L’antidoto a un esecutivo chiuso nelle sue stanze, con portatori di interesse ed esperti dei soliti affari e con scarsa attenzione alla dura realtà dei cambiamenti climatici?
Quelle minacce che, solo a volercisi adattare con soluzioni di mercato,
costerebbero al mondo tra 130 e 300 miliardi di dollari l’anno
fino al 2030, e tra 280 e 500 miliardi fino al 2050, mentre a novembre 2020 il Green Climate Fund istituito
per sostenere l’Accordo di Parigi ne ha approvati 7,2 e davvero
sborsati 1,4?
Non basta un Recovery Plan, pur a volerlo fare bene:
serve un Recovery Planet. Una strategia complessiva che
cambi il modo in cui produciamo, coltiviamo, distribuiamo, ci nutriamo, ci
finanziamo, lavoriamo e affrontiamo la prospettiva digitale, operando scelte
nette a partire da un cambio di paradigma complessivo che metta la pratica
ecofemminista della cura al centro del sistema al posto del profitto.
Recovery Planet è il risultato del lavoro di oltre mille mani che
per cinque settimane si sono incontrate regolarmente in modo virtuale pescando
competenze e pensieri tra oltre 1400 tra realtà organizzate e persone che
si riconoscono nel processo di convergenza verso una Società della Cura.
La Società della Cura nasce in un
pomeriggio di mezza estate, quando a Roma, nella distopica cornice di Villa
Pamphilj, l’ex premier italiano Giuseppe Conte accoglie
alcune realtà della società civile e sindacali per provare a mitigare
l’effetto-choc provocato dalla lettura del Piano Colao che
indicava per l’uscita del Paese dalla crisi post-Covid le
stesse scelte mercatiste che ci avevano portato alla crisi sociale e
ambientale, insieme alla stagnazione economica, ben prima dello scoppio della
pandemia.
Nasce così un appello spontaneo a radunarsi fuori dalla
cornice dorata, in un pic-nic, per ragionare insieme su quale dovesse essere,
invece, una cornice di senso e un piano d’azione innovativo che consentisse
all’Italia, ma non solo, di non sprecare le lezioni della pandemia, affrontare
il collasso climatico e l’ingiustizia sociale per costruire la
società della cura di sé, degli altri, del pianeta.
Da quel centinaio tra persone e realtà nasce un percorso di
confronto che, dopo meno di un anno di lavoro insieme e due
mobilitazioni – il 21 novembre e il 22 dicembre – con azioni
simboliche da Aosta a Catania, che hanno lanciato un Manifesto comune e
un “Dono” per reindirizzare 175 miliardi dell’ultima Legge di
bilancio verso un cambiamento radicale di direzione delle politiche locali e
nazionali per non lasciare nessun@ indietro.
Il 10 aprile torneremo a mobilitarci per presentare a
istituzioni e territori il nostro Recovery Planet: un Piano nazionale di
transizione verso la società della cura, la nostra alternativa al Piano
Nazionale di Ripresa e Resilienza del governo, elaborato con un metodo partecipato
da centinaia di persone organizzate in 13 tavoli tematici. Il documento si apre con una
lettura critica femminista delle iniziative da intraprendere, e si accompagna a
un testo più di dettaglio prodotto dal tavolo tematico “Ecologia e ambiente” cui hanno lavorato attivist@
dei Fridays for future, dei movimenti per l’acqua pubblica, No
Tav, No Triv, dell’associazione Laudato Sì e di molti altri
comitati e realtà ambientaliste, contadine e animaliste.
Il superamento del modello di economia lineare verso una circolarità
multidimensionale dell’organizzazione dei mercati è uno dei pilastri
della vera transizione, ma da solo non basta, perché per contenere all’origine
i virus patogeni la cui diffusione è accelerata dalla degradazione
dell’ambiente che abbiamo provocato, bisogna ispirare ogni intervento
alla cura del patrimonio naturale, alla rigenerazione dei servizi
ecosistemici che sorreggono la rete della vita e tra i viventi.
È in questa chiave che si integrano con coerenza l’esigenza di ripubblicizzare
i servizi pubblici locali a partire dall’acqua, a dieci anni dal
referendum popolare che lo ha chiesto, riscrivere la Strategia nazionale
della biodiversità, il Piano nazionale integrato per energia e clima, la
Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile tagliando le emissioni
almeno del 7,6% l’anno come chiedono le Nazioni Unite, abolendo i sussidi
ambientalmente dannosi ma introducendo anche tassazioni penalizzanti
dei prodotti più inquinanti che gravino sui profitti degli azionisti.
Più importante, però, è colmare il deficit democratico e di
partecipazione alle scelte strategiche del Paese che si va
approfondendo, prevedendo un percorso per l’inserimento in Costituzione
della salvaguardia dei diritti della natura e del vivente svelatisi
con la pandemia così deboli ma determinanti per la nostra stessa sopravvivenza.
Non sono solo pagine o critiche, la difesa di un diritto o di un bene comune,
ma la sfida per un’alternativa di società, che contrapponga il prendersi
cura alla predazione, la cooperazione solidale alla solitudine
competitiva, il “noi” dell’eguaglianza e delle differenze all’“io” del
dominio e dell’omologazione.
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