L’edizione 2021 di “Banking on Climate Chaos” rivela che, da quando nel 2016 è entrato in vigore l’Accordo di Parigi sul clima e fino al 2020, le principali banche mondiali hanno concesso al comparto dei combustibili fossili prestiti per ben 3.800 miliardi di dollari.
Il rapporto, a cura di Rainforest Action Network, Banktrack, Indigenous
Environmental Network, Oil Change International, Reclaim Finance e Sierra Club,
è stato lanciato oggi ed è disponibile su bankingonclimatechaos.org.
Cattive notizie sul fronte italiano. Intesa Sanpaolo e UniCredit, le due
principali istituzioni finanziarie italiane, sono molto attive nell’alimentare
la crisi climatica in corso attraverso il loro ostinato supporto all’industria
fossile, responsabile di disuguaglianze sociali, violazioni dei diritti umani,
migrazioni forzate e dell’aggravarsi della salute dell’ambiente e delle
persone.
Intesa Sanpaolo, tra le prime 30 banche mondiali per asset totali e
“banca di sistema” italiana, fra il 2016 e il 2020 ha stanziato 13,7 miliardi
di dollari all’industria fossile, la maggioranza dei quali a società che stanno
espandendo il loro business nel comparto oil&gas come Eni,
Exxon, Novatek, Equinor, Cheniere Energy e Kinder Morgan. Attraverso le loro
attività esplorative, di produzione o midstream, queste
aziende stanno devastando ecosistemi già fragili che, per il rovescio della
medaglia, se intaccati ulteriormente potrebbero alimentare a loro volta la
crisi climatica in corso.
È il caso, per esempio, dei progetti di Eni ed Equinor nel Mare di Barents,
all’interno del Circolo polare artico, e di quelli di Novatek nella Penisola di
Gydan, nell’Artico russo, che rischiano di causare fuoriuscite di petrolio e
metano, nonché di accelerare il sempre più rapido scongelamento del permafrost
sulla terraferma.
L’esposizione di Intesa desta particolare preoccupazione per due ragioni.
Innanzitutto per una debole strategia di lungo-termine per allinearsi con
l’Accordo di Parigi sul clima, mancante della pubblicazione delle emissioni di
CO2 associate ai suoi finanziamenti. In seconda battuta, per
l’assenza di impegni concreti relativi al settore oil&gas:
«L’adozione di policy non può essere sostituita da vaghi
discorsi relativi a un’esposizione net-zero», commenta Simone Ogno
di Re:Common, «nell’anno della CoP-26 e del G20 italiano, Intesa deve porre
rimedio alla sua debole policy sul carbone e adottarne una
robusta anche su petrolio e gas, se vuole dimostrare che quelle su clima e
ambiente non sono false promesse».
UniCredit non può invece più nascondersi dietro gli impegni presi sul settore
del carbone, riconosciuti a livello internazionale come tra i più
all’avanguardia in ambito finanziario. Azzerare al 2028 la sua esposizione al
più inquinante dei combustibili fossili è sicuramente un primo passo, ma serve
a poco se a fare da contraltare ci sono 8 miliardi di dollari accordati a
società che espandono il loro business fossile, su cui spiccano Total, Repsol e
nuovamente Eni.
Proprio Total è emblematica delle scarse ambizioni della banca di Piazza
Gae Aulenti in materia di petrolio e gas, che ha una policy deficitaria
soprattutto in riferimento al midstream, senza trascurare
esplorazione e produzione nelle regioni artiche, escludendo operazioni offshore ma
non quelle onshore. I progetti di Total nell’Artico russo – in
partenariato con Novatek – si trovano proprio sulla terraferma.
A livello globale, le prime quattro posizioni sono occupate da banche
statunitensi: JPMorgan, Citi, Wells Fargo e Bank of America. Con un totale di
317 miliardi di dollari, JP Morgan guarda dall’alto tutte le altre istituzioni
finanziarie, insediata solo recentemente da Citi.
Articolo pubblicato grazie alla collaborazione con Re:Common
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