ma che con Bolsonaro tende a superare
violentemente ogni limite normativo, sociale e naturale.
Gli autori, ricercatori della Universidade Federal do Sul e Sudeste do Parà,
danno una misura di questi fenomeni incrociando i dati sulle esportazioni,
sulle superfici coltivate, sulla fame, sulla deforestazione e gli incendi.
Concludono con l'analisi della correlazione fra l'estendersi dei contagi e le
attività d'esplorazione mineraria dell'impresa Vale S.A. nella provincia di
Carajás.
Proponiamo
qui la traduzione di alcuni paragrafi:
Il Brasile della fame trascura il cibo e abbraccia le merci
L'attacco
sistematico dell'attuale governo ai piccoli agricoltori e, in generale, alle
popolazioni rurali ha consolidato la scelta politica di smantellare la
produzione di alimenti a favore della produzione di merci.
Si tratta di un
attacco operato sia attraverso lo smantellamento di leggi, codici e strumenti
di protezione ambientale, che tramite una narrativa criminalizzante e
un'offensiva contro gli organismi di controllo dell'ambiente, della riforma
agraria e della politica indigenista.
Questa scelta, che non è di oggi, e che ha determinato una crescita sostanziale
della superficie coltivata a soia e mais in Brasile tra il 1999 e il 2018 -
mentre la superficie coltivata a riso, fagioli e manioca è diminuita
drasticamente nello stesso periodo - si è radicalizzata attraverso
la deregulation totale del controllo del mercato e la concentrazione
monopolistica della produzione e della distribuzione alimentare che,
logicamente, già produce fame su larga scala.
L'effetto della pandemia ha già determinato nel Paese un aumento notevole del
prezzo del paniere alimentare di base, come dimostra un'indagine condotta da
Dieese [Departamento Intersindical de Estatística e Estudos Socioeconomicos] in
17 capitali, che rileva come in 16 fra queste, fra marzo e aprile, vi sia stato
un aumento del prezzo dell'insieme degli alimenti basilari.
Secondo l'economista Daniel Balaban, capo dell'ufficio brasiliano del Programma
alimentare mondiale delle Nazioni Unite, la fame, che già da prima della
pandemia era una realtà per circa cinque milioni di brasiliani, dovrebbe
raggiungere i 14,7 milioni entro la fine del 2020. Si tratta di circa il 7%
della popolazione, dato che riporta il paese sulla mappa della fame, da dove era
uscito dal 2014.
Ed è proprio in
questo momento, di accelerazione dei decessi per coronavirus e di crescita
della piaga della fame nel Paese, che le nostre dinamiche della produzione
agraria hanno approfondito il percorso univoco verso la produzione di commodities
a scapito della produzione di cibi sani. Questa scelta che, come abbiamo
avvertito in precedenza, attraversa l'intero panorama politico da sinistra a
destra, si è rafforzata dall'inizio del 21° secolo in Brasile e nel resto
dell'America Latina.
È quello che Maristella Svampa (2013) ha chiamato "consenso delle
commodities", ma che può anche essere definito come "un regime di
relazioni sociali che fagocita le energie vitali come mezzo per l'accumulazione
presumibilmente infinita di valore astratto" (Machado Aráoz, 2016).
I dati sulle esportazioni brasiliane sono eloquenti, mostrano il processo di
reprimarizzazione delle esportazioni brasiliane a partire dagli anni 2000, con
le materie prime che superano i prodotti della manifattura nel 2009. Da allora
le materie prime hanno mantenuto un maggior peso relativo nell'agenda delle
esportazioni, con una leggera flessione tra il 2015 e il 2016, quando, al primo
segnale di incertezza dell'assetto economico che aveva sostenuto i profitti, le
forze conservatrici si sono riorganizzate attorno al colpo di stato.
L'export di
prodotti primari ha ricominciato a crescere nel 2016, ha raggiunto oltre il 50%
del totale delle esportazioni nel 2019, superando così l'insieme delle
esportazioni dei prodotti della manifattura e dei semilavorati, per un totale
assoluto di 119 miliardi di US $.
Questo processo è
stato fortemente segnato dalle esportazioni di prodotti primari verso la Cina,
balzate da 0,4 miliardi di dollari nel 1999 a 56,4 miliardi di dollari nel
2019, valori che rappresentano un aumento dal 3,6% al 47,4% del quota
proporzionale del mercato cinese sulle esportazioni totali di prodotti di base
in Brasile.
Quando siamo
arrivati al 2020, nel contesto della pandemia, ci siamo resi conto che,
nonostante i limiti imposti ai flussi a causa della diffusione del virus nel
mondo, le esportazioni verso la Cina continuavano a crescere. Tra gennaio e
aprile 2020 il valore delle esportazioni verso il paese asiatico ha raggiunto i
20,8 miliardi di dollari USA, un valore superiore ai 18,7 miliardi registrati
tra gennaio e aprile 2019…
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