È stato da poco pubblicato un ponderoso rapporto, The Economics of Biodiversity, che il Cancelliere dello
Scacchiere del Regno Unito, vale a dire il ministero delle finanze del governo
inglese, commissionò due anni fa al prestigioso professor Partha
Sarathi Dasgupta, economista indiano, del St John’s College
dell’università di Cambridge, sui
costi economici e i rischi della perdita di biodiversità, nonché sulle misure
da mettere in atto per tentare di evitarli. Si tratta di un documento
importante, specie in preparazione dell’appuntamento di settembre della
Conferenza Onu sulla biodiversità a New York, frutto di una rassegna
transdisciplinare che mette assieme la letteratura scientifica in vari campi
delle conoscenze biogeofisiche, economiche e sociali, con un ricco apparato di
casi studio locali.
Il raffronto più immediato che viene alla mente è con i rapporti del Club
di Roma sui limiti che la crescita economica permanente avrebbe presto o tardi
incontrato scontrandosi con una biosfera dai confini definiti. O con l’altrettanto famoso
rapporto della commissione sull’ambiente dell’Onu coordinata da Gro Harlem
Brundtland, Il futuro di noi tutti, del 1987, che inventò il
sintagma di successo “sviluppo sostenibile”, poi variamente interpretato e
degradato fino a prendere il significato di “crescita rigenerativa”
implementata dai nuovi driver Green Economy, Smart Economy, Circular Economy,
ecc. Ovvero, nuovi modelli di business, piuttosto che nuovi paradigmi di
civiltà.
Oggi conosciamo con precisione i drammatici contorni del disastro di un
sistema economico, sociale, istituzionale e culturale che non ha saputo fare i
conti (impatti, esternalità, perturbazioni) con la fisiologia della biosfera. Da anni chi governa il mondo cerca
di trovare la quadra tra economia ed ecologia. Si cercano di “integrare” – come
affermano l’Agenda 2030 dell’Onu e il Green Deal europeo – le ragioni
dell’ambiente con quelle della prosperità delle popolazioni, sempre misurata in
valori monetari. Ma da cinquant’anni di politiche e negoziati internazionali
sul clima, sulle foreste, sugli oceani e sulla biodiversità si registrano più
fallimenti che successi. Lo certifica il Dasgupta Review, precisando che non si
tratta solo del risultato dell’«inefficacia allocativa nell’uso delle risorse»
del sistema economico di mercato, ma di un «fallimento collettivo globale nel
raggiungere la sostenibilità». Evidentemente, vi è qualche cosa di più profondo
che non funziona nella natura umana che andrebbe indagato.
I confini
planetari
Partiamo
quindi dalle conclusioni del lavoro di Partha Sarathi Dasguptan, dando
per acquisita la incredibile mole di evidenze scientifiche a disposizione sulla
rottura dei processi vitali naturali che mettono a rischio la vita nostra e dei
nostri discendenti. La pandemia, infatti, avrebbe dovuto porre la parola
definitiva su come il macrorganismo vivente, la biosfera, la Terra, può reagire
– immunizzarsi – a fronte dell’invadenza delle attività antropiche. Non c’è solo il surriscaldamento
dell’atmosfera. I “confini
planetari” – per dirla con le ricerche di Rockström, allegate alla
Revew – sono stati superati in più
punti. Basti pensare che gli esseri umani con i loro animali di allevamento
costituiscono il 96% della massa di tutti i mammiferi. «Solo il 4% è tutto il
resto: dagli elefanti ai tassi, dalle alci alle scimmie». Su 8 milioni di
specie animali e vegetali note, un milione è a rischio di estinzione. È stata
chiamala La sesta estinzione di massa (Richard
Leakey, Roger Lewin, Bollati Boringhieri, 1995) o biocidio, ma le cose non
cambiano. La preservazione della fertilità del suolo, la protezione della aree
naturali, il rewilding (rinselvaticamento) dei terreni
degradati, il “leave it in the ground” (rinunciare all’estrazione delle
risorse minerarie), fino ai grandi progetti di rinaturalizzazione come The
Great Wall (la fantastica muraglia verde sub-sahariana da tempo progettata, ma
priva di finanziamenti) non sembrano rientrare nelle politiche di investimento
delle grandi potenze economiche, nemmeno in epoca di retorica Green New Deal.
La Dasgupta
Review, dopo aver speso centinaia di pagine per invitare i governi a
ricongiungere l’economia all’ecologia, indicando specifiche metodologie da
seguire, conclude che «la biodiversità non ha solo un valore strumentale
[fornire beni e servizi ai processi trasformativi economici], ha anche un
valore intrinseco – forse morale. Ogni sensibilità umana si arricchisce quando
riconosciamo di essere incorporati nella natura. Separare la natura dal
ragionamento economico implica che consideriamo noi stessi esterni alla natura.
La colpa non è dell’economia; sta nel modo in cui abbiamo scelto di
praticarla». Come dire: «la natura è più di un semplice bene economico», c’è
una dimensione imprescindibile spirituale, oltre che biologica, che va
riscoperta: «l’attaccamento emotivo, lo stupore e la meraviglia per il mondo
naturale». Nel mondo
contemporaneo, invece, sembra quasi che: «L’ipotesi di fondo è che l’umanità
sarà in grado, a lungo termine, di liberarsi dalla biosfera». Una distopia
trans e post umana che va molto di moda e che guarda con entusiastico spreco
alla colonizzazione di Marte, così come alla geoingegneria di moderni
doctor Frankenstein impegnati a imbiancare le nuvole per filtrare i raggi
solari, fertilizzare gli oceani per imprigionare la CO2, catturare e iniettare
nel sottosuolo l’anidride carbonica. Qualsiasi cosa pur di non mettere in
discussione consumi, comportamenti e gli stili di vita progrediti, nel senso di
“affluenti” nella società opulneta.
Ma non è di
questo che si occupa il lavoro del prof. Dasgupta, per consapevole scelta: «La
Review ha sviluppato l’economia della biodiversità osservando la natura in
termini antropocentrici e razionali. Si tratta di un punto di vista del tutto
ristretto, ma giustificabile. Infatti – si giustifica il prof. Desgupta – se la
natura dovesse essere protetta e promossa perché apprezzata unicamente per i
suoi usi per noi umani [fornitura di beni e servizi], avremmo ragioni ancora
più forti per proteggerla se riconoscessimo che ha un valore intrinseco». Cioè,
un valore non commensurabile e non negoziabile. Del resto – ricorda la Review a
riprova del suo punto di vista utilitaristico – non è bastato che gli indù
riconoscessero il fiume Gange come sacro per preservarlo dagli inquinamenti,
servirebbe anche un corretto ragionamento economico, una “lente
antropocentrica”.
Georgescu-Roegen
La Economics of Biodiversity – a me sembra – deve un tributo alla teoria
bioeconomica fondata da Georgescu-Roegen (The Entropy Law and the Economic, 1971).
La scommessa dell’Economia della biodiversità (da non confondere con le
tecnologie di produzione che tentano di usare biomasse “no food” come materie
prime “riproducibili” e “riciclabili”) parte dal riconoscimento della
dipendenza di ogni nostro bene – così come di “ogni respiro” – dal buon
funzionamento dei processi naturali. Per cui «la rigenerazione della biosfera è
la chiave per la sostenibilità dell’impresa umana». Di più. Dobbiamo imparare a riconoscere che «ognuno
di noi è un elemento di molti ecosistemi». Siamo incorporati nella
natura e a nostra volta conteniamo svariati ecosistemi microbici. «La biosfera
è il più grande ecosistema di cui siamo solo un elemento: è la nostra casa».
Essendo al suo interno, dipendiamo interamente da essa, non solo per la
sopravvivenza e per il nostro benessere. «I beni e i servizi della natura sono
le fondamenta delle nostre economie». Quindi serve una teoria e una pratica
economica che prenda in considerazione per intero i “servizi di fornitura”
multifunzionali, gratuitamente e generosamente offerti dalla biosfera. Non solo
cibo, acqua, fibre, legname, medicine… ma anche manutenzione e regolazione del
clima, della fertilità dei suoli e della pescosità dei mari, dell’idrologia,
dell’impollinazione… Le
correlazioni tra sistemi di vita umana e salute degli ecosistemi sono fitti e
infiniti. Pensiamo alla dieta, all’urbanizzazione, alle catene di
approvvigionamento delle materie prime, alle pratiche agricole, alle
consuetudini comunitarie e ai diritti di proprietà… fino
all’influenza che ha l’autonomia delle donne sul controllo della fertilità e
quindi sulla demografia.
L’Economia della biodiversità di Partha Sarathi Dasguptan non sposa
una prospettiva esplicitamente post-capitalista, tantomeno anticapitalista. Ma
va oltre quella idea di “sostenibilità debole”, che cerca di conciliare le
contrapposte esigenze delle imprese e degli stati di crescita dei fatturati e
del Pil con la preservazione della natura. La proposta della Economics of
Biodiversity si presenta però diversa da quella tradizionale della
Environmental Economics. Qui i vincoli ecosistemici sono assunti come
incomprimibili, mentre nelle tradizionali politiche ambientali sono flessibili
e negoziabili. L’esempio più noto è la creazione di mercati dei permessi di
inquinamento, tramite i meccanismi “cap and trade”: stabilisci un limite alle
emissioni e attribuisci loro un valore commerciale. È proprio su questi
meccanismi di mercato (crediti di carbonio) inventati dal protocollo di Kioto
nel lontano 1997 che ancora si concentrano le trattative in vista della 26 Cop
sul clima di Glasgow in programma a novembre.
Ecologia e
mercato
La Review di Dasgupta si presenta come una sfida diretta, sul loro
terreno, ai tanti riformatori del sistema che, da Dovos a Bruxelles, da Biden a
Ursula von der Leyen, lavorano al “Great Reset of Capitalism”, alla
trasformazione etica ed ecologica del mercato. La soluzione della difficile equazione tra valori
economici e naturali passa per la ridefinizione della nozione di ricchezza, di
progresso, oltre che di economia. «Il Pil è un indice fuorviante di successo
economico, perché non contempla il patrimonio naturale» che viene utilizzato
nei cicli produttivi. Così come il sistema dei prezzi di mercato non riesce a
includere tutti i valori d’uso generati dai servizi ecosistemici, quali i
benefici per la salute, la soddisfazione e il piacere del vivere in un ambiente
sano. L’economia della biodiversità suggerisce di elaborare una misura di
“inclusive wealth” che riesca a calcolare la redditività sociale
trasgenerazionale della biosfera. Vale a dire «incorporare il capitale naturale
e i servizi ecosistemici nelle metriche economiche», in modo da «comprendere e
apprezzare il posto dei servizi della natura nelle nostre economie». La
“ricchezza inclusiva” (comprensiva) verrebbe quindi registrata da prezzi (“accounting
price”) capaci di contabilizzare il valore del patrimonio naturale. Si
tratta però di un’arma pericolosissima a doppio taglio. Se da una parte,
infatti, la contabilizzazione del “capitale naturale” offre molti vantaggi,
poiché: «consente di comprendere e apprezzare il posto dei servizi della natura
nelle nostre economie, compresi i servizi che di solito vengono trascurati;
permette di tracciare nel tempo i movimenti di capitale naturale (prerequisito
per la valutazione della sostenibilità); offre un modo per stimare l’impatto
delle politiche sul capitale naturale», d’altra parte può ingenerare la
rischiosa idea che gli stock e i servizi ecosistemici (che gli economisti hanno
chiamato “capitale naturale”) possano essere equiparati, sostituiti,
commercializzati come si fa con gli altri “capitali” e con gli altri mezzi e
strumenti antropici impiegati nei processi produttivi. Tramite il denaro, astratto “equivalente
generale”, la natura viene sussunta nel mercato e dissoluta nell’accelerazione
dell’entropia del sistema (“eutanasia antropica”, come la chiamava
Enzo Tiezzi). Breve è il passo verso la finanziarizzazione del “capitale
naturale”. La ong Re:common (Biodiversity offsetting. Licenza di distruggere)
ha documentato vari casi di multinazionali che riescono a mettere a valore
estese aree in “paesi in via di sviluppo” attraverso la stima del valore
monetario della loro biodiversità, così da poter “compensare” lo sfruttamento
minerario e agricolo di altri territori. Una nuova forma di colonialismo del carbonio.
Scendere con il ragionamento sul terreno economico-monetario significa
consegnare la natura alla logica del mercato; offrire argomentazioni falsi
all’idea che “pagando si può”. La valutazione monetaria (valorizzazione) non è
uno strumento neutro, porta a conseguenze pratiche e ha implicazioni etiche.
Insomma l’Economia della biodiversità di Partha Sarathi Dasguptan
prospetta un’uscita solo a metà dal mercato dove, comunque, le comunità locali, da una
parte, e gli stati, dall’altra, dovrebbero giocare un grande rinnovato
ruolo. Le “communidades”
dovrebbero riuscire a gestire direttamente gli ecosistemi locali
geograficamente definiti attraverso meccanismi virtuosi di cooperazione e autogoverno.
I secondi, i governi, dovrebbero mettere in campo sistemi di tracciabilità
delle catene di approvvigionamento, promuovere tecnologie basate sulla natura,
imporre tasse e sovvenzioni, divieti e regolazioni, sistemi trasparenti di
compensazione… tali da cambiare i modelli di produzione e di consumo.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di «Lasciare in pace la natura in modo che
sia in grado di prosperare».
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